Calmo, ragionevole, pragmatico. Quello dell’ultimo dibattito presidenziale era un Mitt Romney moderato all’estero e estremista in patria secondo Dexter Filkins, che sul New Yorker affina la penna sulla sindrome bipolare del candidato repubblicano. L’ex governatore del Massachussets se si tratta degli States spara a tutto campo sull’Obamanomics, criticandone la politica “spendacciona”, e infarcisce la sua agenda domestica d’oltranzismo liberista, vedi il suo piatto forte: tagliare le tasse ai ricchi. Un grave errore secondo Filkins, immemore degli effetti devastanti sulle finanze nazionali di una politica che poi è la stessa adottata da Bush jr. Ma appena volge il suo sguardo oltreconfine, sorpresa: i toni di Romney si ammorbidiscono, carichi di realismo e buon senso: una guerra per fermare il nucleare in Iran deve essere l’ultima ratio; no a interventi di tipo militare in Siria; sì alla decisione del rivale Obama di ritirare le truppe dall’Afghanistan entro la fine del 2014. Quasi carezzevole, insomma, lo sfidante repubblicano, riuscendo ad apparire “ancor più presidenziale del presidente”. Ma è la geografia che lo frega. La Siria rappresenta per gli iraniani uno “sbocco sul mare”, ma solo nella Romneography, ironizza Adam Gopnik, visto che l’Iran è già bagnato dalle acque del Mar Caspio e s’affaccia “autonomamente” sul Golfo Persico e sul Golfo di Oman.
Nodi irrisolti davanti al rush finale
Il terzo dibattito di Boca Raton sembra aver segnato la vittoria di misura del presidente in carica, almeno secondo i maggiori giornali e analisti politici. Dibattito che però ha lasciato inevase molte questioni: troppa vaghezza sull’Iran, assenza di un vero piano per la Siria, incertezza sulle alleanze con gli Stati del post-primavera araba così come sulla faccenda dei tagli alla difesa. Altro grave omissis secondo il New York Times è forse la maggiore sfida per il neopresidente: come fronteggiare l’ultimo decennio di povertà, crescenti ineguaglianze, crollo della qualità di vita. Una stagnazione figlia non solo della crisi; ma che secondo David Leonhardt trova come principale causa la globalizzazione nella sua ultima veste della rivoluzione digitale. Ormai però è tempo di archiviare le disquisizioni sui dibattiti presidenziali e guardare al territorio per l’ultima fase della campagna elettorale. Tutto si gioca sui cosiddetti “swing states”, gli stati che decideranno chi sarà il nuovo presidente. Come l’Ohio, dove secondo i sondaggi Obama registrerebbe un vantaggio di quasi due punti sull’avversario Romney.
Iran, Siria, Libano
Secondo Thomas Friedman, noto editorialista del New York Times, l’argomento che doveva essere centrale nel confronto Obama-Romney è la polveriera mediorientale. Nessuno dei due candidati invece ha parlato onestamente agli elettori dell’agenda di politica estera dei prossimi anni. Soprattutto, nessuno dei due ha dichiarato di voler giocare il ruolo di maggiore potenza mondiale e regista di piani a lungo termine su materie come l’economia globale, il Medio Oriente e il cambiamento climatico. E questa volontaria ristrettezza d’orizzonti significherà per Friedman correre verso una vulnerabilità pericolosa e destabilizzante.
Soprattutto ora che il conflitto s’allarga dalla Siria al Libano, dove si prospetta sul WSJ l’incubo di una guerra civile. Come riportato da Al Jazeera, il vuoto politico venutosi a creare dopo l’uccisione del generale Wissam al-Hasan, capo della cellula informativa delle Forze di sicurezza interna, è per le autorità europee e statunitensi una grande minaccia per la stabilità dell’area mediorientale. E intanto in Siria si prospetta un momento di tregua: scrive Al Arabiya che il mediatore internazionale Lakhdar Brahimi avrebbe rivelato che le forze di Assad e i capi dei ribelli avrebbero concordato un breve cessate il fuoco in occasione della festività musulmana di Eid al-Adha.
Visti da fuori: la condanna della scienza
La condanna degli scienziati italiani della Commissione Grandi Rischi, colpevoli per il tribunale dell’Aquila di aver sottovalutato il pericolo e fornito informazioni “imprecise e incomplete” sul sisma che sconvolse il capoluogo abruzzese ad aprile del 2009, ha scatenato il dibattito non solo in patria ma anche all’estero. Durissima la reazione del Los Angeles Times su una sentenza che “sa di Medioevo” e di processi in stile “Inquisizione”, visto che l’unica risposta sensata che l’attuale scienza dei terremoti può dare a proposito del futuro verificarsi delle scosse è: non lo sappiamo.
Perché non congelare i nostri ovuli?
Da una parte c’è l’evoluzione sociale dei costumi femminili, con quei sogni di carriera che ritardano oltremodo i propositi di nido familiare. Dall’altra parte, c’è il ticchettare inarrestabile dell’orologio biologico che dopo i 35 anni d’età segna, implacabile, la dura realtà: sarà sempre più difficile rimanere incinte. Perché allora non premunirsi per tempo congelando i propri ovuli a buon uso futuro? Un’opzione non futuristica, ma già a disposizione di ogni donna con l’ansia da fertilità. Già disponibile negli Stati Uniti dal 2000, ma assai costosa: tra i 10 e i 15 mila dollari, ne parla sul NY Times Sarah Elizabeth Richards, autrice del libro “Motherhood, Rescheduled: The New Frontier of Egg Freezing and the Women Who Tried It.”