Da Reset-Dialogues on Civilizations
Aspettare un presidente, 8 milioni di schede al vaglio (Ilaria Romano)
In Afghanistan si continuano a passare in rassegna, una scheda dopo l’altra, i voti del ballottaggio del 14 giugno. Un’operazione complicata, che vede impegnati osservatori internazionali delle Nazioni Unite e le squadre dei due candidati alla presidenza, Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri ed ex sfidante di Karzai che rinunciò al ballottaggio nel 2009, e Ashraf Ghani, ministro delle Finanze nel governo uscente e responsabile del processo di transizione che oggi preoccupa particolarmente.
Il 5 aprile Abdullah era quasi riuscito a passare al primo turno, e comunque con il suo 45% aveva staccato Ghani di tredici punti percentuali. Al secondo turno però la situazione è completamente cambiata e lo sfidante, stando ai risultati parziali secondo l’Afghanistan’s Independent Election Commission, ha ottenuto il 56,44%. Le accuse di brogli sono state immediate. Abdullah ha parlato di corruzione dei funzionari elettorali e ha accusato Ghani di aver vinto con almeno due milioni di schede false, e un’affluenza “sospetta” alle urne, più alta che al primo turno.
Così otto milioni di schede sono finite sotto indagine, a partire dal 17 luglio, giorno in cui sono cominciate le verifiche a seguito di un accordo raggiunto con la mediazione del segretario di stato Usa, John Kerry. Da allora sono state analizzate solo 22 mila schede, circa il 4,5% del totale. Numeri che rendono l’idea di quale sia la mole di lavoro ancora tutta da affrontare, soprattutto se per ogni singola preferenza espressa si può aprire un dibattito di legittimità fra le squadre di esperti delle due parti in causa, dato che nessuno ha stabilito preliminarmente dei criteri univoci per dichiarare valido o meno ogni voto.
Come ha raccontato il corrispondente del New York Times Mattew Rosenberg, la scritta Insh’allah accanto al nome del candidato ha aperto un dibattito sull’opportunità di dichiarare nullo quel voto. E tutto questo deve essere moltiplicato per otto milioni per avere un’idea di quali potranno essere i tempi di verifica, sempre che non si giunga ad un compromesso politico.
Se Abdullah riconoscesse la vittoria a Ghani potrebbe negoziare un ruolo nel nuovo esecutivo, e d’altra parte, in base a quanto definito con gli Stati Uniti, la soluzione dovrebbe essere un governo di coalizione che includa entrambe le parti. Già nel 2009 aveva chiesto un ballottaggio equo con Karzai, tacciando la Commissione elettorale di brogli al primo turno, e poi si era di fatto sfilato dalla competizione lasciando da solo il presidente uscente e riconfermandolo come l’unico eleggibile rimasto in lizza.
Nel frattempo resta in stallo anche il futuro della presenza internazionale nel paese. Karzai ha rifiutato di firmare un accordo con Washington per il “dopo 2014”, ma il suo successore potrebbe non avere ancora un nome quando ai primi di settembre i paesi Nato coinvolti in Isaf dovrebbero riunirsi per discutere la fine della missione.
Ad Ovest della missione: gli italiani di Isaf (Raffaella Angelino, Herat)
Lo stallo politico ha contribuito non poco alla difficile gestione della sicurezza all’interno del paese, proprio nel momento di massimo rischio di attacchi da parte della cosiddetta “insurgency”, ideologizzata e non. Il paese si trova in piena “fighting season”, il periodo estivo durante il quale si concentra l’azione offensiva, solo in parte fiaccata dal mese di ramadan (ramazan in Afghanistan). Nel settore Ovest del paese, in particolare, che a livello Isaf-Nato si trova sotto il comando militare italiano, gli episodi di violenza direttamente legati al processo elettorale sono stati abbastanza circoscritti e le forze di sicurezza afghane hanno avuto una maggiore capacità di controllo del territorio rispetto a quanto è accaduto (e accade) nelle zone più “calde”, a est e a sud del paese.
