Da Reset-Dialogues on Civilizations
Se si prova a leggere la cartina dello Yemen in guerra nell’ottica delle sfere di influenza regionali, un dato salta immediatamente all’occhio: il ruolo degli Emirati Arabi Uniti (EAU) è centrale, specie nel sud e nella città di Aden, la seconda del paese.
Infatti, se l’Arabia Saudita ha concentrato gli sforzi operativi nel nord dello Yemen, soprattutto in prossimità del confine con il regno wahhabita, gli Emirati hanno fatto altrettanto nelle aree meridionali. Da subito, gli emiratini sono stati i primi partner militari dei sauditi in Yemen. Riyadh e Abu Dhabi si sono così suddivise i compiti: la prima ha guidato la campagna aerea, mentre la seconda ha coordinato le operazioni di terra della coalizione (l’ex comandante delle forze emiratine in Aden, il Generale Nasser Al-Oteibi, è un veterano dell’Afghanistan, dove gli EAU hanno combattuto, nel quadro della missione Nato-ISAF, l’insorgenza talebana nell’Helmand). Tuttavia, il governo ad interim del presidente Abd Rabu Mansur Hadi, sostenuto dalla coalizione militare, è sempre più debole, delegittimato -di fatto- non solo a livello popolare, ma proprio dall’agire quotidiano degli alleati regionali, Emirati Arabi ed Arabia Saudita, che dichiarano di appoggiarlo.
Il caso di Aden è emblematico. Questa strategica città commerciale che si affaccia sul golfo omonimo, a un passo dalla Somalia e dai network degli Al-Shabaab, è stata liberata l’estate scorsa dai miliziani sciiti che l’avevano occupata. Ciò è avvenuto grazie all’azione congiunta di esercito regolare, soldati della coalizione e miliziani locali. Tuttavia, Aden è lontanissima dalla stabilizzazione: le istituzioni, che qui si sono trasferite dopo il golpe di Ansarullah (gli huthi) nella capitale, faticano a controllare il territorio e in città cresce la presenza dei gruppi jihadisti legati ad Aqap (Al-Qaeda nella Penisola Arabica) e alle cellule del sedicente Stato Islamico. Qui, gli attentati jihadisti sono ormai divenuti quotidiani: i target sono soprattutto militari, poliziotti, giudici, capi tribali, esponenti dello stesso governo.
Un kamikaze di nazionalità olandese si è fatto esplodere nei pressi della residenza presidenziale, quando Hadi si trovava nel palazzo; un attacco alle istituzioni rivendicato dal cosiddetto califfato, così come le precedenti autobombe contro l’albergo che ospitava una riunione ministeriale, presente il premier Khaled Bahah. La violenza terrorista ha recentemente colpito perfino la casa delle suore di Madre Teresa: quattro suore sono state brutalmente uccise, insieme ad altri undici impiegati della struttura di carità, la cappella e gli oggetti sacri distrutti.
In questo scenario di anarchia violenta, la fase della ricostruzione post-conflict di Aden è però già partita, e gli emiratini ne sono i protagonisti. Secondi (solo all’Arabia Saudita) per quantità di donazioni allo Yemen, i sette emirati federati hanno finora abilmente coniugato impegno militare e aiuto umanitario, suscitando molte simpatie tra la popolazione yemenita del sud, che ha invece sempre guardato con insofferenza all’ingombrante vicino saudita, campione dell’interferenza nelle vicende interne.
Oltre alla raccolta e alla distribuzione degli aiuti umanitari, sono molti i progetti di ricostruzione messi in campo dagli Emirati Arabi: tra gli altri, riedificazione e riapertura di scuole, ospedali e ripristino della rete elettrica. La stampa emiratina ha prontamente celebrato le iniziative solidali dell’emirato degli Al-Nahyan, come la raccolta fondi della Croce Rossa locale intitolata “Yemen We Care” e gli aiuti alle isole dell’arcipelago di Socotra, oasi di biodiversità appena colpita da un ciclone.
Nella città di Aden, la ricostruzione si focalizza sulle forze di sicurezza locali: gli EAU intendono aumentare il numero dei poliziotti e delle stazioni di polizia. Tuttavia, questo attivismo politico rischia di generare nuove tensioni: infatti, più che affiancare gli sforzi delle autorità governative, le forze straniere tendono a sostituirsi a esse, interagendo direttamente con gli attori locali, come i capi tribali (shuyyukh) e i leader politici (che sono spesso le stesse persone). Per esempio, il faticoso reintegro dei miliziani della Resistenza Meridionale, che hanno combattuto contro gli huthi al fianco dell’esercito, nelle forze di sicurezza regolari viene gestito dagli emiratini, non dal governo yemenita: sono loro ad addestrare le reclute, anche in college militari negli EAU. Così, se da un lato le istituzioni ad interim non si fidano degli shuyyukh autonomisti di Aden e li marginalizzano dai posti di comando, esse vengono a loro volta scavalcate da Arabia Saudita ed Emirati nella gestione del post-conflict.
La ricostruzione è un passo essenziale per il ritorno a un livello, minimo, di sicurezza, ma quale ripresa della normalità (e dunque progetti di sviluppo) possono esistere laddove il conflitto stesso è ancora in essere, e ha acquisito il volto del jihad armato? In Aden, la situazione è talmente degenerata che, per la prima volta, proprio i Mirage degli EAU hanno bombardato i quartieri della città occupati da Aqap; in maniera inedita, anche l’Arabia Saudita ha iniziato a colpire le postazioni di Aqap a Mukalla, città meridionale dell’Hadramout in mano ai qaidisti ormai da un anno.
Nel frattempo, il conflitto yemenita continua a vivere un logorante stallo: né i filogovernativi né i miliziani sciiti sembrano in grado di prevalere militarmente. Con la recente nomina del Generale Ali-Mohsin Al-Ahmar a vice capo dell’esercito regolare, il presidente Hadi punta ad ampliare il consenso tribale in vista della battaglia per Sana’a, la capitale contesa che la fazione anti-insorti sta lentamente accerchiando. A Taiz, terza città del paese, l’esercito regolare sta riguadagnando posizioni, dopo un assedio che ha generato una grave crisi umanitaria: qui, gli emiratini si rifiutano di sostenere i numerosi miliziani di Islah (il partito della Fratellanza Musulmana), preferendo appoggiare i soli salafiti, con uno sguardo agli equilibri interni della federazione.
La mediazione tribale in corso fra i miliziani sciiti (gli huthi di Ansarullah e i fedeli all’ex presidente Saleh) e l’Arabia Saudita apre qualche margine di speranza, per lo meno in relazione alla messa in sicurezza del confine yemenita-saudita. Il negoziato diretto, seppur ancora informale, fra sauditi e Ansarullah scavalca però le istituzioni dello Yemen, indebolendole ulteriormente. In un paese così frammentato, anche la tregua assume un valore locale e non nazionale: perché a un anno dall’inizio del conflitto, lo Yemen è ormai un puzzle le cui mille tessere non riescono più a combaciare.
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Eleonora Ardemagni, analista di relazioni internazionali del Medio Oriente, collaboratrice di Affarinternazionali, Aspenia, ISPI. Gulf Analyst per la Nato Defense College Foundation.