“Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del populismo”. L’ironia della sorte vuole che all’ormai abusatissimo incipit del Capitale marxiano tocchi adesso essere storpiato per annunciare il diffondersi di una nuova sinistra demagogica.
“Questa volta non è il populismo dell’estrema destra di Haider, Le Pen e Farage, ma un nuovo populismo di sinistra che si scontra non solo con i partiti di destra, ma anche con i partiti social-democratici e quelli tradizionali della sinistra”. Lo scrivono, su Open Democracy, Marina Prentoulis e Lasse Thomassen, commentando la vittoria di Syriza alle elezioni greche. “Per i partiti e i gruppi della sinistra radicale è stato un segnale di speranza”, scrivono ma le “elite europee […] temono che i loro popoli vengano contaminati dalla febbre greca”. L’attenzione, oltre che a Atene, è a Madrid dove Syriza trova un suo corrispettivo nel partito di Pablo Iglesias, Podemos. “Entrambi – si legge nello stesso articolo – rappresentano un discorso nuovo che pone la democrazia, la partecipazione e i diritti delle persone al centro della loro retorica. Non parlano a nome delle forze invisibili del mercato, né a nome di classi particolari. Non pretendono di rappresentare solo gruppi particolari – i disoccupati, gli studenti, i lavoratori, le donne e via dicendo – al contrario parlano a nome del popolo. È questo che li rende populisti ed è questo che fa infuriare gli altri partiti, a destra come a sinistra. […] Possono esserlo per ragioni differenti, ma sono entrambi in opposizione con il sistema o con alcuni suoi aspetti – la corruzione, le politiche neoliberali dell’austerity, e via dicendo. Sono uniti anche da una qualche speranza che ‘le cose possano essere differenti’, una speranza che è spesso cristallizzata nell’identificazione con un leader nuovo e carismatico”.
In cosa consiste invece il populismo di Syriza? Per Takis S. Pappas, “Punto primo, sta nel concepire e riferirsi alla società greca come divisa tra persone ‘pure’, ‘etiche’ e senza colpe, che sono state vittime dell’oligarchia politica subordinata agli interessi stranieri. Secondo, tra questi due gruppi non può esserci alcuna conciliazione, o come riassumeva un precedente slogan di Syriza ‘O noi, o loro’. Terzo: non c’è nemmeno alcuna necessità di un compromesso dato che il popolo, che è per sua natura la maggioranza, è destinato a vincere e cancellare qualunque cosa arrivi dal passato e imporre la propria volontà politica.” E benché Pappas identifichi come prettamente politico – e non economico-finanziario – l’humus che ha fatto proliferare il germe della sinistra populista in Grecia, non esclude che il contagio possa arrivare ben oltre i confini ellenici e fino ai paesi del nord Europa.
Dalla Grecia alla Spagna, in effetti, il populismo di sinistra registra un focolaio anche in Germania, dove la vittoria di Syriza ha galvanizzato il partito Die Linke. Potenzialmente potrebbe essere lui, più che Podemos, l’alleato più influente di Syriza, sostiene Jamie MacKay sempre su Open Democracy. L’elettorato di riferimento (“mentre Syriza deve trovare soluzioni per molti (che vivono) in povertà assoluta, Die Linke è più interessato ai lavoratori interinali, ai freelance, ai disoccupati stressati dal dover andare agli uffici di collocamento e soggetti a ogni sorta di pressioni e umiliazioni”), il discorso politico (incentrato “sulla precarietà e su un’ineguaglianza strutturale”) e soprattutto il grande nemico da sconfiggere (“l’ideologia prevalente del ‘Merkelismo’”): sono queste le sfumature che caratterizzano il populismo della sinistra tedesca di Die Linke. Proprio quella Die Linke che, nonostante le differenze, Tsipras chiamava “partito fratello” già nel maggio 2014.
L’Europa salvi la nuova Ucraina
Il nuovo accordo raggiunto tra Mosca e Kiev per la tregua in Ucraina non è certamente nato sotto i migliori auspici: “Non è mai un buon segno quando le differenti interpretazioni su cosa significhi un accordo emergono ancor prima che l’inchiostro si secchi”, scrive The National Interest. Tanto più che – sottolinea l’Afp – il debito russo pende sull’Ucraina come una spada di Damocle. Putin potrebbe richiederne il rimborso in qualunque momento e i 17,5 miliardi di dollari di aiuti che il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato di destinare alle casse ucraine non dovrebbero riuscire a dare stabilità al Paese. Azioni che si aggiungono alle sanzioni europee contro la Russia, con il rischio di incrementare la sensazione che qualunque cosa faccia l’Occidente risulta inefficace sui campi di battaglia ucraini.
