7 ottobre: le divisioni Shia-Sunni
oltre l’ostilità per Israele

A un anno dal massacro di Hamas del 7 ottobre, la guerra si è trasformata in un conflitto regionale, che ha coinvolto prima il Libano e poi l’Iran. A Gaza, il bilancio delle vittime ha raggiunto quasi 42mila persone. I vertici di Hamas – a eccezione di Yahya Sinwar – sono stati uccisi, così come Hassan Nasrallah e gran parte della leadership di Hezbollah. 97 ostaggi israeliani sono ancora nelle mani di Hamas, mentre le violenze in Cisgiordania sono sempre più frequenti, con molti analisti che avvertono di una potenziale “gazificazione” dell’area. Reset ha intervistato il Prof. Olivier Roy, Professore di Scienze Politiche presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ed esperto di Medio Oriente. Con Reset ha pubblicato in italiano il volume Islam alla sfida della laicità.

 

Professor Roy, crede che l’attacco del 7 ottobre fosse mirato a minare i progressi fatti tra gli Stati del Golfo e Israele, in particolare con gli Accordi di Abramo? Hamas ha ottenuto ciò che voleva?

Non penso che fermare i progressi degli Accordi di Abramo fosse l’obiettivo principale. Hamas conosce bene i governi arabi, soprattutto leader come Mohammed bin Salman e Abdel Fattah el-Sisi. Sapeva che questi leader non si sarebbero lasciati influenzare dal 7 ottobre. Né credo che si aspettasse una rivolta tra le popolazioni arabe. Sa che, ad esempio, gli egiziani non sono ansiosi di sostenere i palestinesi – anzi, sono felici di mantenere la frontiera con Gaza chiusa e certamente non vogliono che un milione di palestinesi entri in Egitto.

Credo che l’obiettivo di Hamas fosse paradossalmente quello di spingere Israele a negoziare. Voleva dimostrare agli israeliani che il loro paese non è sicuro come pensano, che le forze di difesa israeliane non sono invincibili, e che, se vogliono la pace, devono negoziare. Ma è stato un errore strategico, soprattutto a causa degli stupri e della crudeltà degli attacchi. Ora, era quella crudeltà pianificata? Quello che era chiaramente pianificato era mostrare che l’IDF [l’esercito israeliano, Ndr] non può proteggere i civili israeliani e catturare il maggior numero possibile di ostaggi. Puntava sulla negoziazione, dato che in passato ha funzionato (ogni volta che Hamas catturava cittadini o soldati israeliani, seguivano negoziati).

Hamas ha commesso un grande errore: non ha compreso che la brutalità dell’attacco avrebbe reso impossibili i negoziati. Si aspettava una forte risposta militare da parte di Israele contro Gaza e si era preparato per la guerriglia, tanto che non è ancora sconfitto, la lotta continua a Gaza. Tuttavia, Hamas ha calcolato male la nuova strategia di Israele, soprattutto sotto l’estrema destra, che non cerca negoziati né si preoccupa dei palestinesi – ne cerca l’espulsione.

 

In che modo è cambiata la strategia israeliana?

La strategia di Israele è passata dalla ricerca di un equilibrio di sicurezza a una nuova fase con due punti chiave: uno, l’obiettivo dell’estrema destra è di annettere i Territori Occupati e distruggere Gaza; e due, quella che un tempo era la sinistra israeliana ha smesso di preoccuparsi dei palestinesi. Quando la sinistra protesta, lo fa per la democrazia israeliana e perché Netanyahu non ha negoziato per gli ostaggi. Non importa se liberare un ostaggio significa uccidere cinquecento palestinesi. Quindi ora, la destra israeliana ha carta bianca. E la soluzione a due stati è morta. È ancora uno slogan; è la posizione ufficiale dell’ONU, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Ma è morta.

 

D’altra parte, la reazione di Israele era prevedibile – Hamas probabilmente se l’aspettava, inclusa la risposta sproporzionata contro la popolazione civile di Gaza. Uno dei risultati è che Israele non è mai stato così impopolare o isolato sulla scena globale come lo è ora.

