Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sarajevo/Srebrenica. “È come quando due bambini che litigano a lungo scambiandosi accuse, vengono fermati da qualcuno più grande che impone loro: ‘Ora basta, fermatevi, non è colpa di nessuno’, benché ovviamente non sia così. E si va avanti si; ma il rancore resta”. Una singola frase, buttata fuori rapida ma senza superficialità, rappresenta meglio di tante analisi la situazione bosniaca di oggi. Bambino al tempo della guerra, Adijez a 31 anni ricorda tutto dell’assedio della Sarajevo lasciata nell’agosto ’95 dopo l’eccidio di Srebrenica, attraversando il famoso tunnel di Butmir. Dopo 17 anni passati in Italia è tornato in Bosnia. “In città, qui in centro non sono mai entrati (i serbi, ndr), sono sempre stati respinti – ricorda con sollievo e una punta di orgoglio – ma tutto intorno, c’erano e come. Sulle colline carri armati, cecchini”. Un esercito bene armato impegnato in uno stillicidio avvilente. Sotto, una città sofferente, continuamente nel mirino, spesso senz’acqua e senza corrente elettrica. Servizi che tornavano temporaneamente soltanto quando l’esercito di volontari bosniaci-musulmani riusciva a portare avanti una missione vittoriosa, che ristabiliva quello che i serbi avevano tagliato. “Andare a scuola durante la guerra era un’avventura”, dice. “Sulle colline tutt’intorno, erano appostati i cecchini. Ricordo che per passare da un palazzo all’altro, ci raggruppavamo e aspettavamo di trovare il coraggio prima di partire di corsa. Per fortuna mi è andata sempre bene”.
I segni dell’assedio oggi sono visibili solo sui muri, segnati dalle pallottole. Ma, seppur invisibili, restano dentro le persone. Le due comunità hanno smesso di combattersi, ma le distanze tra loro sono aumentate. Le nuove generazioni parlano della guerra meno dei genitori, ma crescono in una cultura che ripercorre la linea di frattura che il conflitto ha lasciato: i musulmani stringendosi sempre più intorno alla religione come segno identitario, i serbi stringendosi intorno ai vecchi concetti del nazionalismo storico da ‘grande Serbia’. A iniziare un processo di elaborazione del lutto saranno dunque, al massimo, le prossime generazioni.
Nella Republika Srpska, entità regionale che rappresenta nella costituzione bosniaca la ‘vittoria’ territoriale serba sancita a Dayton, dopo la guerra la presenza serba è andata aumentando. Lungo la strada da Sarajevo a Srebrenica che l’attraversa, bar, locande e ristoranti, hanno spesso nomi evocativi della storia e cultura serba, così da essere ‘riconoscibili’. A campeggiare ovunque c’è la foto di Putin, cui viene tributato onore per aver bloccato in consiglio di sicurezza Onu la risoluzione che riconosce il genocidio di Srebrenica come tale, pochi giorni prima del ventesimo anniversario del massacro.
Nelle città dove più violento è stato l’agire delle truppe di Ratko Mladić, prima a maggioranza musulmana, ora la presenza serba è maggiore. A Bratunac, nome che riecheggia sinistro a causa dei terribili eccidi avvenuti nell’area lungo e nei pressi della Drina, i bar trendy sono quasi tutti serbi. Nel “Club Napoli”, dove tanti sono i giovani con indosso la maglietta della Stella Rossa di Belgrado, sono da poco passate le 12,00 dell’11 luglio, quando sullo schermo scorrono le immagini delle commemorazioni in corso a Potočari, cimitero dove sono seppellite le circa ottomila vittime dell’eccidio di Srebrenica. Un giovane guarda la Tv e chiama il cameriere lanciandogli uno sguardo di rimprovero: “Spegni la tv altrimenti vado via”. Con la tv subito spenta, gli altri ragazzi, commentano leggendola dai telefonini, la notizia della partecipazione del primo ministro Vucić alla cerimonia: “Ha fatto bene ad andare, così adesso staranno zitti per un po’”, dice con tono perentorio.