Lo conferma l’analisi del generale italiano Manlio Scopigno che il 18 febbraio di quest’anno ha assunto il comando del Regional Command West (su base Brigata Sassari): «Generalmente, nella fase estiva il trend di attacchi da parte dell’insorgenza aumenta. Invece, il dato registrato recentemente va controcorrente, il che potrebbe essere legato alla concentrazione degli attacchi durante il periodo delle elezioni, con conseguente calo “fisiologico”; al ramazan che rende tutti più deboli; infine, non è escluso che il “ricambio” nell’insurgency sia stato di scarsa qualità». I tentativi di «disarticolazione del processo elettorale» non sono certamente mancati anche in quest’area, dove – spiega Scopigno – prevale per lo più il fenomeno delle bande criminali dedite al contrabbando o ai traffici illeciti di armi e droga.
Non che questo renda il terreno della zona Ovest meno pericoloso, né il compito delle inesperte forze militari afghane meno gravoso. Per quanto la sicurezza interna sia ormai nelle loro mani, l’assistenza della comunità internazionale per portare avanti il processo di rafforzamento delle autorità locali resta di fondamentale importanza per arginare l’azione destabilizzatrice degli insurgents. Le parole chiave della missione al momento sono: addestramento, consulenza e supporto.
Questo non ferma il processo di “smobilitazione” in corso, il redeployment, alla fine del quale mezzi e materiali saranno riportati in Italia, con numeri (e investimenti) di portata eccezionale. Si tratta della più grande operazione logistica dell’esercito dalla Seconda Guerra mondiale, dal nome più che mai evocativo: “Itaca2”. Parliamo di «11 chilometri lineari» di materiale da riportare a casa attraverso un servizio di trasporto aereo e marittimo affidato alla società Saima Avandero. Per dare un’idea delle dimensioni dell’operazione: riempire una nave necessita di 30-50 voli Ilyushin; un volo di Ilyushin costa circa 60 mila euro; a fine luglio due Antonov forniti da ditte ucraine trasporteranno due elicotteri Ch47. Lo scalo aereo è negli Emirati; poi dal porto di Dubai le navi partono alla volta dell’Italia (destinazioni varie), passando per Gibuti. I materiali “strategici” (Mangusta, munizioni e gli altri sistemi d’arma) fanno rientro invece con voli diretti per l’Italia. Le strutture fisse resteranno invece tra queste montagne perché costerebbe più smontarle e trasportarle in patria che costruire basi nuove. Probabilmente saranno cedute al governo afghano o vendute: su questo punto le notizie non sono certe.
Quello che resta senz’altro in terra afghana è la grande specializzazione degli uomini e delle donne in divisa che stanno cercando di trasferire esperienza e competenza alle forze afghane. Mentre all’esterno l’attività è finalizzata essenzialmente ad ottenere risultati di lungo periodo, soprattutto grazie alla messa in sicurezza di un territorio in cui i cittadini afghani dovrebbero poter circolare liberamente e senza paura. La minaccia più subdola per tutti restano sempre gli Ied, i famigerati ordigni improvvisati, piazzati in “punti vulnerabili”. Non a caso, una delle operazioni più complesse eseguite dai militari italiani in questa fase è l’installazione di un nuovo sistema di contrasto a questa minaccia. Il dispositivo è chiamato “Culvert denial system”. Agli inizi di luglio ne è stato installato uno lungo la “Ring Road”, nel distretto di Adraskan, 50 chilometri a sud di Herat. Tutta l’operazione, alla quale abbiamo assistito, è durata circa 5 ore. Dalle prime luci della mattina, i militari del Genio hanno lavorato al posizionamento di grate metalliche, dotate di un particolare congegno che consente il monitoraggio remoto (e dunque l’intervento in caso di manomissione), alle estremità di un canale di drenaggio delle acque, chiamato culvert, presente sotto il manto stradale.
L’operazione è stata agevolata dalla presenza della polizia afghana che ha bloccato il traffico. La situazione ha provocato il crearsi di capannelli di uomini alla guida di vecchie auto o di motociclette stracariche, mentre alle donne velate era unicamente consentito di eclissarsi nei campi aridi e bruciati dal sole che circondano i villaggi venuti su a terra, fango e sassi.
