Il Corriere della Sera: “Duro scontro nel Pd sul lavoro. Renzi vince a larga maggioranza”. Il quotidiano milanese dedica il titolo principale ad una intervista al Presidente della Corte Costituzionale Tesauro: “‘Basta scorribande sulla Consulta’”. “Tesauro accusa: brutto spettacolo in Parlamento, si delegittimano le istituzioni indipendenti”. E poi: Il Presidente della Corte Costituzionale: Sono cattolico ma la fecondazione eterologa è una realtà incoercibile”.
A centro pagina, con foto: “A Hong Kong la rivoluzione dei ragazzi con l’ombrello”.
Il Sole 24 Ore: “Jobs Act, l’articolo 18 rimane nei licenziamenti disciplinari. Renzi apre alla sinistra e amplia il reintegro. Vertice da Napolitano: cautela ma avanti con la rifoma”. “Scontro nel Pd: 130 sì, 20 no, 11 astenuti. Sindacati divisi”. Il commento di Stefano Folli: “Premier più cauto ma la sinistra naufraga”. L’editoriale di Fabrizio Forquet: “Al lavoro non serve una riforma annacquata”. A centro pagina: “Effetto Hong Kong sui mercati. Tensioni sempre più forti per le proteste anti-Cina che avverte: stranieri non interferite”. “Timori per la crescita, Milano -1,3 per cento. Rendimenti in rialzo all’asta Btp”.
La Repubblica: “Articolo 18, vince Renzi”, “Lavoro, voto infuocato nella Direzione Pd. Si spacca anche la minoranza: 130 sì, 20 no e 11 astenuti”, “Duro attacco di D’Alema, Bersani: metodo Boffo per chi dissente. Il premier: uniti in Parlamento”.
A centro pagina, foto delle manifestazioni a Hong Kong: “La Rivoluzione degli ombrelli arruola Obama”, “Hong Kong, la Casa Bianca si schiera con la protesta dei ragazzi. Pechino: nessuna interferenza”.
Nella colonna a destra, a firma di Federico Fubini: “I capitali del mondo al Gran Bazar made in Italy”, “Milano, incontro segreto tra cento supermanager pronti ad investire da noi”.
La Stampa: “Articolo 18, via libera a Renzi”, “Il premier: reintegro per i licenziamenti disciplinari. Sfida ai sindacati su 3 punti”.
A centro pagina, con foto del braccio di un ragazzo che mostra il tatuaggio di Ataturk: “Turchia, niente tatuaggi a scuola”, “Nuova stretta di Erdogan: sì al velo, ma vietati trucco e piercing”.
A centro pagina anche quello che per il quotidiano fa parte dell’”effetto Ucraina”: “La stangata del gas. Da ottobre +5,4%”, “Bolletta più cara anche per la luce”.
Nella colonna a destra, il “dibattito”: “Intellettuali, che fine hanno fatto?”. Ne parlando Gian Enrico Rusconi e Antonio Scurati.
Il Giornale: “Morte del Pd in diretta tv. Il fallimento della ‘ditta’. La direzione diventa un regolamento di conti. Renzi non fa passi indietro sull’articolo 18, D’Alema al veleno: studia di più”. “Bersani fa la vittima: fango su di me. Al voto 130 stanno col premier, 20 contro e 11 si astengono. Scissione sempre più vicina”.
Il Fatto: “Renzi sfascia il Pd e vince. Bersani: ‘Usa il metodo Boffo’”, “Direzione infuocata sull’art. 18: alla fine 130 sì per l’abolizione, 11 astenuti e 20 contrari. D’Alema: ‘Solo spot, Matteo non sa di cosa parla’. La minoranza si spacca. Fassina avverte: ‘Vedremo in aula’. Ma il premier ordina: ‘Adesso si fa come dico io’”.
In taglio basso, un intervento di Bruno Tinti: “’Quando interrogai il presidente Ciampi’”. L’ex pm ricorda come un precedente per l’interrogatorio di un presidente della Repubblica ci sia ed è quello del caso Telekom Serbia, nel 2004. Ciampi fu ascoltato nella tenuta di Catelporziano: “mentre tutti dicono che non s’è mai visto un capo dello Stato chiamato a deporre e polemizzano con i giudici della Trattativa che hanno convocato Napolitano, ecco il racconto dell’ex pm che nel 2004 sentì l’allora presidente. Il quale rispose a tutte le domande senza obiezioni”.
