“L’Europa deve guardare alle proprie risorse”, “deve affrontare una conversazione seria al suo interno, sul futuro energetico”. Con queste parole, Obama ha messo in guardia l’Europa sulle conseguenze delle annunciate sanzioni extra nei confronti della Russia se Putin dovesse continuare con la violenza in Ucraina. Lo ha fatto il 26 marzo a Bruxelles, stringendo la mano a Barroso e Van Rompuy nella prima tappa della sua lunga visita europea, e proponendo l’energia americana “come nuova fonte di approvvigionamento”: “è una possibilità – ha detto il presidente – ma noi stessi abbiamo dovuto fare delle scelte difficili”.
Trattandosi di Russia, infatti, parlare di sanzioni senza toccare la questione energetica è un’impresa al limite dell’impossibile. E se il Wall Street Journal ha evidenziato la pervasività degli acquirenti russi in praticamente tutti e tre i settori economico-produttivi europei, stilando quelli che potrebbero essere i contraccolpi di eventuali sanzioni economiche contro Mosca, moltissimi altri osservatori hanno focalizzato l’attenzione proprio sulle analisi e le conseguenze del contraccolpo più temuto: la chiusura dei rubinetti di gas dalla Russia.
Come citato anche da Lee S. Wolosky su Foreign Affairs, “l’energia costituisce il 70% dell’export annuale russo quindi le sanzioni potrebbero, in linea di principio, essere uno strumento significativo per redarguire la Russia. Ma gran parte del petrolio e del gas russo sono diretti in maniera significativa all’Europa, e gli europei non si sono mostrati desiderosi o disposti a cambiare questa situazione rapidamente. E senza un’adeguata preparazione, sanzioni del genere potrebbero causare uno shock al mercato mondiale del petrolio che potrebbe minare la ripresa economica globale.”
Sulla stessa rivista si è espressa proprio sui presupposti di questa dipendenza anche Brenda Shaffer, ricercatrice al Centro di Studi Euroasiatici, Russi e dell’Est Europa della Georgetown University, mettendo in luce le vere radici della vulnerabilità dell’Europa di fronte alla questione energetica. Tanto per cominciare, l’Europa paga le conseguenze di anni e anni di politiche energetiche affidate a un mercato troppo liberalizzato: “Bruxelles ha lavorato per ridurre il ruolo dello stato e delle istituzioni europee nella sfera dell’energia. Ha supportato la privatizzazione delle compagnie energetiche, la disgregazione delle catene di distribuzione del gas e dell’elettricità e l’adozione di hub pricing anziché di contratti di fornitura a lungo termine”.
A rendere “il mercato energetico europeo (…) un’illusione” contribuisce poi lo stato delle infrastrutture: “i prezzi variano tra i diversi mercati, in base alla fornitura locale e alle dinamiche di domanda. I Paesi dell’Europa occidentale hanno più accesso ai gasdotti rispetto alla maggior parte dei paesi della periferia europea e perciò godono di forniture più sicure e prezzi più convenienti. I paesi dell’Est Europa sono specialmente vulnerabili, perché non avendo sbocchi sul mare non possono accedere al gas naturale liquefatto (LNG, ndr.), importato solo attraverso i porti marittimi (le esportazioni americane all’Europa arriverebbero come LNG). Questo non avrebbe particolare importanza se l’Europa avesse un sistema robusto e interconnesso di condutture di gas, ma non ce l’ha. Inoltre, anche se il gas naturale liquefatto americano potesse raggiungere l’Europa dell’Est, la maggior parte di queste paesi non potrebbe permetterselo economicamente”.
Conclusione: a minacciare il protagonismo dei fornitori russi non sarebbe tanto l’energia made in USA quanto piuttosto gli ammodernamenti alla rete di infrastrutture energetiche. Primo fra tutti, il cosiddetto TAP, il Southern Gas Corridor che dovrebbe collegare l’Azerbaijan all’Italia e che avrebbe mandato Mosca su tutte le ire. La Shaffer racconta dei tentativi di Gazprom di far saltare il progetto, sia cercando di acquistare alcune strutture nella tratta del TAP, che pagando i movimenti ambientalisti per contestare il progetto e promuovendo campagne di anti-fracking in Europa. “Se i watchdog europei non monitorano e rendono pubblica la manipolazione russa delle cause ambientaliste, distinguendo queste iniziative da quelle delle organizzazioni legittime, si troverà sempre più dipendente dalle importazioni di gas russo”, scrive la ricercatrice.
Andare avanti con sanzioni di natura e gravità diverse rispetto a quelle diplomatiche emesse nei confronti dei funzionari russi come prima reazione da parte degli Stati Uniti, è quindi più che mai un’arma a doppio taglio: per l’Europa, in primis – ma pure per la stessa America. A mettere la questione su questo piano è Danny Vinik su The New Republic, che, non prendendo più di tanto in considerazione l’alternativa americana del gas naturale liquefatto, prevede un effetto domino – reso ancora più drammatico dal tempismo della crisi in Ucraina – tra taglio delle forniture di energia russa, recessione europea e conseguente recessione globale.
Il rischio di un tracollo economico non è sottovalutato neppure da James Surowiecki che tuttavia, sul New Yorker, mostra un’Europa più preparata all’eventualità della fine dei rapporti energetici con la Russia. Ogni minaccia, arrivata da Mosca negli scorsi anni, di lasciare l’Europa al freddo ha infatti avuto come effetto la logica ricerca di alternative – fossero fornitori nuovi, come nel caso del Qatar, o fonti nuove, come nel caso del gas naturale liquefatto proveniente dagli Usa. Ed è questo il motivo per cui il gioco di Putin, benché forse efficace sul momento, si è rivelato fortemente improduttivo sul lungo termine: “la Russia ha bisogno dei proventi del petrolio e del gas per finanziare le proprie ambizioni imperiali e mantenere la stabilità nel paese. Allontanare i clienti e dare ai concorrenti uno spiraglio non è solo condurre un cattivo affare. È una cattiva politica. A Putin piace pensare a se stesso come un grande maestro della geopolitica. Ma per quanto riguarda il gas naturale non sta guardando abbastanza avanti”.
La creazione di nuove politiche e nuove logiche di approvvigionamento che tolgano alla Russia il ruolo centrale nella scena energetica mondiale è dunque una questione di attualità e urgenza che al tempo stesso va oltre l’hic et nunc dell’aggravarsi della crisi ucraina.
Quel “Rendere l’Europa più dipendente da noi, invece che dalla Russia”, ripetuto da tempo e come un mantra da Thomas Friedman, nei suoi editoriali per il New York Times, è stato finalemnte esplicitato anche da Obama, in Europa. Dietro al motto però si cela il trucco linguistico: quel “noi” è sì un pronome nazionalistico che sta per “gli USA” – ma il nemico da combattere è Putin, non la Russia.
Immagine: La centrale nuvleare Zaporižžja in Ucraina, la più grande in Europa