Operazioni simili, già programmate, hanno lo scopo di aumentare la libertà di movimento nonché la percezione di sicurezza sul territorio mentre le chiavi del paese stanno tornando nelle mani degli afghani. «Il ritiro delle truppe internazionali è connesso alle volontà delle autorità politiche», sottolinea il generale afghano Mohaiuddin Ghory, capo di Stato maggiore del 207° Corpo d’Armata, operativo nella regione Ovest, incontrato nel quartier generale di Camp Zafar. «Tuttavia, indipendentemente dal futuro, noi siamo pronti a garantire la sicurezza del nostro paese». Sulle sfide che le forze afghane si troveranno ad affrontare, il generale non si esprime, ma spende parole di riconoscenza verso la missione internazionale e implicitamente si augura che “l’opzione zero” (un ritiro tout court) sia scongiurata: «In Afghanistan non c’erano istituzioni politiche e militari, il paese era totalmente nelle mani degli insurgents, alle donne non era consentito studiare, l’economia era al collasso, le infrastrutture distrutte. Quello che non c’era, oggi c’è. Per quello che riguarda il nostro esercito – continua il militare afghano – siamo stati in grado di provvedere alla sicurezza durante il primo e il secondo turno delle elezioni presidenziali. C’è stato un importante lavoro di coordinamento tra le forze di sicurezza presenti sul territorio che hanno affrontato tutte le tematiche connesse alla sicurezza attenendosi alle indicazioni della Commissione elettorale internazionale».
In effetti, durante il complesso processo elettorale, in tutta l’area Ovest, il ruolo del contingente militare italiano, su richiesta delle istituzioni afghane, è stato limitato al supporto aereo, all’evacuazione dei feriti e all’intelligence. Ed è in particolare in questi campi che prosegue l’addestramento, per favorire il salto di qualità, dal livello “artigianale” ad uno più professionale.
Cosa cambierà nel 2015 è una grande incognita. Di certo, la missione militare è entrata in una fase nuova, pur senza clamore mediatico. Per esempio, non ha avuto la risonanza dell’evento il cambio di denominazione dell’assetto del contingente italiano in Afghanistan da Rc-West (Regional Command West) a Taac-West (Train Advise and Assist Command West), avvenuto il 16 luglio. Un passaggio non solo formale. Se fin dalla sua istituzione, nel 2005, l’obiettivo di Rc-West è stato quello di assistere lo sviluppo delle fragili istituzioni afghane, agevolare il loro consolidamento e garantire la sicurezza dell’area, oggi il nuovo assetto è funzionale ai futuri traguardi. Solo al termine del processo di transizione scopriremo se «il bambino sarà in grado di andare in bicicletta senza sostegni». Probabilmente cadrà, mette in chiaro il generale italiano Scopigno, ma a quel punto dovrebbe aver imparato a rialzarsi senza problemi. Di certo, ci sarà da pedalare parecchio.
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Immagina: cittadini afghani al voto nel 2004
Sino a che non verrà sancito che i Governi tutti, debbano essere assolutamente laici, avremmo sempre chi, sfruttando i vari credi religiosi, cercherà di sopraffare gli altri, imponendo le regole più assurde e cancellando qualsiasi speranza o parvenza di democrazia. Chi governa in nome di una qualsiasi religione, sa bene di poter sfruttare la fede in essa, di una enorme massa popolare, per compiere qualsiasi nefandezza per cui, potremmo inviare tutte le forze di pace possibili ma i risultati che si potranno ottenere non saranno mai paragonabili alle energie impiegate. Questo vuol dire che da settembre la presenza internazionale in Afghanistancon le forze ISAF debba finire? Penso di si, anche se ritengo che l’ONU debba mantenere dei propri osservatori e debba impegnarsi per raggiungere quanto detto all’inizio. So bene che è un’utopia ma, talvolta, se si è in tanti a condividere la stessa utopia, questa può diventare un’idea percorribile.