Al confine tra Libia ed Egitto, dove salafiti e sufi sono ai ferri corti

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Dal confine di Sallum passa qualsiasi cosa. Prima che la polizia di frontiera libica riprendesse il controllo della dogana, ogni giorno traffico e contrabbando hanno attraversato questa linea che divide il deserto egiziano da quello libico. «Che in Libia ci sia ogni tipo di armi, non mi stupisce, non ho mai visto quantità così ingenti di sigarette, droga, vetture rubate, ogni sorta di abbigliamento arrivare nelle mani di chiunque come negli ultimi due anni», ammette Taher. «All’improvviso chi non aveva alcuna legittimità sociale si è trovato a poter comprare terreni e costruire case», prosegue. «E i beduini del villaggio di Eddin continuano ancora oggi nei contrabbandi. Sono pronti a pagare se esponenti della loro famiglia vengono rapiti per liberarli», chiarisce il giovane. Da Bengasi a Sallum e fino a Marsa Matruh, quindici ore di microbus verso Alessandria d’Egitto, è un via vai continuo di uomini in galabeya (lunga tunica bianca). Queste terre hanno attraversato due rivolte, gli incendi dei palazzi pubblici delle proteste anti-Mubarak e le migliaia di esuli della guerrilla libica.

Lo scontro per il controllo delle saline di Siwa

A pochi chilometri da Sallum sorge l’Oasi di Siwa. Decine di beduini attendono una risposta sulla sorte di sette persone, coinvolte in una sparatoria all’alba alle porte della polizia locale. «Non avevamo mai assistito a tanta violenza», ci spiega Khaled, uno di loro. E proprio lo scontro tra i tradizionali capi tribù locali e i salafiti, che qui, dopo le rivolte del 2011, controllano il consiglio locale, rompe la tranquillità tra i palmeti. «Gentili visitatori, le donne coprano le gambe e l’avambraccio», si legge sui cartelli all’ingresso del suk del villaggio.

Lo scontro che ha svegliato questo luogo remoto nasce per il controllo delle tonnellate di sale che vengono estratte nelle saline che circondano i laghi del deserto di Siwa. «Dallo scoppio delle rivolte al Cairo i capi tribù appaiono inquieti – continua Khaled – Hajj Bilal (leader tribale, ndr) ha acquisito, decenni fa, i terreni contestati. Ma ora (gli islamisti, ndr) hanno intenzione di praticare una ridistribuzione che rompe le consuetudini locali». La vera novità in quest’Oasi remota è venuta con la presa di posizione dei giovani Siwi, principalmente salafiti e Fratelli musulmani, che si sono mobilitati contro le quattro famiglie che godevano della proprietà terriera fino a quel momento. «Hanno iniziato contestando gli affari che Hajj Bilal aveva con l’esercito e sono arrivati a mettere in discussione la proprietà del sale estratto dai laghi salati», rivela il giovane. Questo meccanismo concedeva ai capi tribali di controllare gli introiti delle esportazioni dalle saline.

Nei primi sit-in i giovani Siwi urlavano: «Questo lago non appartiene a Bilal!». Dopo le elezioni e con la schiacciante vittoria del partito salafita Al-Nour è stato formato un comitato permanente che ha spinto per una completa ridistribuzione delle terre. Questo spiega le sparatorie di queste settimane. La quantità di armi, senza precedenti, in dotazione dei familiari di Hajj Bilal ha spinto alcuni tra loro a sparare contro gli islamisti, attivi per la ridistribuzione delle proprietà terriere. «Uno di coloro che ha sparato, era lo zio di mia moglie. Non è accettabile che si mettano in discussione contratti già firmati per volontà di questa gente», aggiunge Khaled, rivelando la sua appartenenza al clan di Hajj Bilal.

La resa dei conti tra sufi e salafiti

Nella «Repubblica islamica di Siwa» le critiche si sono così spostate contro chi non segue i costumi salafiti. Per le strade di quest’Oasi è impossibile vedere una donna che non abbia il velo. Le nubili sono coperte integralmente, neppure gli occhi emergono nel nero intenso del loro nikab. Le madri, che hanno una funzione sociale essenziale all’interno delle famiglie, oltre al velo nero integrale sono avvolte in un grande scialle azzurro chiaro. Per le vie dell’Oasi camminano su piccoli carretti, trainati da asinelli. Spesso in tre o quattro formano un minuscolo gruppo in movimento tra le magnifiche rovine della città antica.

Siwa è immersa nell’acqua che riemerge nelle fonti e nei rivoli dei torrenti che la circondano. E così sono fiorite le industrie che producono acqua in bottiglia, mentre dai palmeti arrivano i datteri che in gran quantità vengono esportati in tutto il mondo. Non solo gli uliveti danno nutrimento a migliaia di contadini che imbottigliano olio pregiato. Questa calma apparente nasconde le irrisolte tensioni religiose tra sufi e salafiti.

Il vecchio sheikh dell’antichissima moschea Al-Athiq difende in ogni modo la sua identità: «Sono sufi, siamo in tantissimi qui e perseveriamo nelle nostre tradizioni». Sheikh Abdallah fa la lista delle festività sufi (mawlid) che hanno luogo tutto l’anno nell’Oasi e ci racconta degli incontri del giovedì sera quando i mistici, in circolo, danzano e basculano come nella tradizione del culto dei santi. A Siwa sono attive tre confraternite sufi, ma sono soprattutto gli anziani a portare avanti un culto, malvisto da salafiti e Fratelli musulmani.

«Sono pochissimi i sufi di Siwa», controbatte Abu Qader, esponente del partito salafita al-Nour. Gli estremisti islamici qui vengono visti come uomini semplici, dalla parte dei poveri. Incontriamo Qader mentre costruisce la sua casa tra le nuove abitazioni di al-Tubuh. La sede di al-Nour è nata al secondo piano di una drogheria in un minuscolo palazzo nuovo. «Siamo il partito più grande a Siwa, l’80 percento dell’Oasi, non dico 100 per rispetto verso il presidente Morsi e i Fratelli musulmani», assicura l’uomo soddisfatto della sua barba incolta. «Lavoriamo per i poveri e per il rispetto dell’Islam, vorremmo che l’ospedale fornisse nuovi servizi e ci riusciremo», aggiunge.

«I sufi sono sempre di meno, sono lontani dalla retta via del profeta», conclude Abu Qader prima di tornare al suo lavoro. Anche a Siwa sono arrivate le notizie delle gravi violazioni ai luoghi di culto sufi che hanno colpito questa regione. Dalla caduta del regime di Gheddafi, decine di tombe sufi sono state prese d’assalto a Tripoli. Per prevenire ulteriori assalti, i sufi egiziani, che non hanno ottenuto la legalizzazione di un partito politico, stanno formando comitati popolari contro le incursioni salafite. Alaaeddin Abul-Azayem, fondatore della confraternita sufi Azamiyya ha assicurato che questo è l’unico modo per evitare che si ripetano gli incendi ai mausolei sufi di Tanta e Mounoufiya dei mesi scorsi.

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Nella foto: uno scorcio dell’oasi di Siwa

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