Acqua, dalle privatizzazioni al water grabbing
Il diritto alienato a un bene (non) più comune

Da Reset-Dialogues on Civilizations

È un appello alla responsabilità quello che viene dal settimo World Water Forum, da poco conclusosi in Corea del Sud. FAO, Banca Mondiale ed altre agenzie di sviluppo dichiarano l’urgenza di agire a livello globale per contenere la depredazione dell’ambiente, in allarmante aumento in tutti i continenti. Propongono una lista di buone pratiche a disposizione dei governi, che possano in questo modo arrivare a una gestione sostenibile delle risorse idriche entro il 2030. Si è parlato di sviluppo economico che punti all’inclusione sociale, nell’ambito di questo coordinamento di istituzioni politiche, aziende, accademie e organizzazioni internazionali. Una strategia tuttavia poco incisiva quella del Water Forum, che inoltre, secondo larga parte del movimento ambientalista, sarebbe “monopolizzata dalle multinazionali”. Non compare l’espressione diritto naturale all’acqua nella presentazione dell’iniziativa, in effetti. Nessuna menzione al water grabbing.

Di water grabbing si parla poco in generale. Sorella del land grabbing, e ad esso inevitabilmente legata, questa espressione si riferisce all’accaparramento illegittimo delle risorse idriche, ovvero all’insieme di attività attraverso le quali attori politici o economici assumono il controllo di fiumi, laghi, mari ed oceani. Dalla costruzione di dighe e altre barriere artificiali alla contaminazione delle acque, dalla chiusura dei bacini d’acqua alla privatizzazione dei canali di distribuzione, sono varie le forme di deturpazione di questa risorsa. Colture e pesca intensive, industrie, attività minerarie ed estrattive, urbanizzazione e occupazioni politico-militari hanno nel corso degli anni provocato una drastica riduzione dei bacini a disposizione delle comunità di agricoltori e pescatori.

La tutela di un ecosistema acquatico incontaminato è un valore intimamente connesso ai diritti civili, alla sanità e alle possibilità di sopravvivenza delle economie tradizionali. Quasi mille bambini muoiono ogni giorno di diarrea legata all’ingestione di acque inquinate e a scarse condizioni igieniche; la Repubblica Democratica del Congo, il Mozambico e Papua Nuova Guinea sono tra i Paesi in cui oltre metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile.

Tra i “carnefici” non troviamo solo le multinazionali del business: spesso conniventi con le attività delle compagnie private, i governi sono addirittura in altri casi i veri protagonisti nelle attività di deforestazione, costruzione di dighe, deportazione di popolazioni e stravolgimento delle economie locali. Il water grabbing favorisce l’agribusiness in Argentina, l’attività mineraria in Colombia, l’estrazione dell’oro in Perù, e dei metalli che finiscono nei nostri smart phone in Cile, ricorda Alejandro Camargo della Syracuse University (New York, USA).

Volgendo lo sguardo all’Asia, il maggiore lago salato del Medio Oriente, il lago iraniano Urmia, ha perso ben 90% del suo volume negli ultimi 10 anni, e i principali fiumi del Paese stanno cambiando natura, ridotti a ruscelli. Una serie di crisi ambientali (perdita di bio-diversità, deforestazione, inquinamento del suolo, tempeste di sabbia e drastico calo delle risorse d’acqua) rischia di compromettere per sempre il delicato ecosistema locale.

Ma, di questi tempi, i difensori del diritto all’acqua incassano anche successi. È recente la decisione del Tribunale di Giacarta di annullare in molti settori la privatizzazione di acqua, dichiarando nulli gli appalti e “negligenti” le partnership pubblico-private responsabili della gestione della risorsa. Come Giacarta, anche Parigi, Berlino, Budapest, Buenos Aires, Accra, Dar Es Salaam, Kuala Lumpur hanno decretato il fallimento delle privatizzazioni.

Esistono oggi a livello mondiale forme di coordinamento e condivisione delle esperienze; il water grabbing inizia ad essere finalmente noto a quella parte dell’opinione pubblica mondiale sensibile ai temi ambientalisti. Se ne è parlato ad esempio ampiamente a Tunisi, in occasione del 13mo Forum Sociale Mondiale (24-28 Marzo 2015) in una serie di tavole rotonde curate tra gli altri da COSPE, La Via Campesina, FIAN International, Comitato Italiano Contratto Mondiale sull’acqua, Transnational Institute, GRAIN, ActionAid. A Tunisi ho scoperto l’esistenza di watergrabbing.net, la piattaforma online dove si possono denunciare i singoli casi di violazione, su scala mondiale: una possibilità per le vittime di uscire dall’anonimato e condividere strategie per far valere i propri diritti. Il sito è da poco in rete, eppure il colore rosso che indica le denunce raccolte è già diffuso sui cinque continenti.

“Il water grabbing rende il bene comune–acqua uno strumento finanziario, privandolo della sua valenza culturale ma dotandolo del potere di alimentare guerre, come accade in Palestina”, ci dice Luca Raineri, che per il COSPE cura la campagna di sensibilizzazione sui crimini legati all’acqua. “Criminale” è oggi spesso considerato chi rifiuta gli accordi di privatizzazione.

Talvolta, e sembra il colmo, un ostacolo alla battaglia per la difesa del bene proviene anche dalle Agenzie dello sviluppo. Per esempio ‘azione dell’ISODEC, organizzazione impegnata contro la mercificazione dell’acqua, è vista da alcuni come una minaccia rispetto le possibilità di finanziamento dei progetti di cooperazione, a livello locale, spiega il portavoce Leonard Shang Quartey. D’altra parte i donors, dai cui aiuti dipendono intere fasce di popolazione, alimentano in un certo senso la negligenza dell’apparato statale. In Turchia (come altrove) l’esproprio dei corsi d’acqua e delle terre limitrofe non ha generato alcuna forma di indennizzo per le popolazioni. Ma soprattutto, il controllo del governo sulle grandi dighe che alimentano le comunità curde dell’Iraq e della Siria potrebbe trasformarsi in uno strumento di pressione, di ricatto, di guerra. In Swaziland il problema è rappresentato soprattutto dalla coltivazione intensiva della canna da zucchero, che si traduce in esodi di popolazioni contadine, impossibilità di irrigare i campi domestici e divieto di accesso alle fonti potabili. In Sudafrica si è costituita nelle zone costiere una lega di pescatori, il World Forum of Fisher Peoples, oggi in rete con realtà analoghe dell’Europa e di tutto il mondo. L’organizzazione Agua Viva, in Colombia, propone in alternativa allo scempio delle dighe e dell’economia di estrazione mineraria una gestione comune delle acque, basata su scambi democratici, rispetto dell’ambiente e giusto prezzo dei beni.

Il fenomeno del water grabbing riguarda i Paesi del Sud come quelli del Nord, con riferimento in questo caso soprattutto alla gestione dell’acqua minerale. Tuttavia, larga parte delle legislazioni nazionali, e il diritto internazionale nel suo complesso, non sono pronte a regolarlo in maniera efficace al fine di contenerne i danni. Nel 2010 le Nazioni Unite hanno formalmente riconosciuto il diritto di accesso all’acqua, ma nel complesso delle cosiddette soft laws che purtroppo da sole non producono effetti immediati, non vincolando gli Stati ad assumere misure concrete. L’errore di fondo sembra essere quello di considerare l’acqua come un bene materiale e l’accesso alle fonti come una concessione, anziché un diritto naturale, autonomo e specifico, da poter rivendicare presso le istituzioni giudiziarie.

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