È sempre più tesa la situazione nel Kashmir e Jammu, lo Stato indiano che dal 1948 è conteso tra il Pakistan musulmano e l’India, democrazia laica ma a maggioranza induista. Di questi giorni le notizie di forti manifestazioni da parte dei giornalisti che rivendicano una piena libertà di stampa per raccontare quanto sta accadendo nella regione dopo che il governo guidato dalla destra induista di Narendra Modi – leader del Bharatiya Janata Party (Bjp) e premier in carica dal 2014 – ha revocato lo Statuto speciale allo Stato lo scorso 5 agosto.
Dal 1948 il Kashmir ha da sempre fatto appello all’articolo 370 della costituzione indiana per rivendicare una propria autonomia sul piano normativo e amministrativo e l’adesione alla neonata India indipendente era stata avallata dalla regione solo a patto che l’autonomia regionale venisse mantenuta. L’adesione allo Stato indiano avrebbe dovuto esser confermata attraverso un referendum che chiamasse a decidere la popolazione kashmira, come raccomandato anche dalla Risoluzione 47/1948 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ma i kashmiri non hanno mai potuto deliberare in tal senso. La regione, d’altro canto, non è nuova a tensioni geopolitiche che hanno chiamato in causa le vicine potenze nucleari di India e Pakistan: se l’India ha rivendicato il possesso della regione in nome del pluralismo religioso che ha caratterizzato la democrazia indiana sin dalle sue fondamenta (nonostante questo pluralismo si stia significativamente erodendo negli ultimi decenni a fronte di una maggioranza induista sempre più tenace), dal canto suo anche il Pakistan ha sempre reclamato interesse sulla regione in nome della fede musulmana della maggioranza della popolazione kashmira (per quanto anche in Kashmir siano presenti minoranze sikh e elite induiste). Dalla fine degli anni Ottanta, l’ascesa di movimenti estremisti indù nel subcontinente ha avuto quindi come contraltare il fiorire di nuovo risentimento contro lo Stato indiano in Kashmir e le file della militanza di matrice jihadista si sono nutrite, con il sostegno sostanziale dell’esercito pakistano. Oggi nella regione sono presenti circa seicentomila unità militari indiane che si sono macchiate a più riprese di brutali repressioni nei confronti degli indipendentisti: torture, stupri, sparizioni forzate, omicidi, sono solo alcuni dei crimini di cui la regione è stata testimone negli ultimi anni. Un conflitto “dimenticato” da qualcosa come cinquantamila morti.
Nel primo decennio del 2000, anche data la stretta indiana sulla regione, la militanza indipendentista ha acquisito nuova linfa e sempre più giovani cresciuti sotto la repressione indiana si sono uniti alla causa indipendentista. Il governo Modi ha stabilito una politica di tolleranza zero verso terroristi e militanti che è stata contraddistinta da una repressione esponenziale e una sempre più massiccia presenza militare nella regione. Anche la stessa decisione relativa alla fine dello statuto speciale, nell’ottica di un maggiore accentramento sotto il controllo diretto di Delhi, è stata presentata dall’esecutivo come un’azione di sostegno allo sviluppo del Kashmir verso una più piena e positiva integrazione all’India. Dal 4 agosto scorso l’India ha anche imposto il coprifuoco su tutta la regione, insieme alla sospensione della maggior parte dei servizi di telecomunicazione e dell’accesso a notizie indipendenti (solo la narrativa indiana ufficiale viene veicolata). Sempre più numerose le proteste e le manifestazioni che giornalmente esplodono nella regione, come riportano i media internazionali (BBC, New York Times, ANSA tra questi). Gli scaffali degli ospedali sono allo stremo e ai medici non è permesso parlare con i reporter dei pazienti feriti. Amnesty International ha a più riprese fatto sentire la sua voce e il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è riunito a porte chiuse già a metà agosto senza emanare decisioni vincolanti per nessuna delle parti in causa.
