Il Corriere della Sera: “Quattro in fuga: colpiremo ancora”, “Intercettati i complici dell’artificiere: ‘Uccideremo i miscredenti’. Sono della stessa cellula degli attacchi a Parigi. Erano stati fermati e rilasciati, come uno dei kamikaze dell’aeroporto. Dispersa una funzionaria italiana della Ue”.
Sul tema un commento di Franco Venturini (“La sicurezza non basta”, “Il vero interesse nazionale”), un articolo di Giovanni Bianconi (“La falla nei servizi segreti”), un’intervista all’ex premier Tony Blair (“‘Siamo troppo intimiditi”) e una filosofo Michael Wazer (“Non dare alibi ai nemici”).
L’editoriale di Paolo Mieli contesta “i paragoni sbagliati” con il fascismo o il nazismo.
A fondo pagina: “Banco-Bpm, al via la terza banca del Paese”, “il sì dei consigli alla fusione dopo il semaforo verde della Bce. Un gruppo da 2.500 sportelli”.
Di fianco, sull’assemblea a Roma convocata dall’ex ministro greco delle Finanze Varoukakis: “Varoufakis amato dalla sinistra orfana” (di Monica Guerzoni).
Infine, “Il geologo diventa un prof di latino”, “Paradossi di una riforma”. Ne scrive Orsola Riva.
La Repubblica: “Il Belgio conosceva i kamikaze”, “Due dei killer dovevano stare in carcere fino al 2020. La Turchia: uno di loro segnalato come terrorista. Il testamento prima delle bombe: vendicare Salah. Un’italiana tra i dispersi nell’attentato al metrò”.
In grande evidenza le foto di fratelli attentatori che si sono resi protagonisti delle stragi: i fratelli El Bakhraoui a Bruxelles, gli Abdelslam a Parigi, i fratelli Kouachi per l’attacco a Charlie Hebdo, gli Tsarnaev a Boston nell’attentato alla maratona del 2013.
Ed è il tema di un commento di Olivier Roy, di fianco: “I fratelli assassini della jihad”.
In apertura l’editoriale del direttore Mario Calabresi: “Solo l’Europa ci salverà”.
Più in basso l’analisi di Gianluca Di Feo: “Il colabrodo della sicurezza”.
Ancora dedicata a questi temi è l’intervista a Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue della Politica estera: “Mogherini: dialogo con l’Islam, così fermeremo il terrore”.
A fondo pagina: “Bollorè, il re di Francia che si mangia Telecom”, di Alessandro Penati.
E un “appello al governo” dei ricercatori italiani che hanno vinto i fondi dell’European research Council: “I ragazzi della ricerca: ‘Sette idee per restare'”.
La Stampa: “Europa, la grande caccia ai terroristi”, “I Servizi: 400 jihadisti pronti a colpire, alcuni sono in Italia. Il testamento di un kamikaze: vendico Salah”, “Mistero sul quarto uomo del commando di Bruxelles, si cercano altri membri della cellula. Dispera un’italiana. Erdogan: arrestammo un attentatore, i belgi l’hanno rilasciato”.
Le interviste del quotidiano richiamate in prima: a Olivier Roy, Nicola Piacente, Alan Dershowitz e Mordechai Kedar.
Di spalla, su Papa Francesco: “‘Non ho paura, in ansia solo per la gente'”, “Nessun cambio ai riti pasquali: tutto il mondo condanni questo orrore”.
In apertura a sinistra: “I nostri caduti ci chiedono unità e coraggio” (di Gianni Riotaa) e “Distruggiamo la credibilità del Califfato” (di Bill Emmott).
Sulla colonna a destra: “Sbagliato considerarci invulnerabili”, scrive Mattia Feltri.
In prima anche un titolo sulle banche e le “nozze Milano-Verona”: “Vi alibera alla fusione tra Bpm e Banco popolare: c’è l’ok dell’Ue”, “Nasce il terzo gruppo italiano del credito. Restano i problemi di Carige e Montepaschi”.
Il Fatto: “Ma il Belgio sapeva tutto: 1 killer rilasciato, 2 in fuga”, “Nel commando della strage erano in quattro, tutti noti agli inquirenti”, “Totalmente ignorati gli allarmi dei Servizi israeliani e turchi”.
L’editoriale del direttore Marco Travaglio: “Molto intelligence”.