Israele è lontano dall’essere isolato. Gli americani sostengono pienamente Israele, la Germania è completamente a favore, e l’Unione Europea è con Israele. L’Argentina sostiene Israele. Anche l’Ucraina sostiene Israele. I russi sono più cauti…

 

Quali sono state le conseguenze degli eventi del 7 ottobre per il mondo musulmano e arabo in generale?

Hanno avuto un impatto molto limitato. Si parla di Gaza a un livello più emotivo, ma in termini politici e strategici non c’è stato alcun cambiamento significativo. Non ci sono grandi manifestazioni pro-palestinesi e i governi non ne sono stati influenzati. Non hanno cambiato le loro politiche verso Israele. Gli Accordi di Abramo continuano a funzionare, ovviamente in modo discreto. Paesi come il Marocco, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar, il Bahrein e l’Egitto mantengono il loro avvicinamento e cooperazione con Israele. L’Algeria rimane distaccata. La Tunisia, pur esprimendo forte sostegno alla Palestina, non ha intrapreso alcuna azione e probabilmente non lo farà. In Giordania, la situazione non è cambiata: la popolazione sostiene la Palestina, ma ci sono poche prospettive sul piano politico. In Siria, non c’è risposta perché la guerra civile consuma l’attenzione del paese. L’Iraq, ai margini, vede alcune minacce da parte delle milizie sostenute dall’Iran verso gli Stati Uniti, ma nel complesso, l’impatto è stato minimo.

 

E per quanto riguarda gli arabi all’estero per così dire?

Ci sono state manifestazioni nei campus e nei tradizionali luoghi di protesta della sinistra, come Place de la République in Francia. Qui a Firenze, ne abbiamo avuta una in Piazza San Marco. Ma niente di più, nessuna azione terroristica. Il numero di attività terroristiche anzi è in diminuzione, o più precisamente, il loro impatto lo è. La maggior parte delle azioni terroristiche ora vengono compiute da individui con coltelli, quindi l’impatto non è paragonabile a eventi come il Bataclan o l’11 settembre. Non c’è nessuna “intifada” nelle banlieue francesi, come alcuni hanno suggerito. I giovani delle banlieue non si ribellano per la Palestina, non lo hanno mai fatto. Quando si ribellano è perché un giovane è stato ucciso in uno scontro con la polizia. È la stessa storia a Los Angeles, Cincinnati e Parigi – ci sono rivolte per le azioni della polizia, ma non per la Palestina, e non lo saranno neanche in futuro.

Quindi, l’idea che il Medio Oriente sia in fiamme? No. C’è un’escalation del conflitto israelo-palestinese, e Hezbollah è coinvolto. Sì, c’è un aumento delle vittime e dei bombardamenti, ma è una guerra bilaterale tra Israele e i palestinesi. I proxy filo-iraniani come Hezbollah e gli Houthi sono coinvolti in prima linea, ma l’Iran stesso resta sullo sfondo. L’unico vero problema è se l’Iran dovesse fare un passo avanti e prendere una posizione in prima linea. Ma non lo faranno, per un motivo molto semplice: non hanno i mezzi per attaccare Israele.

 

Qual è l’attuale equilibrio di potere in questa fase del conflitto tra le forze sciite e sunnite, in particolare tra il potere sciita dell’Iran e il potere sunnita degli stati del Golfo, soprattutto tra Riad e Teheran?

Riad è piuttosto contenta di vedere Teheran indebolita da Israele. Per gli stati sunniti del Golfo, l’Iran è la vera minaccia ora, Israele non rappresenta più lo stesso pericolo. Non sto parlando del Marocco o dell’Algeria; per il Maghreb, la situazione è diversa. Ma nel Golfo, il focus è sull’Iran. Il vero problema ora sono gli sciiti arabi, non gli sciiti iraniani, e sono profondamente divisi. Ci sono molti sciiti che si oppongono all’Iran. In Iraq, ad esempio, ci sono sia milizie sciite pro-iraniane che anti-iraniane. Allo stesso modo, gli sciiti in Arabia Saudita e Bahrein non sostengono l’Iran.

