Un Nobel doppio e dal doppio valore, come quello a Mandela e De Klerk e simile a quello a Arafat, Peres e Rabin. Nei resoconti dell’assegnazione del Nobel per la Pace a Malala Yousufzai e a Kailash Satyarthi, i parallelismi del passato sono ripetizioni che giovano, per ribadire che il premio assegnato a Oslo il 10 ottobre è più di un plauso all’attivismo in favore dei bambini e dell’istruzione.
Uniti nel riconoscimento “per la loro battaglia contro la repressione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’educazione”, lei – icona pakistana della battaglia ai talebani – e lui – baluardo della lotta allo sfruttamento minorile in India – sono infatti separati dalle tensioni che, da ormai 67 anni, mettono i loro paesi d’origine uno contro l’altro.
“Chiederò al primo ministro Narendra Modi e al primo ministro Nawaz Sharif che prendano parte con noi alla cerimonia di premiazione”, ha detto Malala nella prima conferenza stampa dopo l’assegnazione del Nobel. “Vogliamo costruire delle relazioni forti tra India e Pakistan” – ha aggiunto parlando della telefonata con Satyarthi. “Oggi la situazione lungo il confine non è buona. Voglio che ci sia un dialogo tra i Paesi.”
Una speranza condivisa da un altro Nobel – anche lui indiano – Amartya Sen che, in un’intervista rilasciata a Enrico Franceschini de la Repubblica, ha detto:
Non sono due leader politici. Ma anche un’iniziativa civile può aiutare a spingere India e Pakistan verso il dialogo. Il conflitto viene da tanti problemi, non particolarmente da problemi religiosi perché anche in India esiste un’ampia minoranza musulmana, ma ragioni politiche, storiche, economiche. Anche un piccolo gesto, come è questo Nobel rispetto alla vastità dei problemi, può cominciare a smuoverli. Auguriamoci che accada.
Si aggiunge all’augurio e propone una lettura di raggio più ampio anche Griff Witte sul Washington Post, sottolineando che il premio arriva “in un anno di conflitti che si propagano rapidamente”:
La scelta si estende su linee etniche, religiose e politiche per accendere nuove speranze di pace per il Sud Est asiatico, dove vive un quinto della popolazione mondiale.
Ma consegnare il Nobel per la Pace alla diciassettenne pakistana che sfida i talebani a colpi di proclami sull’educazione delle bambine del Pakistan e farlo nell’anno in cui il terrore assume le vesti dell’ “esercito nero di al Baghdadi” impone un’ulteriore interpretazione.
Nell’ ottobre del 2012, nei primi giorni successivi all’attentato a quella che i media di Karachi già definivano “la Rosa Parks del Pakistan”, la reazione dei pakistani si imponeva all’attenzione dei reporter.
L’attacco insensato contro questa adolescente ha colpito il paese allo stomaco e ha suscitato numerose dimostrazioni di sostegno. Nelle tv pachistane, nei quotidiani cartacei e online, è l’indignazione. Nelle trasmissioni religiose si sente perfino qualche invitato ricordare che questo crimine non ha nulla a che vedere con l’Islam.
Così scriveva all’epoca Mahawish Rezvi in un articolo che spiegava l’impatto dell’attentato sul Paese, non esitando a paragonare l’accaduto a una Pearl Harbour o a un 11 settembre, per il marchio indelebile che avrebbe lasciato.
A distanza di due anni e proprio in Pakistan c’è chi collega il riconoscimento del Nobel a Malala proprio alla lotta al fondamentalismo islamico.
Fatemi confessare, sin dall’inizio di questo articolo che sono un grandissimo fan di Malala. Per me, personalmente, lei (non Imran Khan) è la precorritrice di un nuovo Pakistan. Questo perché lei ha avuto il coraggio non solo di contestare e sfidare coloro che ci stavano riportando in un’epoca buia e continuano oggi con abitudini che sono responsabili della nostra arretratezza, ma anche perché lei ha avuto il coraggio di condurre una campagna contro di loro in modo significativo e tangibile.
Si apre così il commento di Dr Taimur Rahman, accademico e segretario generale del Partito comunista dei lavoratori e dei contadini, sul quotidiano pakistano Daily Times. Nel suo commento, le azioni della studentessa la rendono una figura nazionale ben più lodevole di quell’Imran Khan, campione di cricket e poi leader politico, che spopola tra i pakistani più e meno giovani. E, proseguendo nella lettura, l’elogio della giovane attivista diventa il preludio a una critica molto dura della società pakistana.
Non vogliamo avanzare verso una società secolare, moderna, scientifica e razionale. Vogliamo restare nella cornice della taqlid (imitazione). Ma la taqlid, nel contesto storico di un mondo che va avanti, può solo e inesorabilmente portare all’assurdità e alla barbarie dei Talebani. Ed è esattamente questo il motivo per cui mi sono sentito costretto a scrivere questo articolo in supporto di Malala Yousafzai e di tutti gli altri che hanno cercato di rompere lo schema della taqlid e affrontare un nuovo ordine di tanqid (autoriflessione critica) e tehqiq (ricerca).
Viene dall’India, si riferisce all’altro premio Nobel e tuttavia è di stampo simile all’opinione di Rahman, il commento dell’editorialista e scrittore indiano Dilip D’Souza che, su The Daily Beast, loda l’operato di Kailash Satyarthi, rimarcando però il paradosso:
Certamente è qualcosa che ci deve rendere fieri. Tuttavia l’ironia è che Satyarthi ha vinto per il suo sforzo, insieme alla Bachpan Bachao Andolan (BBA, Coalizione “Salva l’infanzia”), per porre fine allo sfruttamento dei bambini in India. Non proprio qualcosa da festeggiare, lo sfruttamento.