A centro pagina: “Italicum boomerang per Renzi: il Pd perderebbe il ballottaggio”, “Sondaggi amari. Nuova strategia su Roma: Giachetti non corre più per vincere”, “Una sorta di ‘desistenza strategica’ per favorire l’elezione di Raggi a sindaco della Capitale. La speranza è che un eventuale flop amministrativo all’ombra del Colosseo possa penalizzare M5S”.
In prima anche una foto di Dario Fo, che oggi compie 90 anni e che il quotidiano intervista: “Anziano, non vecchio. Tutto merito di Franca”.
E l’appello di Andrea Camilleri e Pietrangelo Buttafuoco: “‘Franceschini salvi il tesoro morente della nostra Sicilia’”.
Libero: “Occhio alle Molenbeek italiane”, “Il nemico in casa”, “Nelle nostre città ci sono pericolose enclave dove prende piede la sharia: da Roma a Brescia, ecco che succede. Per evitare di fare la fine dei belgi, sono necessari poteri speciali. Anche a costo di rinunciare a pezzi di libertà”.
Al tema è dedicato l’editoriale del direttore Alessandro Sallusti.
In grande evidenza una foto della cantante Adele: “Adele sta con Libero: ‘Bastardi’”, “La star contro i terroristi musulmani: noi meglio di loro”.
Più in basso, ancora sulla strage di Bruxelles: “Anche un’italiana morta nel metrò ma è difficile identificare i 32 corpi”, “L’artificiere’ s’è fatto esplodere in aeroporto”.
Di spalla a destra, le risposte alla domanda “come difenderci?”. Mario Giordano: “Inutile ogni misura se poi ci sono agenti come quelli belgi”; Francesco Borgonovo: “Controlli in moschea e basta cedere ai ricatti islamici”; Carlo Panella: “Spazzare via l’Isis sarebbe facile. Però c’è Obama”.
Gli attentati, l’indagine
Su La Repubblica: “I due fratelli kamikaze dovevano essere in cella. Trovato il testamento: ‘Non finirò come Salah'”. Scrive Calo Bonini che i fratelli El Bakhraoui erano cresciuti tra la strada e il carcere, dove sarebbero dovuti rimanere fino al 2020. Nati e cresciuti a Molenbeek, erano diventati prima feroci banditi di strada e poi soldati dell’Is arruolati per procura nella cellula di Salah Abdelslam e Abdelhamid Abaaoud. Quella che avrebbe fatto strage a Parigi prima di colpire a Bruxelles. Ibrahim El Bakraoui nel gennaio 2011 aveva rapinato un’agenzia della Western Union (una rapina che trasformò in un inferno); nel settembre 2011 è stato condannato a 9 anni di carcere. Il fratello Khalid è stato condannato nel 2011 a 5 anni di carcere per furto d’auto e possesso d’armi (la pena è stata sospesa). “Erano tracciati da Interpol, almeno dall’autunno dello scorso anno. Così facili da fermare che nessuno in Belgio avrebbe deciso di farlo -scrive Bonini- Né prima, né dopo che si erano manifestati per quel che erano. Se è vero, come sostiene ora (smentito dalla procura belga) il presidente urco Erdogan, che Ibrahim El Bakhraoui era stato fermato lo scorso anno al confine siriano ed espulso verso la sua Bruxelles”.
Sul Corriere ne scrive Marco Imarisio: “L’identikit degli assassini. Uno dei kamikaze venne fermato e rilasciato”: “glia attacchi di Parigi e di Bruxelles hanno la stessa mano, questo ormai è chiaro. Ma i legami tra i membri di quella che resta a metà strada tra la cellula e un gruppo di amici che si è radicalizzato in carcere sono così evidenti che basta mezza giornata per ricostruire una mappa talmente fitta di incroci da risultare persino più complicata di quella che è”. Khalid aveva affittato sotto falsa identità, ma usando la propria carta di credito. l’appartamento di rue de Fort a Charleroy, servito per preparare le cinture esplosive usate il 13 novembre (a Parigi, ndr.). I fratelli Abdelslam e il loro amico Abdelhamid Abaaoud, la mente del gruppo, ci dormono la notte prima degli attentati. Nel 2010, dopo l’espulsione dal liceo cittadino, Ibrahim El Bakhraoui aveva lavorato per qualche tempo nel magazzino di stoffe del quale è proprietario il padre di Abaaoud”. Ed è ancora Khalid che affitta la casa di Forest che il 15 marzo viene perquisita dalla polizia belga credendo che fosse disabitata.
