Una grande tempesta richiede un grande governo, “a big government” ha scritto il New York Times, mentre l’implacabile Sandy ha ricoperto di flutti la costa atlantica degli States con danni senza precedenti: decine di morti, otto milioni di persone rimaste senza luce, sistemi di trasporto, ospedali e rete infrastrutturale profondamente danneggiati, dati stimati attorno ai 20 miliardi di dollari, e già si scatena il pathos mediatico e si evoca un “secondo 11 settembre”, questa volta meteorologico. Ma quella del Nyt è stata la prima lettura dell’uragano Sandy a uso e consumo politico. Opportunismo di bassa lega, è la replica del Wall Street Journal all’editoriale pro-obamiano. Situazioni emergenziali come questa, sostiene il New York Times, richiedono un grande interventismo statale, a Big State, quello promosso da Obama insomma. Il quotidiano liberal, che cita un dibattito dell’anno scorso di Romney: il competitor del presidente nel suo consueto stile mercatista diceva: “Ogni volta che si può togliere qualche competenza allo stato federale e rimetterla ai singoli stati, quella è la direzione giusta. E se si può andare anche oltre e rimetterla al settore privato è anche meglio”. Per il Nyt l’unico rovello del repubblicano è il debito pubblico, pereat la sicurezza degli americani: questo il suggerimento tra le righe, visto che lasciare la gestione di un disastro a un’impresa che mira al profitto è un assurdo. Invece la Fema, l’agenzia federale che coordina gli aiuti, è sul fronte della sicurezza quello che l’Obamacare è sul versante assistenziale: la conditio sine qua non dell’efficienza, il migliore dei governi possibili da offrire agli americani ormai a un passo dall’appuntamento elettorale.
Il compagno Wen Jiabao è un Paperone
Il partito comunista cinese s’avvicina al fatidico 8 novembre, data del congresso su cui pesano le ombre dei diversi scandali, ultimo dei quali l’inchiesta del NY Times sulle ricchezze accumulate da Wen Jiabao. Un colpo che potrebbe lasciar qualche smagliatura ai veli di retorica che hanno avvolto l’ultimo decennio di Jiabao, l’uomo del popolo, il nonno Wen che è sempre il primo a precipitarsi sul luogo del disastro qualsiasi cosa succeda al suo paese, il fautore di un’economia più giusta, il grande vecchio della repubblica cinese. Ma adesso l’aura di nonno Wen è appannata, perché la realtà è che è un Paperone ricchissimo: la sua famiglia, secondo quanto rivelato dal New York Times, conterebbe su un patrimonio di “almeno 2,7 miliardi di dollari”. Ma su quell’inchiesta già i vertici politici sospettano (o vogliono che si sospetti) la cospirazione, la macchina del fango, magari architettata da Bo Xilai, il competitor macchiatosi di reati di corruzione epurato drammaticamente dal partito con l’accusa di abuso di potere. Per il Financial Times però la realtà è tutt’altra, e sta nella censura del sito del Nyt, nell’informazione addomesticata che copre di slogan le malefatte, l’immensa corruzione e le sacche di privilegio di una classe arricchitasi ai limiti dell’inverosimile. Una pratica che per il quotidiano finanziario è ormai insostenibile, poiché la popolazione cinese diventa ogni giorno più consapevole e ribelle davanti alle mosse censorie del partito e tenta con ogni espediente di superare il firewall del controllo del web.
Al comico l’ultima risata siciliana
Il movimento del tribuno Grillo, primo partito in Sicilia, guadagna la prima pagine del Financial Times. Le elezioni siciliane da più parti considerate il banco di prova delle alleanze per il voto di primavera, destano preoccupazioni tra i mercati finanziari e gli osservatori internazionali. E se ad aver vinto è stato in primis l’astensionismo, aumentato del 20% dalle ultime elezioni del 2008, Grillo può cantar vittoria vedendo confermata la forza del suo movimento capitanato in Sicilia dal giovane geometra Cancelleri, riuscendo a rubare la scena al bastione della destra con una campagna costata appena 25 mila euro. Per Libération Grillo è solo una versione populista di potere riuscita a mettere radici in Sicilia per la scontentezza generale degli abitanti vessati da innumerevoli episodi di corruzione. Il quotidiano progressista ironizza sul dato di fatto che Grillo non sia riuscito a rifilare un “vaffa” al profeta dell’astinenza sessuale Crocetta, il leader democratico dichiaratamente omosessuale che è uscito vincente alle elezioni a capo di una coalizione con i centristi.
A tavola con Adam Gopnik
In principio era la tavola e principio e fine pare si tocchino se il tema “cibo” scala le classifiche dei libri e spopola nelle conversazioni, nelle trasmissioni e nei reality. Stavolta miracolosamente si può affrontare l’argomento deponendo gli iPhone contacalorie e archiviando le statistiche massa grassa/massa magra nell’ultimo libro di Adam Gopnik, “In principio era la tavola”, tradotto in Italia da Guanda. Lo scrittore del New Yorker appartiene a una mai abbastanza benedetta evoluzione della specie umana: quella dell’uomo-cuoco che altro che cinquanta sfumature. Quella di Gopnik è una sentitissima ode alla tavola, un divertente e documentato saggio della nostra debolezza princeps. Se gustare a fine serata un sufflé all’albicotta vi fa l’effetto-madeleine proustiana, se è ormai assodato che il cibo sia arma di conquista bisex (l’uomo bendispone la donna al sesso invitandola al ristorante, la donna addomestica l’uomo in cucina a colpi di cotolette), e se il pantheon mangereccio non smette mai di stupirci, dalle escargot parigine al bucatico all’amatriciana, al fast food, allo slow food, al finger food, alle pasticche taglia-carboidrati, agli ologrammi, al vegetarianismo e veganismo, alla beatificazione dukaniana della bresaola, alla cucina molecolare spagnola e alle altre infinite metamorfosi, e se è vero che gli spicy food abbiano fatto il meltin’ pot più efficacemente di qualsivoglia programma interculturale, è perché la gastronomia è l’ultimo rifugio della mistica e il primo peccato capitale che mai cesserà di macinare alibi e ammiccamenti. Ed è per questo che, ovunque e comunque si mangi, quando si fa sera i modernismi e le secolarizzazioni piangono: perché quel richiamo sublime, quella sirena che canta l’“è pronto a tavola” è l’ingiunzione forestale maxima, e tutto il resto diventa vano affaccendarsi.