“La migliore possibilità che abbiamo avuto fino ad oggi di assicurarci che l’Iran non si doti di un’arma atomica.” Così ha ribadito Barak Obama, intervistato da Thomas L. Friedman per il New York Times. Già nella nota ufficiale pubblicata immediatamente dopo il raggiungimento dell’accordo, la Casa Bianca aveva espresso grande ottimismo e soddisfazione, presentando l’esito della trattativa come “un’opportunità storica per prevenire la diffusione di armi nucleari in Iran, in modo pacifico e con l’appoggio della comunità internazionale”.
L’intesa di Losanna tra Iran e Stati Uniti è stata raggiunta lo scorso 2 aprile, una data significativa per la cultura persiana, il Sizdah Bedar, l’ultimo giorno dei festeggiamenti per il nuovo anno. La stesura dell’accordo verrà ultimata entro il 30 giugno e gli effetti dovrebbero essere visibili tra circa un anno ma il paese già festeggia la fine delle sanzioni. A darne notizia è stato il capo della diplomazia europea Federica Mogherini.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è dichiarato del tutto contrario agli accordi, definendoli poco efficaci e dannosi per i futuri equilibri geopolitici della regione mediorientale e per la sopravvivenza dello stesso Stato di Israele. Per questo motivo il premier ha chiesto che qualunque accordo finale con l’Iran “includa un chiaro e non ambiguo riconoscimento del diritto di Israele di esistere”.
In merito a ciò il Presidente Obama si è già espresso, rispondendo al premier israeliano in un’intervista radiofonica alla National Public Radio (NPR):
L’idea di condizionare un accordo per prevenire che l’Iran abbia il nucleare al riconoscimento di Israele sarebbe come dire non firmiamo nessun accordo a meno che la natura del regime iraniano non cambi completamente. Sarebbe un errore di valutazione.
Le dichiarazioni di Netanyahu sono al centro dell’articolo “Can Israel Still Scuttle the Iran Nuclear Deal?” pubblicato su Foreign Policy a firma di Amos Harel. L’autore sostiene, utilizzando un linguaggio sarcastico e provocatorio, che il premier israeliano dovrebbe essere contento del raggiungimento dell’accordo in quanto ne è di fatto uno dei maggiori artefici: l’aver reso Israele una credibile minaccia militare per contrastare il programma nucleare iraniano ha spinto il presidente Obama a lanciare le sanzioni che hanno distrutto l’economia della Repubblica Islamica e la crisi economica ha aperto la strada della Presidenza al moderato Hassan Rouhani e conseguentemente reso possibili i negoziati di Losanna.
Esattamente dello stesso avviso è Akiva Eldar che nel suo pezzo “Is Netanyahu responsible for Iran deal?” recentemente pubblicato su al Monitor scrive:
Per anni Netanyahu ha costretto la comunità internazionale a mettere il programma nucleare iraniano in cima alla sua agenda. Se non fosse stato per le sue minacce (reali o meno) di bombardare gli impianti nucleari iraniani, probabilmente le potenze mondiali non si sarebbero unite per assicurarsi che l’Iran usi l’energia nucleare solo per scopi pacifici. Se Netanyahu non fosse riuscito a convincere i membri del Congresso ad intensificare le sanzioni contro l’Iran, sarebbe stato alquanto improbabile la conclusione di un qualunque negoziato tra Teheran e “il Grande Satana”.
L’editoriale pubblicato il 7 aprile sul New York Times critica aspramente la chiusura israeliana:
Netanyahu si comporta come se potesse dettare da solo i termini di un accordo la cui formulazione ha richiesto 18 mesi e che non ha coinvolto solo l’Iran e gli Stati Uniti ma anche la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, la Russia e la Cina.
Ad ogni modo Israele ha le sue ragioni per temere il raggiungimento dell’accordo: una volta tolte le sanzioni, Teheran avrà maggiori risorse economiche per aumentare ed espandere la propria influenza in Medio Oriente e Asia Centrale. Resta da capire quali azioni politiche seguiranno le dichiarazioni del premier.