Giuseppe Guastella spiega poi che gli attentatori di Bruxelles avevano chiesto un pullmino, ma per un errore della centrale radio è arrivata solo l’automobile del tassista che poi si sarebbe rifiutato di caricare la quarta valigia per mancanza di spazio: la testimonianza del tassista, che li ha riconosciuti guardando la foto dei tre in tv e si è recato alla polizia, ha permesso agli investigatori di arrivare all’indirizzo di Shaerbeek dove, in seguito all’irruzione, sono stati trovati -come ha detto il procuratore federale Van Leeuw- tutti gli elementi per fabbricare bombe (15 chili di Tatp, 150 litri di acetone, 30 litri di acqua ossigenata, detonatori e una borsa piena di chiodi e viti).
Su La Stampa Giordano Stabile si occupa di Najim Laachraui, l’artificiere degli attacchi di Parigi, che si è fatto esplodere all’aeroporto di Bruxelles: è arrivato a Raqqa (la ‘capitale’ dell’Is in Siria, ndr.) nel febbraio del 2013. con un diploma da elettrotecnico, ha frequentato la scuola degli artificieri dell’Isis. Gli islamisti addestrano due tipi di figure. Quelli che fabbricano bombe da strada (Ied), veicoli kamikaze. Per il fronte e la guerra urbana. E gli artificieri destinati a colpire in Occidente, che imparano a realizzare esplosivi con materia prima comprata al supermercato, come il Tatp, usato a Parigi e Bruxelles, a base di acetone. Un marchio Isis. E detonatori che passano attraverso i metal detector.
Belgistan?
Su La Stampa, un articolo di Francesca Paci: “Da Anversa alle banlieue di Bruxelles. Ecco com’è cresciuto il ‘Belgistan'”, “Il Paese è il più grande serbatoio europeo di jihadisti. I giovani si radicalizzano in moschea o nelle prigioni”.
Su La Repubblica ne scrive Anais Ginori: “Nella Mezzaluna povera di Bruxelles il vivaio dei combattenti dell’Occidente”, “Da Shaerbeck a Forest, ecco le zone in cui sono stati trovati gli ultimi covi jihadisti: qui la disoccupazione arriva al 60% e in pochi chilometri ci sono 70 moschee”, “In questa area sono state accolte tutte le ondate di immigrazione ma senza mai integrarle”.
Su Il Fatto, la corrispondenza di Leonardo Coen da Molenbeek: “Molenbeek crocevia del terrore (e degli errori d’intelligence)”, “Da 15 anni da qui partono gli attacchi all’Occidente. E negli ultimi mesi una serie di buchi nella caccia a Salah & C”, “6 chilometri quadrati. Protetti dalla connivenza mafiosa di amici, complici e simpatizzanti”.
Su Il Corriere, l’inviato a Bruxelles Stefano Montefiori: “La capitale d’Europa. L’integrazione fallita”, “I santuari dell’Isis”, “Così l’ex zona operaia della città è diventata negli ultimi decenni il crocevia dei jihadisti operai”.
Coordinamento mancato nella Ue
Su La Repubblica, a pagina 2, un articolo di Gianluca Di Feo: “Niente dati comuni e 007 gelosi, ecco i buchi della sicurezza”, “Dal 2001 ad oggi, l’Ue non è riuscita a creare un organismo unitario. Con regole diverse e apparati lenti non si fermano i jihadisti”. A pagina 3 l’editoriale del direttore Mario calabresi: “Da Bruxelles a Parigi solo l’Europa unita può salvarci dai terroristi”, “non possiamo immaginare di difenderci se ogni Paese attua una sua originale politica, se le informazioni non vengono scambiate” ; “il Belgio ha pagato caro le divisioni tra i diversi ceppi linguistivi (francese, olandese e tedesco). Divisioni che hanno impedito le collaborazioni, hanno fatto alzare muri, diffidenze e gelosie. Una nazione di poco più di 11 milioni di abitanti che oltre ai due rami del Parlamento nazionale ha tre Parlamenti regionali (Fiandre, Vallonia e Bruxelles), ognuno dei quali legifera non solo su problemi locali ma in tutto l’ambito economico e politico”; “vogliamo fare la fine del Belgio?”
