Donne, uomini, politici, gente comune, giornali di tutto il mondo a bocca aperta, alle prese con un voto che lascia spiazzati, che toglie autorevolezza ai sondaggi, che rinnova tutto il peso degli Stati in bilico, ad ogni tornata i veri “decisori” fondamentali da cui dipende il futuro degli Stati Uniti.
Ma la vittoria di Trump scotta soprattutto per le riviste liberal che in un numero mai così elevato si erano spinte in endorsement ufficiali nei confronti del candidato democrat, di colei che oggi ammette la sconfitta ma sancendo che anche restare in minoranza significa giocare un ruolo di rilievo nella politica democratica all’insegna delle parole “lottare per ciò in cui si crede non è mai sbagliato”. Anche se non è bastato lo spostamento dell’asse della senatrice Liberal dello Stato di New York ed ex Segretario di Stato e l’appoggio del suo contendente alle primarie di partito, Bernie Sanders, nonostante uno dei consensi più alti mai raggiunti da un presidente al secondo mandato, ovverosia Barack Obama, Hillary ha portato su di sé il peso di alcune incompiute (medicare, occupazione e politica estera su tutte) e di una campagna elettorale senza l’appoggio pregnante delle generazioni più giovani (anche i latinos da sempre a lei vicini hanno latitato, soprattutto negli Stati chiave), per non dire dello scandalo delle mail.
Come ha sottolineato proprio su ResetDOC il commentatore Jim Sleeper nel suo articolo Some saw early what Trump’s rise meant. Others denied it (and us), la vittoria di Trump prende vita in un clima di misoginia nei confronti della candidata democratica e delle molte donne emancipate degli Stati Uniti, ma è anche un voto di protesta nei confronti tanto dell’ortodossia repubblicana quanto della retorica neoliberista.
L’irriverente New Yorker, che soprattutto negli ultimi giorni, aveva ritenuto un vero e proprio “impegno morale” stringersi attorno alla già senatrice democratica, non esita ad aprire con un articolo del suo direttore David Remnick in cui la vittoria dell’imprenditore viene definita An American Tragedy, infatti: «la vittoria di Trump non è niente meno che una tragedia per la repubblica americana, la sua costituzione. Ed è il trionfo delle forze nostrane e di quelle straniere che si fondano sul nativismo, sull’autoritarismo, sulla misoginia e sul razzismo. Si tratta di un evento doloroso per la storia degli Stati Uniti e per la democrazia liberale».
Linguaggio addirittura “marziale” per The Nation, la più antica rivista politica statunitense, nelle edicole sin dal 1865: «Benvenuti in battaglia», ammonisce D.D. Guttenplan, aggiungendo che «la storia non perdonerà chi si ritirerà nello sconforto e si dimenticherà delle minoranze messe più in pericolo dalla vittoria di Trump. (…) La disfatta di Hillary si accompagna allo sgomento dei democratici. E le donne americane hanno imparato che è sempre più probabile la vittoria di un uomo solo in quanto uomo, anche se si tratta di un buffone, ma pur sempre dotato di un pene, di milioni di dollari, di una televisione. Tantissimi nostri sogni sono stati infranti a partire dalla scuola e dalla sanità universali, da un sistema previdenziale funzionante, dal salario minimo, dai permessi parentali, dal cammino verso la fine della pena di morte. Insomma non avremo nessuna amministrazione da cercare di orientare verso un programma di sinistra».
Non si sbilancia per ora il Chicago Reporter, rivista di sinistra fondata nel 1972 che pone tra i suoi temi di interesse la povertà e le questioni razziali, ma la preoccupazione del giornale viene espressa non con commenti sdegnati ma con due campagne virali su facebook e twitter in cui la redazione chiede ai propri lettori «qual è la vostra più grande paura sotto la presidenza di Donald Trump?», a cui i lettori rispondono numerosi: la politica dell’odio, la sopravvivenza stessa, la prosecuzione di MediCare, l’ordine pubblico, la tutela dei diritti delle minoranze religiose e etniche, la supremazia dell’“uomo bianco”, solo per citare quelli più gettonati.
Sapore leniniano per l’articolo di apertura di Slate, affidato al ricercatore di teoria politica di Harvard Yashka Mounk dal titolo What We Do Now? (Che fare adesso?) in cui propone dieci punti per «sopportare» il periodo della presidenza Trump a partire dall’accettazione della sua vittoria come parte del processo democratico, passando per l’esortazione alla stampa affinché essa continui a prendere posizione sui vari scandali e tenga accesi i riflettori su quel che non va, e ancora alla stigmatizzazione degli autocrati mondiali che hanno cercato in Trump l’uomo forte che potesse divenire proprio alleato, sino ad esortare i funzionari federali al rispetto nei confronti della Costituzione degli Stati Uniti prima ancora che nei confronti del proprio Presidente e quindi ammonendoli a rispettare solo le leggi che essi ritengono legittime dal punto di vista costituzionale.
La rivista radicale CounterPunch apre con un articolo dal titolo Don’t Mourn Hillary’s Lost (Non piangiamo la sconfitta di Hillary) del suo direttore Joshua Frank in cui egli si spinge in un’aperta accusa nei confronti dei Democratici per la scelta della candidata sbagliata alla Casa Bianca: «Non piangiamo la sconfitta di Hillary, anche se essa ci ha imbarazzati, i Democratici si inventeranno certamente qualche scusa per legittimare la sconfitta, ma essi devono accusare soltanto se stessi. Hillary ha ottenuto quello che si meritava: perdere. Ha condotto una campagna orribile, impantanata in ogni genere di controversia e incapace di animare i propri elettori. È rimasta ancorata alla retorica neoliberale. Ha perso l’establishment e l’establishment merita questo destino».
Interessante l’analisi di Newsweek che si domanda quanti voti tipicamente democratici siano mancati alla candidata di Chicago: tra essi quello dell’influente anima-verde Susan Sarandon e dei libertari di Gary Johnson che mai come in questa elezione si sono spesi per l’irrompere sulla scena pubblica di un terzo soggetto politico che potesse essere una valida alternativa tra due candidati “effettivi” giudicati entrambi e per ragioni diversissime “inadatti”. Gli Stati in cui il fenomeno del “terzo partito” si è verificato con maggiore insistenza sono stati proprio gli Stati “swing” (in bilico) come Colorado, Michigan, Nevada, New Hampshire, Pennsylvania e Wisconsin. Per non parlare della Florida in cui Hillary ha preso 129.000 voti in meno di Trump ma ben 205.000 voti sono andati ai libertari di Johnson e 64.000 ai verdi di Jill Stein.
Profilo internazionalista, e non può sorprendere, per Foreign Policy che, nell’articolo di James Palmer China Just Won the US Election, sottolinea quanto i leader cinesi abbiano sperato ed oggi possano guadagnare da una vittoria di Trump e dalla sconfitta di Hillary, giudicata una delle più fervide oppositrici del regime sui generis di Pechino. Nondimeno, sebbene Taiwan come unico potere davvero alleato di Washington nell’area pacifica sia sempre più debole e questo rafforzi ancor di più il controllo geopolitico di Pechino, Trump fa anche paura alle elite cinesi per essere un homo novus, non rispondente alle logiche di una lunga carriera politica e quindi leader di cui non si possono adeguatamente anticipare le mosse politiche. Secondo FP ormai il destino di Pechino e quello di Washington sono sempre più legati, uno da una parte, l’altro dall’altra del globo, ma rimane da vedere in che modo il protezionismo economico preannunciato da Trump verrà messo in atto e quali Stati esportatori verso gli Stati Uniti colpirà più duramente.