La lettura che dà Daniel Pipes nel suo pezzo “Decoding the Obama doctrine” pubblicato sul Washington Post è decisamente critica riguardo questa e molte altre azioni di politica estera dell’attuale presidenza statunitense. A suo parere, se Obama venisse rieletto nel 2016 e la sua “dottrina” divenisse la norma, gli americani diverrebbero dei “masochisti colmi di rimorso in stile europeo”, eternamente impegnati nel vano tentativo di rimediare agli errori del passato.
Un altro pezzo del Washington Post a firma di E.J. Dionne Jr.,“How to read Iran debate”, è cautamente più ottimista nel leggere l’esperimento iraniano. Dionne scrive:
Vedo la possibilità – non una probabilità, una possibilità – che un accordo potrebbe condurre ad un’apertura dell’Iran e ad un rafforzamento degli attori democratici al suo interno. Affinché non mi consideriate uno sciocco, ricordate che sia Ronald Reagan che Margaret Thatcher pensarono che scommettere su Mikhail Gorbachev avrebbe potuto portare ad un cambiamento dell’Unione Sovietica.
Secondo Dionne dunque lo scenario di un nuovo Iran è quantomeno possibile. Al contrario Jonah Goldberg in “Iran nuke deal, no deal at all” pubblicato su Usa Today lo scorso lunedì esprime grandi perplessità sulla concretezza dell’accordo di Losanna. Secondo Goldberg i punti di disaccordo sono già molti e molti nasceranno di certo in futuro e inoltre, se pure gli Stati Uniti ottenessero tutto ciò che chiedono questo non impedirebbe all’Iran di dotarsi di un’arma atomica, dal momento che gli si consente di tenere gli istituti di ricerca e non gli si impone di distruggere le riserve di uranio impoverito che già possiede. Ad ogni modo, continua Goldberg, il fine ultimo – e a suo parere irrealizzabile e utopico – di Obama è un altro e cioè quello di far uscire l’Iran dall’isolamento nel quale ha vissuto, aiutarlo ad essere un attore regionale potente e più democratico che potenzialmente smetterebbe di dare supporto ad Hamas a Gaza, ad Hezbollah in Libano, agli Houthis in Yemen, a Bashar Assad in Siria e ai militanti sciiti in Iraq.
Ancora per il Washington Post, Eugine Robinson considera l’accordo un punto di svolta nelle relazioni tra Stati Uniti e Iran dal quale non si può tornare indietro. In “A Turning Point in U.S. – Iran relations” il giornalista definisce i recenti sviluppi un cambiamento in meglio e ricorda che “ai negoziati hanno preso parte non solo l’interventista Francia ma anche Germania, Gran Bretagna, Russia e Cina”. Robinson non nasconde alcune sue perplessità soprattutto in merito alle modalità del monitoraggio internazionale del disarmo nucleare iraniano: nell’eventualità che la Repubblica Islamica mantenga delle strutture non dichiarate nel suo vastissimo entroterra in che misura sarà possibile controllare? Robinson conclude così:
Obama e i suoi alleati stanno scommettendo che tra una decina d’anni di crescita economica l’influenza dell’Iran nella regione diverrà meno maligna. Non è di certo una scommessa sicura ma al momento non c’è alcuna concreta alternativa.
Proprio sul ruolo dell’Iran nella regione mediorientale e su quali equilibri potrebbero cambiare si interroga al-Arabiya. In “Iran’s nuclear deal will change the region, but…” Abdulrahman al-Rashed si chiede che direzione prenderanno l’Iran e il mondo arabo:
Questo accordo potrebbe anche innescare una corsa agli armamenti, molto probabilmente nucleari. Dobbiamo valutare il suo impatto sulle relazioni tra paesi arabi e Occidente e in che misura potrebbe ulteriormente alimentare gli attuali conflitti settari. […] Stiamo affrontando un cambiamento drammatico; la porta dietro la quale l’Iran è stato imprigionato dal mondo si sta per aprire e ora non possiamo essere certi della direzione che prenderà questo Iran libero.