Anche a Srebrenica i serbi sono molti di più rispetto a prima della guerra. In tanti si sono spostati qui da altre entità regionali della Bosnia. Come il giovane Miloš, che qui ha aperto un ostello. “Da qualche anno in mezzo alla depressione economica del Paese, Srebrenica sembra essere diventata il centro del mondo e si può fare business” dice con il sorriso sulle labbra di chi sa che è stato il genocidio a portare ‘turisti’ nella cittadina. “Vengono da ogni parte, non solo l’11 luglio, anche se è in questi giorni che sono sold out”. L’onda emotiva che porta gente qui non supera la barriera della retorica serba del giovane “Prima del luglio ‘95, per anni in quest’area erano stati i serbi a morire in numero maggiore”, poi il massacro. “Ma se vai al cimitero – dice – vedi che spesso ci sono gli stessi nomi ripetuti, con le stesse date di nascita e lo stesso luogo di morte”, li hanno moltiplicati, lascia intendere con freddezza. Anche “la storia delle ossa che vengono recuperate nelle fosse comuni – si chiede – è mai possibile che non ne trovino mai una di un serbo?”.
Ridare un nome alla vittime dell’eccidio è uno degli obiettivi attuali delle autorità. La ricerca e la scoperta continua di fosse comuni e il recupero dei resti ossei delle persone gettate spesso dopo esecuzioni sommarie, è il processo che tiene viva la memoria, ma tiene anche aperta la ferita. Ogni anno a Potočari due giorni prima delle commemorazioni ufficiali arrivano i resti recuperati nell’anno precedente cui è stato possibile ridare un’identità grazie al lavoro dell’International Commission on Missing Persons, dove gli scheletri vengono ricostituiti e, attraverso il Dna, si arriva spesso a un nome, una famiglia. Il 9 luglio poi un camion con le bare di legno parte da Sarajevo, attraversa le strade della capitale tra la commozione puntando su Srebrenica, attraversando la Republika Srpska.
Sono state 136 le salme che si sono aggiunte quest’anno alle altre già inumate a Potočari. Ad alimentare la commozione circola la leggenda secondo la quale ogni anno, quando il camion inizia la sua corsa, il tempo cambia. Fino a poche ore prima dell’inizio delle commemorazioni per il ventesimo anniversario del massacro, la temperatura era decisamente calda e il cielo limpido. La mattina del 9 però la tradizione è stata rispettata. Spesso in auto chi può segue il camion per partecipare a Srebrenica alle commemorazioni. Tra questi la signora Fatima Ahmeć, la cui famiglia a Srebrenica è stata decimata: “ho perso i miei genitori, mio fratello e un figlio. Ho pensato di aver perso anche mio marito perché ci siamo rincontrati a Tuzla solo dopo 66 giorni dalla nostra fuga, 30 dopo di me”. Fatima è tra i pochi riusciti a raggiungere Tuzla scappando nei boschi, evitando i colpi di fucile e di artiglieria esplosi delle truppe di Mladić contro il fronte della montagna dove, protetti dalla vegetazione, i bosniaci musulmani di Srebrenica cercavano di scappare dalla morte. Venti anni dopo, dice Fatima “per me è difficile tornare. Quando si avvicina il mese di luglio inizio a stare male. Tutto quello che avevo è qui, ora vivo a Sarajevo perché devo, vorrei tornare ma non so quando”. Fatima è riuscita a dare sepoltura ai suoi parenti dopo anni, tra il 2006 e il 2011. I corpi erano stati seppelliti in varie fosse comuni, dalle quali erano stati in parte portati via dai serbi successivamente. Parti dello scheletro del fratello sono stati recuperati a Kamenica e Kosluk. Lo scheletro dei genitori era in vari punti della fossa comune di Kosluk. Il corpo del figlio di 19 anni era stato gettato in una fossa comune con altri coetanei a Vlazanica. Ma solo un osso della mano è stato ritrovato. Ed è su quello che Fatima va a pregare tutti i mesi a Potočari. Il frammento osseo è stato consegnato a Fatima appena nel 2011, quando il suo profilo Dna, incrociato con quello dei resti esumati in una fossa comune, ha dato riscontro positivo. Ma basterà identificare fino all’ultima vittima, per poter chiudere la ferita della guerra?
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@luigi_spera