L’impasse dell’Unione Europea è evidente nel titolo di un articolo di The Economist, No Exit. “L’Occidente si è messo all’angolo da solo: non agire equivarrebbe a capitolare, ma agire significa impegnarsi in una guerra che in pochi vogliono” – si legge.
La stessa situazione è stata registrata anche da un interessante op-ed firmato da Bernard Henry Lévi e George Soros per il New York Times: “Salvate la nuova Ucraina”. Destinatario dell’appello è proprio l’Europa, sulle cui spalle pesa la responsabilità del futuro del paese ma pure, di conseguenza, di se stessa. “L’Ucraina si difenderà militarmente, ma ha urgente bisogno di assistenza finanziaria”, scrivono Lévy e Soros quantificando l’ammontare della “necessità immediata” in 15 miliardi di dollari. “Purtroppo, le democrazie si muovono lentamente – e un insieme di democrazie quale è l’Unione Europea si muove ancora più lentamente. Putin ne sta approfittando. […] La perdita dell’Ucraina sarebbe un’enorme batosta; autorizzerebbe un’alternativa russa all’Unione Europea basata sul diritto di forza, anziché sul diritto di legge. Ma se l’Europa fornisse l’assistenza di cui l’Ucraina ha bisogno, Putin sarebbe eventualmente forzato ad abbandonare la sua aggressione. Al momento, può dire che i problemi economici della Russia sono causati dall’ostilità dell’Occidente, e l’opinione pubblica russa trova che sia un argomento convincente.”
Il problema però sembra essere quello rilevato da Walter Russell che, dalle pagine della rivista neocon americana The American Interest, apre un pezzo con il verdetto: “Gli osservatori e i leader politici occidentali non stanno facendo un buon lavoro nel decifrare la politica estera russa”. Il risultato è invece riassunto nel titolo di un articolo di The Daily Beast, firmato da Micheal Weiss e James Miller: “Putin sta vincendo sui tre fronti”. Sono riportate le parole dell’esperto Mark Galeotti, secondo il quale dopo Donetsk e Lugansk adesso Putin punta tutto sulla battaglia di Mariupol per convincere Kiev a fare delle concessioni che permettano alla Russia di porre fine alla guerra e negoziare la fine delle sanzioni pur mantenendo l’egemonia sull’Ucraina. L’analisi di un altro esperto, Anders Aslund, si aggiunge per spiegare il successo militare russo. La strategia vincente di Putin è una ricetta a base di due soli ingredienti: money (“Se nessuno mette in dubbio che la presenza russa sia reale, è pure innegabile che gli ucraini dell’est sono sempre più attirati dai ranghi separatisti, se non altro a causa dei soddisfacenti salari che vengono offerti”) & messianism (“Circa il 60% dei combattenti separatisti sono anche degli ideologi irriducibili che credono che Kiev appartenga alla Russia… e combatteranno fino alla morte pur di prendere la capitale ucraina”).
Anche per questo, citando ancora The Economist, “gli accordi di pace di Minsk sembrano un’illusione. La domanda non è più se la guerra continuerà, ma quanto durerà. «Vivere significa combattere», dice Andriy Biletsky, comandante del battaglione ucraino Azov che guida la difesa di Mariupol. Di fronte a un piatto di maiale e patate alla base di Dushman, a Donetsk, un soldato dei ribelli predice che la guerra durerà fino al 2018. I suoi camerati fanno cenno di approvazione. Quando gli chiediamo se è pronto, risponde: «Non abbiamo scelta. Non c’è uscita»”.
(Prima e ) dopo Charlie Hebdo
Non solo #JeSuisCharlie, tra le risposte agli attentati terroristici che hanno scioccato Parigi all’inizio dell’anno. Il Committe to Protect Journalists riassume un po’ di iniziative andate in direzione opposta alla forte e chiara rivendicazione del diritto alla libertà di espressione, sfilata nelle piazze europee. “In Cina, il governo ha usato gli attacchi come esempio dei pericoli di una stampa libera, secondo Voice of America. Un editoriale dell’agenzia d’informazione di stato Xinhua,diceva l’11 gennaio che ci sarebbero meno tragedie nel mondo se fossero posti dei limiti alla libertà di parola.” Dichiarazioni simili e scuse ai lettori per aver pubblicato alcune immagini dal giornale di satira francese, sono apparse sulla stampa indiana, sudafricana e keniota – aggiunge l’articolo, corredato da una mappa che localizza le reazioni delle piazze del mondo alla strage di Charlie Hebdo.
Registrate le reazioni, c’è però da interrogarsi sulle cause che hanno portato la Francia a essere colpita in maniera così violenta – e dal suo stesso interno. Tra le varie risposte, spunta quella di Le Monde che rispolvera un pezzo scritto qualche giorno prima degli attentati. L’articolo rivela che “La Francia può ‘curare’ i suoi aspiranti jihadisti” (citando il titolo) puntando tutto su un programma di prevenzione, sviluppato su tre piani: “l’aiuto alle famiglie, la ‘minaccia’ ai radicali instabili e, più delicata, il disindottrinamento”.
