Da Reset-Dialogues on Civilizations
Lunedì 29 settembre si chiuderà il sipario sul lungo governo di Hamid Karzai, al potere dal 2001. Al suo posto, nell’ampia residenza dell’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, si insedierà Ashraf Ghani, la cui nomina verrà suggellata con una cerimonia solenne ma meno festosa del previsto. Gli afghani e la comunità internazionale avrebbero voluto celebrare “il primo trasferimento pacifico e democratico di potere nella storia recente” del paese centroasiatico, ma le cose non sono andate per il verso giusto. La transizione è avvenuta in modo perlopiù pacifico (per gli standard afghani), ma tutt’altro che democratico (perfino per quegli standard). Ashraf Ghani, ex ministro delle Finanze e rettore dell’università di Kabul, già alto funzionario della Banca mondiale e docente in prestigiose università degli Stati Uniti, è il nuovo presidente della Repubblica islamica d’Afghanistan, ma nessuno può dire con certezza quanto abbiano contribuito le frodi nel determinare la sconfitta dello sfidante, l’ex ministro degli Esteri Abdullah Abdullah.
Dalle urne al negoziato politico
Più che il legittimo risultato del voto, l’elezione di Ashraf Ghani è infatti il frutto di un lungo e defatigante negoziato politico che si è protratto per mesi. Subito dopo il ballottaggio del 14 giugno, Abdullah Abdullah ha denunciato le frodi su “scala industriale” che sarebbero state commesse a suo danno con la complicità di alcuni esponenti della Commissione elettorale indipendente, i quali avrebbero aiutato il tecnocrate Ghani a recuperare il distacco del primo turno, quando tra otto candidati Abdullah Abdullah ottenne il 45% dei voti (2 milioni e 970mila), e Ghani soltanto il 31.5% (circa 2 milioni). All’annuncio dei risultati preliminari del ballottaggio – che attribuivano a Ghani 1 milione di voti in più rispetto ad Abdullah – l’ex consigliere del comandante Massud ha pensato di forzare la mano, mobilitando i suoi sostenitori, organizzando proteste, manifestazioni, picchetti per le strade di Kabul, mentre alcuni membri del suo staff lasciavano trapelare l’ipotesi minacciosa di un governo parallelo e, quindi, di una frattura del paese per linee etniche (tagiki versus pashtun), preludio di una nuova guerra civile.
Abdullah è così riuscito a ottenere il riconteggio totale dei voti, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, mentre l’eventualità di un nuovo conflitto ha allarmato la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato: il 12 luglio il segretario di Stato Usa John Kerry è stato inviato a Kabul, dove ha messo subito le cose in chiaro. Senza un accordo politico, ha sostenuto Kerry, gli Stati Uniti avrebbero interrotto ogni forma di sostegno – finanziario e militare – all’Afghanistan, la cui economia si regge prevalentemente sugli aiuti internazionali. L’8 agosto Kerry è tornato nella capitale afghana, dove ha presieduto alla firma di un accordo preliminare per un governo di unità nazionale. Da allora e fino a sabato 20 settembre Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani hanno litigato sulla spartizione del potere. Il primo, convinto di essere stato frodato, chiedeva di più; il secondo, certo di essere eletto presidente, recalcitrante a cedere fette di potere. Domenica 21 settembre finalmente hanno trovato l’intesa e firmato un nuovo, definitivo accordo di 4 pagine, sotto gli occhi di Jan Kubis, rappresentante della missione Onu in Afghanistan (a breve lascerà l’incarico a Nicholas Haysom), dell’ambasciatore statunitense a Kabul, James Cunningham, e del presidente uscente Hamid Karzai. Davanti alle telecamere, si sono detti tutti soddisfatti, ma al di là delle rituali frasi di convenienza rimangono molte incognite.
Cosa prevede il governo di unità nazionale
Nelle 4 pagine firmate da Abdullah e Ghani sotto gli occhi scrupolosi dei partner internazionali si delinea infatti un futuro istituzionale anomalo e precario, perché legato a un governo bicefalo. Il presidente rimane sulla carta la più alta autorità del paese, ma accanto a lui l’accordo introduce una nuova figura istituzionale, quella del Chief Executive Officer (Ceo), che verrà nominato durante la cerimonia per l’insediamento del nuovo presidente e che avrà i poteri di “un primo ministro”. Se al presidente spetta presiedere il Gabinetto di governo (Kabina), con il compito di determinare le scelte strategiche, al Ceo spetta la presidenza di un nuovo organo, il Consiglio dei ministri (Shura-e-Waziran), che ha il compito di monitorare e realizzare le scelte del Gabinetto. Abdullah ha ottenuto inoltre che le nomine più importanti siano divise equamente tra il presidente e il “primo ministro”. Secondo alcune indiscrezioni, i ministri dell’Interno e delle Finanze verranno scelti da Ghani, mentre quelli della Difesa e degli Esteri da Abdullah. Il negoziato politico ha dunque prodotto un prototipo sperimentale di ingegneria istituzionale, che riduce i rischi sul breve periodo ma che rischia di produrne molti in futuro.
Non a caso, tra gli analisti si è aperto il balletto delle previsioni. C’è chi scommette che un simile governo, soggetto a spinte centrifughe prima ancora di essere inaugurato, duri poco. Chi teme, come Scott Smith, direttore dei programmi su Afghanistan e Asia centrale per lo U.S. Institute of Peace, che finisca per “istituzionalizzare la rivalità che ha paralizzato l’Afghanistan nel corso dei mesi passati”, rendendo più difficile quelle riforme nel campo della governance di cui il paese ha disperato bisogno. Chi si dice convinto che le agende politiche di Abdullah e Ghani siano talmente diverse da risultare incompatibili, tanto più nei prossimi mesi, quando verranno meno gli ingenti aiuti finanziari degli stranieri grazie ai quali Karzai si è assicurato negli anni la stabilità politica interna. E c’è infine chi ricorda la sfida più importante che il governo “Ghanidullah” – come è stato ironicamente battezzato – dovrà affrontare: riconquistare la fiducia degli elettori.
Cittadini disillusi
Nel suo primo discorso dopo l’annuncio della vittoria, Ghani ha insistito nel dire che l’accordo trovato con Abdullah non riflette una semplice spartizione del potere, che l’estenuante negoziato rinforza l’unità nazionale ed esclude rischi potenziali di frammentazione interna. Ma più che l’unità nazionale, ad uscire rinforzata da mesi di discussioni, pugni sui tavoli, negoziati notturni, conferenze stampa incrociate, è la disillusione degli afghani. In molti si sono recati alle urne per voltare pagina, per archiviare la lunga parentesi del governo Karzai, per reclamare istituzioni stabili ed efficienti, invocando il primato del voto e della volontà popolare sugli accordi di palazzo di una leadership corrotta e predatoria. A distanza di mesi, si ritrovano con un governo nuovo, sì, ma frutto della forma più antica e meno nobile della politica: la spartizione del potere, negoziata a porte chiuse e imposta dall’esterno.
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Nell’immagine: John Kerry con Ashraf Ghani (destra) e Abdullah Abdullah (sinistra)