Articolo 18
Sul Corriere si spiega cosa ha detto ieri Renzi sull’articolo 18, come funziona oggi dopo la riforma Monti-Forniero e come funzionerà: ” Tolti i licenziamenti discriminatori, vietati dai principi costituzionali, la riforma del governo Monti ha modificato i licenziamenti disciplinari e quelli economici. Sui primi, conseguenza di un comportamento del dipendente, il giudice può sanzionare l’azienda con un risarcimento fino a 24 mensilità ma anche con il reintegro, se il fatto non sussiste o se il lavoratore poteva essere «punito» dall’azienda in un altro modo. Renzi ha detto ieri di non voler modificare nemmeno questo punto”. Restano i licenziamenti individuali economici, per i quali oggi il giudice può condannare l’azienda a pagare al lavoratore fino a 24 mensilità mentre il reintegro è possibile solo quando i motivi economici sono manifestamente infondati. Secondo la mediazione di Renzi il Jobs act eliminerebbe il reintegro solo in quest’ultima ipotesi”. Ma c’è una “incognita”, perché comunque il lavoratore può fare causa al datore di lavoro e dimostrare “che si è trattato di un licenziamento se non discriminatorio almeno disciplinare e tentare così la strada del reintegro. Proprio per questo la stessa ipotesi era stata presa in considerazione due anni fa dal governo Monti. E poi scartata”.
Il Corriere ricorda che la legge delega prevede anche molte altre cose: dagli ammortizzatori sociali per tutti coloro che rimangono senza lavoro, proporzionale ai contributi versati, all’estensione dei voucher per i lavori occasionali, rimuovedo l’attuale limite di 5 mila euro; dalla possibilità per le imprese di “demansionare”, ovvero di assegnare il lavoratore a mansioni di livello inferiore, a nuove norme sul “controllo a distanza” dei lavoratori, viste le nuove tecnologie.
Su Europa ci si sofferma sul nodo della cassa integrazione in deroga, perché “il cuore del Jobs act riguarda proprio la riforma degli ammortizzatori sociali e, quindi, inevitabilmente, le risorse necessarie per rendere sostenibile l’estensione delle tutele a una platea più ampia di lavoratori. Domenica il premier ha assicurato che sarà stanziato un miliardo e mezzo nella legge di stabilità per l’estensione delle tutele a 12 milioni di lavoratori. Una cifra importante a cui si dovrebbe aggiungere la cancellazione della cassa integrazione in deroga. Se infatti resteranno sia la Cig ordinaria che quella straordinaria la Cig in deroga, destinata ad uscire di scena, sarà rimpiazzata dai fondi di solidarietà bilaterale, istituiti dalla legge Fornero che dovrebbero scattare per le aziende con più di 15 dipendenti in sostituzione degli ammortizzatori in deroga nei settori non coperti dalla normativa sull’integrazione salariale”.
Sul Sole Fabrizio Forquet scrive che “la Carta sociale europea, non proprio un testo sacro della scuola austriaca, indica ‘il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio’. E poco più avanti fissa ‘il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione’. Non si parla dunque di reintegro, non si parla delle regole previste dall’articolo 18. La Carta sociale europea è quindi in violazione dei diritti fondamentali del lavoratori?”. Quanto alla Direzione Pd, “la ‘vittoria’ politica di Renzi, se c’è stata, rischia allora di avere un costo, che è quello di un annacquamento della riforma, a cominciare proprio dall’articolo 18. Fino a domenica scorsa la posizione di Renzi sembrava molto chiara: il reintegro deve restare solo per i casi di provata discriminazione”. Ieri invece “il reintegro è rispuntato per i casi di licenziamento disciplinare, riallargando il perimetro del 18, ma soprattutto ripristinando quell’incertezza nell’intervento del giudice che disincentiva l’impresa dall’usare il contratto a tempo indeterminato”.Forquet chiede al governo e a Renzi di non “smarrirsi nelle mediazioni e nelle contraddizioni. D’Alema, il suo avversario di ieri, a suo tempo lo fece, e dopo 15 anni siamo ancora qui a parlare di articolo 18. Renzi ci faccia il regalo di non doverne discutere tra altri 15”.
