Da Reset-Dialogues on Civilizations
L’Unione Europea e la Turchia sono state nelle ultime settimane impegnate a trovare un accordo per un piano congiunto, che consenta di fronteggiare nuovi flussi di profughi provenienti dalla Siria e dall’Iraq.
Una misura importante e necessaria, così la si potrebbe considerare, vista la clamorosa crisi della scorsa estate. I dubbi sorgono però quando si guarda al contenuto della bozza di accordo, raggiunto e benedetto da Angela Merkel con la visita ad Istanbul del 18 Ottobre scorso.
Il percorso che ha portato alla attuale bozza rende l’idea della posizione delle Istituzioni europee, inermi rispetto alla guerra in Siria e inconsapevoli rispetto alla crisi dei profughi. Una crisi che la Turchia conosce e fronteggia dal 2011, con più di 4 milioni di siriani transitati sul proprio suolo, attualmente stimati in 2,8 milioni, con la sola Istanbul che ospita 460 mila siriani, più di tutta l’Unione Europea.
Al termine del primo round di negoziazioni Ankara aveva rifiutato una proposta da parte dell’Ue, che prevedeva un finanziamento dei campi e strutture di accoglienza pari a 500 milioni di euro e il rientro in Turchia di 160 mila profughi giunti in Europa la scorsa estate.
“L’obiettivo è aiutare i siriani non i turchi” è stata la risposta del ministro degli esteri Feridun Sinirlioglu, che ha poi ricordato che “la Turchia ha speso 8 miliardi di euro per i rifugiati, una cifra enorme, pari a un centesimo del Pil del Paese”. Sinirlioglu non ha mancato di fare i conti in tasca alla controparte sottolineando che “il Pil europeo è di 18 mila miliardi”, come a dire: potete e dovete fare di più. Il presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha così alzato l’offerta a 1 miliardo, ma ad Ankara non si sono mossi dalla richiesta di 3.
Le prime negoziazioni sono naufragate al termine di una riunione con il commissario per la migrazione Dimitris Avramopoulos e il vice presidente della Commissione UE Frans Timmermans. La delegazione turca ha fatto notare come il testo fosse “eccessivamente focalizzato sulla sicurezza, un ambito in cui la Turchia non ha bisogno di sostegno”. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha chiuso la visita a Bruxelles sottolineando ironicamente che “l’Ue si è ricordata solo ora dell’esistenza della Turchia”.
Erdogan ha sicuramente ragione, quello che non dice però è che con il flusso di profughi della scorsa estate l’Ue si è ricordata dei siriani – non della guerra in Siria, rispetto alla quale non ha alcun ruolo o posizione, preoccupata com’è di ritrovarsi schiacciata tra i proclami dei propri atti fondativi e le resistenze dei Paesi membri.
Negli incontri seguenti l’accordo economico è stato raggiunto, con l’Ue che ha accettato la richiesta di 3 miliardi di euro da spendere in base a quanto deciderà una commissione congiunta, nella costruzione di campi profughi in Turchia, in programmi di assistenza umanitaria in Turchia, per aumentare le misure di controllo sulle coste della Turchia. Il piano di Bruxelles si potrebbe riassumere in un “facciamo di tutto perché i siriani non escano dalla Turchia”.
Non c’è bisogno di scomodare la innata capacità dei turchi per le contrattazioni per notare la differenza di posizione tra le due parti dell’accordo. La Turchia vive un momento di grande turbolenza, con le elezioni alle porte, attentati, Isis, Pkk e tensione crescente con la Russia. In un quadro del genere i profughi siriani costituiscono il problema minore, anche perché Ankara fronteggia il flusso sin dal 2011. Insomma Ankara non ha fretta, a differenza di Bruxelles, che da quest’estate in poi vive con terrore l’idea di contraddire la propria (teorica) identità e (sbandierati) ideali.