Negli ultimi due anni, l’Iran ha combattuto Israele indirettamente tramite proxy. Ma Hamas non è un proxy iraniano; sono dalla stessa parte perché condividono lo stesso nemico. Hamas ha avviato gli eventi del 7 ottobre senza l’approvazione diretta dell’Iran. Ora, l’obiettivo di Israele è smantellare questi proxy e distruggere le forze militari di Hamas. Di conseguenza, l’Iran è ora in una posizione difficile, con le spalle al muro.

Gli israeliani stanno spingendo l’Iran a farsi avanti e combattere direttamente, essenzialmente dicendo: “Se vuoi combattere, combatti con noi.” Ma l’Iran non può, per vari motivi. Militarmente, l’equilibrio di potere è ora a favore di Israele. Non c’è una vera minaccia militare iraniana contro Israele. I recenti attacchi missilistici dall’Iran erano più una dimostrazione che una vera minaccia, erano quasi uno scherzo. L’Iran è semplicemente incapace di rappresentare una minaccia militare per Israele. In effetti, Israele può ora colpire le basi nucleari iraniane senza bisogno del supporto americano. Questa è una novità. Fino a poco tempo fa, l’idea che Israele attaccasse l’Iran senza l’appoggio degli Stati Uniti era impensabile. Ma ora sappiamo che potrebbero farlo. Perché? Primo, Israele ha la capacità tecnica. Secondo, gli Stati Uniti non si opporrebbero. E terzo, il Mossad si è infiltrato con successo sia dentro Hezbollah che nella leadership iraniana, ai più alti livelli.

 

Secondo molti analisti, il vero obiettivo di Netanyahu è rimanere al potere. Cosa ne pensa?

Sì, Netanyahu vuole l’escalation per restare al potere, ma non è solo lui – l’establishment militare, il suo governo e una grande parte della popolazione sostengono l’escalation. Concentrarsi solo su Netanyahu non cattura il quadro più ampio: dal 1967, Israele è passato gradualmente da un focus sulla sicurezza a uno sull’annessione. Anche quando la sinistra era al potere, non ha mai fermato i coloni – magari chiedeva loro di mantenere un basso profilo, ma non si è mai opposta attivamente all’espansione degli insediamenti né ha cercato un avvicinamento con i palestinesi. Netanyahu è un problema per la sinistra israeliana quando si tratta di democrazia all’interno della società israeliana, ma da una prospettiva geostrategica, non è il problema principale.

 

Cosa crede potrebbe veramente fermare questa escalation? Abbiamo menzionato l’Arabia Saudita e il suo desiderio di vedere l’Iran indebolito. Potrebbe ancora giocare un ruolo in questo conflitto, forse normalizzando le relazioni con Israele?

Per la de-escalation, al momento non c’è un percorso realistico. Gli unici che potrebbero spingere per una de-escalation sono gli americani, ma non lo faranno, soprattutto con le elezioni all’orizzonte. Se Trump sarà rieletto, probabilmente darà carta bianca a Israele. Se Harris vincerà le elezioni, ci saranno grandi parole ma nessuna misura significativa.

Cosa potrebbe cambiare la situazione? Una forte pressione dalla Russia. Ma con la Russia impelagata in Ucraina, c’è l’intenzione di un coinvolgimento anche nel Medio Oriente. La Russia mantiene anche buone relazioni con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, quindi se gli arabi diranno alla Russia di stare fuori, probabilmente lo farà. Anche la Turchia non interverrà – Erdogan parla molto, ma continua a inviare armi a Israele. La cooperazione militare tra Turchia e Israele continua perché si tratta di affari.

Dato l’attuale equilibrio di potere, non c’è motivo di fermare l’escalation. Anzi, più Israele percepisce la debolezza dell’Iran, più andrà avanti perché crede di poter vincere. Sospetto che attaccheranno persino le strutture nucleari dell’Iran, e i sauditi ne saranno piuttosto contenti.

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