Su Il Foglio David Carretta ricorda che oggi i ministri dell’Interno dell’Ue si vedranno in una riunione straordinaria. Ieri il presidente della Commissione Ue Juncker ha detto: “Non so perché” i servizi degli Stati membri “non collaborano”. Scrive Carretta che “Il Belgio è il laboratorio di ciò che potrebbe diventare l’Ue in un processo di disgregazione nazionalista e isolazionista. Le due comunità istituzionalizzate -fiamminga e francofona- non comunicano tra loro nei diversi livelli di potere, rispondono a ‘costituencies’ separate e lasciano pullulare il comunitarismo. Un ministro dell’Interno della destra nazionalista fiamminga come Jan Jambon, può annunciare l’intenzione di ‘ripulire’ Molenbeek, salvo dimenticarsene perché è un problema dei francofoni di Bruxelles. A livello europeo, ciascuno stato membro vuole tenersi la sua intelligence e i suoi eserciti per non essere costretto a fare una guerra europea a Molenbeek o a Raqqa. Ma all’aeroporto e in metropolitana le vittime erano francofone, fiamminghe e di altre quaranta nazionalità”.
“L’ultima chiamata per l’Europa a rischio naufragio” è il titolo di un editoriale di Francesco Grillo su Il Messaggero: “Com’è possibile che i terroristi abbaino colpito al cuore e paralizzato una città blindata? Com’è possibile che lo abbiano fatto, dopo tre soli giorni dal blitz di Molenbeek che ha portato alla cattura dell’ultimo degli attentatori di Parigi, in una città nella quale da quattro mesi c’è uno spiegamento di forze di polizia mai visto prima in Europa negli ultimi cinquant’anni?”; “prima che divampi la solita guerra di religione sulla tolleranza e l’intolleranza”, tra “chi proclama di esser pronto a combattere (senza chiarire contro quale nemico) e chi il conflitto lo rifiuta a prescindere”, la domanda da porsi è “drammatica” e allo stesso tempo “pratica”. Drammatica perché la giornata di martedì potrebbe essere ricordata come quella in cui le istituzioni europee ed internazionali, già gravemente ammalate di una profonda crisi di legittimità ed efficacia, hanno smesso di funzionare. Pratica perché se anche ammettiamo che quello di martedì possa essere stato -come sostiene qualcuno- il fallimento del sistema di sicurezza di un Paese (il Belgio), c’è ancora una volta il problema di capire che fine ha fatto l’Europa. Visto che è evidente che il presidio delle strutture logistiche di una città che ospita tutte le sue istituzioni non può essere considerato come un problema comune”. “Tra le macerie di Zaventem -scrive più avanti Grillo- sembra morire l’Europa: il paradosso, però, è che ad un governo europeo e globale dei problemi continua a non esserci un’alternativa ed anzi è la nostra vulnerabilità a rendere ancora più chiaro che qualsiasi soluzione nazionale -ad esempio sulla questione del presidio del territorio e del controllo delle comunicazioni- sarebbe assolutamente inadeguata. Se la risposta al nuovo attacco è la fine di Schengen, già trattato assai male dai Paesi spaventati dai profughi, avranno vinto loro”; “l’Europa si slava se, piuttosto che perdersi in guerre di trincea tra ideologie e paralisi burocratiche, avrà il pragmatismo di costruire una polizia e sicurezza comuni, un unico diritto d’asilo e di accoglienza di migranti e frontiere da gestore insieme”.
La Repubblica intervista Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per la Politica estera: “Ora cooperazione tra le intelligence, siamo una cosa sola”. “Guardate qui -dice- Queste sono le conclusioni del Consiglio europeo straordinario del 21 settembre 2001, all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle. Cito: ‘è necessario migliorare la cooperazione e lo scambio di informazioni tra i servizi di intelligence dell’Unione. a questo scopo occorre creare squadre di investigatori comuni. Gli Stati membri devono condividere tutte le informazioni utili riguardanti il terrorismo con Europol, sistematicamente e senza indugi’. Senza indugi? Questo risale a 15 anni fa”; “e’ l’approccio nazionale che non ha funzionato, perché il mondo è globalizzato, l’Unione e integrata e le connessioni con il resto della regione sono forti”; poi, sulla necessità di vivere insieme al di là della nazionalità, della religione e della cultura, dice : “se cadiamo nella trappola della semplificazione del ‘loro’ contro ‘noi’ rinneghiamo i nostri valori. Non è la diversità che distruggerà la nostra civiltà, ma la paura della diversità”.