Stando così le cose i turchi hanno sparato alto, aggiungendo all’accordo economico richieste politiche. Le condizioni già accettate verbalmente da Bruxelles riguardano la liberalizzazione dei visti per i turchi rispetto l’area Schengen (in agenda per Ottobre 2017) e la partecipazione degli esponenti di Ankara ai summit dell’Unione Europea, quest’ultima condizione posta direttamente dal presidente Erdogan.
La visita della cancelliera sul Bosforo è servita anche a rilanciare il processo di riavvicinamento di Ankara agli standard europei. Angela Merkel ha dichiarato di essere a favore della riapertura dei capitoli negoziali legati alle politiche economiche e monetarie, ambiti che hanno creato l’impasse nel processo di integrazione della Turchia nell’Unione, “vogliamo riaprire il capitolo 17 – politiche monetarie ed economiche – per riavviare la candidatura della Turchia”. La Merkel, pur di salvare l’intesa raggiunta ha glissato rispetto ai capitoli 23 e 24, riguardanti diritti e libertà civili, così come il funzionamento del sistema giudiziario, dicendo che materie così delicate andranno discusse “step by step”.
In pratica Bruxelles pur di tenere lontani i siriani è disposta a riesumare la procedura di integrazione europea iniziata nel 1987, con l’inizio delle negoziazioni datato al 2005. Da allora la Turchia ha soddisfatto 14 dei 35 capitoli per l’ingresso nell’Ue.
La Merkel ha definito la situazione siriana “una crisi fuori controllo”, augurandosi che la collaborazione con la Turchia divenga man mano più ampia,definendo quest’ultima una maniera sicura per fronteggiare i flussi di rifugiati.
Il premier Ahmet Davutoglu, dal canto suo, ha insistito sul piano di creazione di una safe zone, bonificata dalle milizie dello stato islamico, che funga da rifugio per i siriani in fuga dal califfato e dal regime di Assad, “che permetta a tanta gente di essere al sicuro, dissuadendoli dal tentare il viaggio verso l’Europa”.
Se l’obiettivo è quello di evitare che i rifugiati intraprendano viaggi della disperazione, via mare rischiando la vita o via terra dal forte impatto mediatico, è di certo più probabile che la safe zone costituisca un rimedio utile piuttosto che la costruzione di campi destinati a servire a poco o nulla.
Le Istituzioni europee, trincerate nei propri palazzi, ignorano che i campi costruiti dai turchi negli anni passati si sono prima riempiti, poi progressivamente svuotati, man mano che aumentava la consapevolezza che la guerra civile non avrebbe avuto esiti a breve termine. Se l’Ue vuole aiutare economicamente la Turchia, con un fine umanitario, quei 3 miliardi di euro costituiscono uno sforzo encomiabile, ma se Bruxelles pensa che con quei soldi riuscirà a dissuadere i profughi dal tentare di raggiungere l’Europa si sbaglia. Si tratta di gente che vuole ricostruirsi una vita a partire dall’unica cosa che le è rimasta, la dignità; e a cui l’assistenza umanitaria fa comodo, ma non può bastare in eterno, soprattutto per chi, come i siriani, ha vissuto il dramma dei palestinesi nati, vissuti e morti nei campi profughi in attesa di una vita migliore che non è mai arrivata e che a quest’esempio guarda come a un incubo.
Cercare di tenere lontani i profughi prescindendo completamente dalla ricerca di una soluzione che pacifichi la Siria è una soluzione a metà tra l’ignoranza e l’ignavia destinata a non sortire alcun effetto.
Offrire alla Turchia la liberalizzazione dei visti per l’area Schengen e la riapertura dei capitoli negoziali per l’ingresso nell’Ue, a pochi giorni dalle elezioni, è un regalo per il partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) di Erdogan e Davutoglu. La difficoltà nell’ottenere i visti per l’Europa è un problema assai sentito dai turchi e sostituirebbe un risultato di non poco conto, un argomento che è già entrato nella campagna elettorale e che fa sorgere la domanda: “Ma l’Unione Europea sa cosa sta facendo?”
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