Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nell’anno del completamento della transizione, l’ormai prossimo appuntamento elettorale (le presidenziali del 5 aprile), apre in Afghanistan nuovi scenari a livello locale e internazionale: quali saranno le forze in campo nel “dopo Karzai”, con il ritiro delle truppe Nato, e come si riequilibreranno i poteri in un paese politicamente e militarmente sempre in bilico?
Lo scorso 23 febbraio al confine con il Pakistan, nella provincia di Kunar, c’è stato un attacco dei combattenti talebani contro un avamposto delle forze di sicurezza afghane, quelle che stanno raccogliendo il testimone dai militari stranieri e che un domani ormai prossimo dovranno garantire la sicurezza del paese. Ne sono stati uccisi 21.
Secondo i dati dell’Ufficio Affari Amministrativi di Kabul riportati da Al Jazeera, negli ultimi dieci anni di guerra sono morti almeno 13 mila 700 soldati dell’esercito “ufficiale”, e almeno altri 16 mila 500 sono rimasti feriti in attacchi e scontri con forze di opposizione che non riconoscono il governo in carica. L’Ufficio ha anche precisato che le famiglie dei caduti, quasi tutte, sono state risarcite perché il paese ha deciso di sostenerle in nome di un “dovere religioso, nazionale e ufficiale”. Eppure le critiche al governo per la gestione della sicurezza, e per aver cercato più volte il dialogo con le frange talebane, non sono mancate. Proprio dopo la strage di Kunar c’è stata anche una manifestazione di denuncia, che ha coinvolto molti studenti del paese, per lo scarso sostegno ai soldati che combattono le forze antigovernative.
Nel frattempo anche gli attentati contro i civili si stanno intensificando a ridosso della data del voto. Il 18 marzo un’esplosione nella provincia di Faryab ha fatto 17 vittime e 26 feriti, e un altro è stato sventato perché l’uomo imbottito di esplosivo è stato intercettato in tempo prima che potesse far scattare l’ordigno. L’instabilità crescente preoccupa, anche perché potrebbe essere aggravata, oltre che dal cambio al vertice, anche dallo stallo economico che necessariamente avverrà con 100mila soldati in meno, la chiusura delle basi e di una serie di attività che hanno finora coinvolto anche la popolazione locale impiegata dalla Nato.
La questione sicurezza ha messo in moto le potenze regionali, preoccupate delle conseguenze dirette sul proprio territorio causate dall’instabilità dei vicini. In quest’ottica la Turchia ha ospitato Afghanistan e Pakistan, antagonista e allo stesso tempo alleato di Kabul nella lotta al terrorismo, per l’ottavo vertice trilaterale sul tema della “pace sostenibile nel cuore dell’Asia”. Lo scorso 13 febbraio il presidente Abdullah Gül ha ricevuto Hamid Karzai e il primo ministro pakistano Nawaz Sharid, in una fase particolarmente delicata fra i due vicini di casa, che se da un lato dialogano e sembrano cooperare su un fronte comune, dall’altro si sono scambiati accuse di fiancheggiamento del terrorismo. Che Karzai stia trattando con il fronte talebano è apparso chiaro con il rilascio di 65 presunti combattenti dalla prigione di Bagram, mal visto dagli Usa che si preparano al ritiro. Che il Pakistan avrà un ruolo chiave nella mediazione tra fazioni in quella che sarà la formazione del nuovo governo di Kabul è fuori discussione. Proprio recentemente il Pakistan sta vagliando una nuova politica di sicurezza nazionale contro il terrorismo, sulla base dei dati internazionali che vedono il paese al primo posto nel mondo per numero di attentati. Secondo il National Consortium for the Study of Terrorism anche Responses for Terrorism, il paese ha avuto più di mille e 400 attentati solo nel 2012, superando Iraq e Afghanistan, e registrato quasi 49mila vittime negli ultimi dodici anni. Numeri da guerra in un paese che ufficialmente non è in conflitto.
La Turchia ha una storia di collaborazione e mediazione con entrambi i paesi, e dal 2007 ospita questo vertice a tre allo scopo di elaborare una piattaforma comune sui temi della sicurezza e della cooperazione economica, con uno sguardo agli equilibri di tutta l’Asia Centrale e ai rapporti con la vicina Europa.
“Senza la collaborazione dei paesi vicini, è impossibile mantenere la sicurezza e la stabilità in Afghanistan – ha detto Gül ad Ankara – e allo stesso tempo la stabilità regionale non avverrà senza pace in Afghanistan, che si trova ad una svolta cruciale in cui tutti devono pensare a ricostruire il paese”. L’intenzione è di mandare avanti un dialogo cominciato insieme otto anni fa e che finora ha portato, almeno nelle intenzioni, alla decisione congiunta di combattere il terrorismo sradicandone i “santuari”, il funzionamento e il finanziamento. Nella convinzione che la comunità internazionale debba continuare a sostenere l’Afghanistan anche dopo il ritiro, incoraggiando iniziative di sviluppo socio-economico che sopravvivano alla transizione.
Il confronto a tre nel 2007 venne proposto proprio dalla Turchia, e salutato con favore dagli altri due che in Ankara vedevano già un partner non confinante, super partes, senza alcun tipo di controversia territoriale, e a maggioranza musulmana.
Le relazioni diplomatiche fra la Turchia e l’Afghanistan hanno una lunga tradizione, sin dal 1919. La Turchia è presente nel paese come forza Nato dal 2001, quando con la Risoluzione 722, la Grande Assemblea Nazionale Turca ha autorizzato il Governo a inviare un contingente, inizialmente di 300 unità, diventate oltre mille nel 2013. Ed è l’ottava nazione su cinquanta per numero di presenze in Afghanistan.
Ankara ha anche contribuito alla formazione della polizia e dei soldati locali, con l’addestramento di almeno 12mila 500 unità. Nel 2011 ha sottoscritto un accordo sotto l’egida della Nato per la formazione degli agenti di polizia di Kabul nella scuola turca di Sivas. La sua polizia sta fornendo una formazione specifica sul contrasto agli stupefacenti, oltre ad aver attivato canali civili di specializzazione per il personale sanitario, con programmi di studio da tre mesi a un anno. Insomma in termini percentuali rispetto al reddito nazionale, la Turchia è il paese che fornisce l’aiuto finanziario più cospicuo all’Afghanistan.
Con Islamabad invece ha saldato la sua relazione prima con l’istituzione dell’Organizzazione del Trattato centrale (Cento), alleanza nata nel 1959 insieme a Regno Unito e Iran, e poi con l’Organizzazione per la Cooperazione Economica costituitasi nel 1985.
Negli ultimi dieci anni, il Pakistan e la Turchia hanno ancora una volta cercato di cooperare nell’ambito della sicurezza e del contrasto al terrorismo. Rinnovare i patti con entrambi, nell’ottica di nuove possibili instabilità, e con il possibile ritorno sulla scena politica delle forze talebane, con le quali dialogano sia Karzai per l’Afghanistan che Sharif per il Pakistan, conferma il credito della Turchia non solo a livello regionale, come contraltare ai paesi del Golfo, ma anche nell’ambito dello scacchiere mondiale, con gli Usa che non ripeteranno l’errore di compiere un ritiro “totale” e la Cina che, dall’altra parte, già si pone come nuovo interlocutore politico ed economico, come confermato in un’altra trilaterale, dello scorso dicembre, fra Pechino, Kabul e Islamabad.
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