Come rispondere, chi sono i terroristi
Su La Repubblica, in prima, un commento di Olivier Roy, politologo francese e grande esperto di “islam globalizzato”. Si sofferma sul fenomeno dei “fratelli” assassini del Jihad: “a portare la morte a Bruxelles sono stati due fratelli. Non è un caso isolato. nelle reti jihadiste è piuttosto comune trovare membri della stessa famiglia, molto spesso fratelli: come i Tsarnaev, attentatori ceceni alla maratona di Boston, i Kouachi, responsabili della strage di Charlie Hebdo, o gli Abdelslam, membri del commando del 13 novembre a Parigi”. Sfidano “prima di tutto le famiglie. A genitori ormai occidentalizzati, che spesso non hanno trasmesso loro la conoscenza della religione o della lingua di origine, rispondono con una sfida: noi siamo tornati alle origini e conosciamo la vera religione, voi no”; “di solito si sono radicalizzati in piccoli gruppi chiusi: una coppia di fratelli, appunto, due amici di infanzia. Non è la moschea a giocare un ruolo chiave nella loro formazione, ma Internet”.
Olivier Roy viene intervistato anche dal Corriere e spiega “Il radicalismo nichilista che nasce in famiglia”. Sottolinea che “tutti vengono dalla criminalità comune. Sino a pochi mesi fa non praticavano la loro religione. A un certo punto si sono radicalizzati in modo estremamente rapido. Dallo spaccio di droga e i piccoli crimini comuni sono passati ad ammirare l’Isis. Per loro l’ideologia e la pratica della violenza jihadista sono stati un modo per affrancarsi da una vita di marginalizzazione”; “rifiutano il modello offerto dai loro genitori, rifiutano la religione della moschea dove sono cresciuti”; quanto al fatto che le loro famiglie vengano dal Maghreb, Roy sottolinea che il problema dei maghrebini è che “sono vittime della massima perdita di identità radicale”; “non parlano più la lingua dei padri, più facilmente di altri perdono l’abitudine delle preghiere o di recarsi alla moschea”.
Le pagine 12 e 13 de La Stampa rispondono alla domanda: “Come possiamo fermarli?”. Rispondono Olivier Roy (“Non colpevolizziamo l’Islam e formiamo imam per le carceri”); Nicola Piacente, procuratore capo di Como (“Bisogna trasformare in reato il ritorno dei foreign fighters”); l’avvocato americano Alan Dershowitz (“Il caso Salah ci insegna: dobbiamo interrogare meglio”, a Salah bisognava offrire l’immunità o magari una pena ridotta in cambio di informazioni) e Mordechai Kedar, che per 25 anni è stato nell’intelligence militare israeliana (“Servono controlli più sofisticati non solamente nelle moschee”.
Su La Repubblica un’analisi di Renzo Guolo: “Così il popolo della jihad cresce nelle nostre città”, “In quattro anni gli europei partiti per Siria e Iraq sono stati 5000. Due terzi vengono da quattro Paesi: Francia, Gran Bretagna, Germania e Belgio. I giovani vedono nell’estremismo l’unica narrazione in grado di dargli un’identità. Fino a formare uno Stato che è senza geografia, ma che si trova nelle loro teste”, “Quello che li spinge non è un discorso religioso o il ‘paradiso dei martiri’ ma un’ideologia totalizzante”, “il fenomeno non è destinato ad esaurirsi in breve. Nemmeno con la distruzione del Califfato, che può rifondarsi altrove”.
Dal Corriere segnaliamo l’intervista di Massimo Gaggi al filosofo liberal americano Michael Walzer, che dice: “Lo Stato islamico mette in pericolo la nostra sicurezza ma è anche, e soprattutto, una minaccia per le democrazie dell’Occidente che rischiano grosso in un clima di emergenza estrema”, mi spaventa “quello che potrebbe accadere in ottobre, alla vigilia del voto per la Casa Bianca: un’ondata di attentati, magari anche qui, negli Stati Uniti. E Donald Trump che vince le elezioni”; “il conflitto non è tra civiltà diverse, ma all’interno di ogni religione: in ognuna sono spuntati gruppi radicali pronti a tutto. Ci sono nell’Islam, ma anche tra i cristiani, ci sono gli estremisti buddisti in Birmania, ci sono i nazionalisti induisti e i sionisti messianici in Israele. Il fanatismo religioso c’è in ogni civiltà: è quello che va combattuto.
Alla pagina seguente, intervista di Paolo Valentino all’ex premier britannico Tony Blair: “Stiamo concedendo troppo. La tolleranza finisce se si toccano i nostri valori”, “Uno dei problemi dell’Occidente è che riesce costantemente a sentirsi colpevole”, “dobbiamo lanciare quelle che io chiamo un’azione globale sull’educazione, in cui tutti i Paesi si impegnino a orientare i loro sistemi scolastici per promuovere la tolleranza”.