Novità nella novità: in prima linea contro la radicalizzazione delle frange più estreme dell’Islam non ci sono le forze dell’ordine ma gli stessi musulmani: imam, tabligh e salafiti (“favorevoli a una interpretazione alla lettera dell’Islam ma contro la jihad armata ”). Un approccio diverso da quello proposto dal governo inglese, che – spiega Ted Cantle su OpenDemocracy – punta piuttosto sull’educazione: “L’educazione interculturale non era tra gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (gli otto obiettivi che tutti i membri dell’ONU, con la Dichiarazione del Millennio del 2000, si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015, ndr.), ma adesso deve sicuramente essere inclusa nell’agenda post 2015 delle Nazioni Unite”.
Sempre su Open Democracy, Anna Marchese pone un interrogativo diverso: e se invece di chiedere alle comunità musulmane di cambiare, cambiassimo noi il nostro concetto di laicità?
Un’altra domanda, molto più provocatoria, campeggiava invece in prima pagina del giornale marocchino Al Watan Al An, nella settimana del giorno della memoria. In un fotomontaggio, François Hollande veniva presentato in divisa nazi e con tanto di baffetti alla Hitler: “I francesi vogliono far rinascere i campi di concentramento per sterminare i musulmani?”, il titolo d’apertura. Contattato da Telquel.ma, il direttore della testata ha spiegato: “I luoghi di culto musulmani subiscono attacchi quotidiani senza che questo metta in allerta il governo francese”. Ha aggiunto poi: “La sinistra come la destra francese sono in una competizione che porterà i danni maggiori alla comunità musulmana. […] La Francia, se continua così, arriverà a privare i musulmani dei loro diritti, alloggi e posti di lavoro.”
Qual è il PIL di Shanghai?
Il consiglio municipale di Shanghai ha deciso di non rendere pubblico il suo prodotto interno lordo relativo all’ultimo anno. Perché? Per pudore, secondo un articolo di WorldCrunch. La “regina d’Oriente” non cresce infatti più come un tempo: già nel 2014, la città aveva registrato la crescita più bassa (appena il 7%) dal 1991 – in linea con l’andamento a rilento, su scala nazionale. “Le performance economiche non dovrebbero essere il solo fattore di valutazione del governo. […] Bisognerebbe considerare di più il benessere delle persone e il loro agio, nelle città” – ha detto un membro del municipio di Shanghai all’agenzia di Stato Xinhua.
Per Ambrose Evans-Pritchard, esperto di finanza per il Telegraph: “La Cina è in trappola. Le autorità comuniste hanno scoperto, come quelle giapponesi ai primi del 1990 e come quelle degli USA nel periodo tra le due guerre, che non si può deflazionare una bolla di credito senza incorrere in alcun rischio”.
Ma nonostante la deflazione, i cinesi sembrano non riuscire a rinunciare alla tecnologia occidentale. E così la Apple,che altrove inizia a registrare i primi cali nelle vendite, resta a galla e continua a incassare vendite record proprio nell’Estremo Oriente dove, tra Cina, Hong Kong e Taiwan, gli introiti dell’azienda di Cupertino, sono cresciuti del 70% – “più del triplo della crescita nelle Americhe e in Europa”, si legge sul Wall Street Journal.
Rehab dai social network
Facebook è deprimente? Positivo, secondo uno studio della University of Missouri-Columbia – di cui dà notizia, tra gli altri, The Independent. Il sondaggio condotto tra 700 studenti ha infatti rivelato che se restare in contatto con gli amici attraverso il social network fa bene, l’utilizzo ossessivo del sito creato da Zuckerberg, port alla depressione. E chissà se è per questo che in Brasile è nato un campo per far disintossicare i più giovani dal mondo virtualmente connesso.
Interviste esclusive
Foreign Affairs pubblica una lunga intervista a Bashar al-Assad, dove il presidente siriano parla della guerra civile nel suo paese, dell’Isis, dei rapporti con Mosca e altro ancora – conversando con Jonathan Teppermann.
Altra sorte è capitata invece a Robert Love, autore della rivista AARP alla quale Bob Dylan ha proposto di ospitare le proprie parole, scegliendo per la sua prima intervista dell’anno la testata da 35 milioni di lettori ultracinquantenni – forse più nelle sue corde di settantenne, rispetto alla giovanile benché leggendaria Rolling Stone.
Mentre tra le riviste letterarie, un vero colpaccio è stato segnato dalla The Paris Review, che anticipando il numero primaverile, ha svelato di essersi accaparrata la prima intervista in assoluto alla misteriosissima autrice italiana, Elena Ferrante. Proprio lei (o forse lui?) in persona.