Del 2 ottobre un pressante appello di tutta la Redazione del New York Times nei confronti delle Nazioni Unite per una decisione rispetto agli eventi in corso, in un articolo a firma di tutto il Comitato Editoriale, The UN Can’t Ignore Kashmir Anymore (Le Nazioni Unite non possono più ignorare il Kashmir), in cui vengono prese sul serio le parole all’ONU di fine settembre del premier pakistano Imran Khan che aveva invitato i membri dell’Assemblea Generale a convincere l’India a far retrocedere le truppe, data l’imminente possibilità di una guerra anche tra i due contendenti (che peraltro hanno, entrambi, in mano il nucleare).
La stessa opinione pubblica internazionale non è silente, se è vero che lo stesso Premio Nobel per l’economia Amartya Sen, cittadino indiano di ascendenza bengalese, è intervenuto a fine agosto sull’emittente nazionale indiana hindi NDTV per denunciare il suo disaccordo con le mosse indiane, criticando con veemenza il cambio di rotta del Governo Modi sul Kashmir, affermando che nelle decisioni che chiamano in causa la vita delle persone non possono essere accampate le pretese della sola maggioranza indù del subcontinente. Sottolineando le lacune nella decisione del governo indiano su più livelli, l’economista indiano ha dichiarato: “Come indiano, non sono orgoglioso del fatto che l’India, dopo aver fatto così tanto per raggiungere la democrazia nel mondo – se si pensa che l’India è stata la prima nazione non occidentale a sostenere la regola democratica – rischia di perdere la reputazione a causa delle azioni intraprese”. Sen si è altresì scagliato contro la detenzione illecita dei leader indipendentisti del Kashmir: “Non credo che avrai mai equità e giustizia senza ascoltare le voci dei leader del popolo e se manterrai migliaia di leader sotto controllo e molti di loro in prigione, compresi leader che hanno fatto parte dei governi in passato… Questo significa soffocare il canale della democrazia“. A dire di Sen, infine, non regge neppure la logica secondo cui arrestare i leader popolari sia da considerare alla stregua di misura preventiva per prevenire ulteriori agitazioni: “Questa è una scusa coloniale, simile a quella con cui i britannici hanno gestito l’India per secoli e l’ultima cosa che mi sarei aspettato dopo l’indipendenza è che si sarebbe tornati all’eredità coloniale delle detenzioni preventive”, ha concluso l’accademico di Harvard.
Ciò nondimeno, la mossa estiva del governo Modi per porre fine allo status speciale di Jammu e Kashmir ha ricevuto sostegno politico e popolare all’interno dello Stato indiano, anche con il consenso di alcuni partiti di opposizione e leader politici. Ampia parte dell’emiciclo del Congresso indiano ha infatti applaudito alla fine dello status speciale, che ora avrebbe messo Jammu e Kashmir alla pari con il resto del paese.
Se è vero che la partita rischia di destabilizzare l’intero continente asiatico, il presidente americano Donald Trump ha cercato nelle ultime settimane di intervenire a sedare gli spiriti di ambo le parti, trovando a parole terreno fertile per un confronto più disteso tanto con il pakistano Khan quanto con il corrispettivo indiano Modi. Se il Pakistan, infatti, auspica di non essere più considerato dall’Occidente tra i finanziatori del terrorismo jihadista, Modi sembra più che interessato ad una partnership commerciale tra l’agricoltura USA e quella indiana, dopo la guerra dei dazi americana che ha messo fuori gioco i rapporti con l’altra superpotenza globale, ovverosia la Cina. E Trump ha bisogno, dopotutto, del più ampio sostegno possibile da parte della comunità indo-americana – quattro milioni di cittadini USA, principalmente concentrati nella produttiva Silicon Valley – se il tycoon intende presentarsi alle elezioni del prossimo anno con qualche chance di vittoria. Nei prossimi giorni scopriremo se questi appelli della comunità internazionale sono destinati a gettare acqua o benzina sul fuoco.