La Direzione Pd e i retroscena
Nel “retroscena” de La Repubblica sulla direzione Pd di ieri sul Jobs Act, firmato da Goffredo De Marchis si legge: “Renzi dice che il caso è chiuso, che alla fine ‘Bersani e D’Alema hanno fatto una brutta figura perché è finita 80 per cento a 20 per me’ e quindi ‘la minoranza dovrà adeguarsi in Parlamento’. La battaglia no si trasferisce in aula, secondo il premier, perché gli oppositori della riforma del lavoro non hanno né i mezzi né gli uomini. ‘I gruppi parlamentari cambiano la decisione della direzione? Non scherziamo! Che fanno, costringono Speranza alle dimissioni’?”. (Roberto Speranza è il capogruppo Pd alla Camera dei Deputati, ndr.). Ma ieri, secondo il quotidiano, nella direzione si è respirata “l’aria dello scontro definitivo, quello da cui usciranno solo vincitori e vinti” e il premier è convinto di essere nella prima categoria, perché, ha detto, “si doveva spaccare la maggioranza e invece si è divisa la minoranza”: gli 11 astenuti provenienti dalle fila dei bersaniani sono già un primo successo, a sentire Renzi. Però, ricorda La Repubblica, al senato i numeri sono diversi: e lì domani arriva la riforma del lavoro. Ci sono 7 emendamenti che la “smontano” e puntano a conservare le norme sull’articolo 18 così come sono, seppure dopo un periodo di contratto a tutele crescenti: le firme sotto questi emendamenti sono tra le 30 e le 40, ovvero una cifra in grado di mandare in minoranza l’esecutivo costringendolo a cercare i voti di Forza Italia.
La Stampa ricorda che ieri mattina il presidente del Consiglio, prima della direzione Pd, è salito al Quirinale: “E Napolitano spinge il premier a non inasprire i toni dello scontro”.
Sul nodo del reintegro, scrive La Stampa, la minoranza è pronta a dare battaglia al governo in Senato. E, ancora per quel che riguarda la minoranza, il quotidiano titola: “Bersani e D’Alema all’assalto. Ma le loro truppe vacillano”, “Due padri del partito contro il segretario: la Direzione non li segue”. La minoranza si è infatti divisa in tre tronconi: i pragmatici giovani turchi guidati dal presidente dell’Assemblea del partito Matte Orfini (ex braccio destro di D’Alema) e dal ministro Andrea Orlando sono definitivamente entrati in maggioranza votando il documento di Renzi; una parte dei dalemiani e dei bersaniani si è astenuta, mentre hanno votato no Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, una parte dei dalemiani e naturalmente la componente che fa capo a Pippo Civati.
Il quotidiano intervista Roberto Giachetti, renziano: “Sono stati al governo migliaia di giorni e ancora pontificano”, dice.
Alle pagine seguenti, un articolo con domande e risposte compilato da Roberto Giovannini chiarisce “come sarà modificato il diritto del lavoro”: “Licenziamenti disciplinari, c’è il reintegro”, “Il giudice potrà disporre il rientro del dipendente”.
La Repubblica riferisce anche di quella che definisce la “apertura” del presidente del Consiglio-segretario sull’articolo 18: un “mini-ritocco”: oltre al diritto al reintegro sul posto di lavoro nel caso di un licenziamento definito discriminatorio -mai messo in discussione dal governo- la misura sarà prevista anche per i licenziamenti disciplinari che siano stati considerati senza giustificato motivo. Perché l’obiettivo -sottolinea il quotidiano- resta comunque quello di ridurre il più possibile la discrezionalità del giudice nei procedimenti.
Su La Repubblica, attenzione per il fronte sindacale: “Cgil-Cisl-Uil, mobilitazione in ordine sparso”. Le tre organizzazioni non andranno in piazza insieme contro il Jobs Act e la riforma dell’articolo 18. Il quotidiano scrive che il presidente del Consiglio le convocherà la prossima settimana e presenterà loro “l’agenda Landini”: che significa anticipare in busta paga dei lavoratori il Tfr, preparare una legge sulla rappresentanza sindacale (la Cisl l’ha sempre avversata), discutere di salario minimo e di come valorizzare la contrattazione di secondo livello. Tutti capitoli che il leader della Fiom Maurizio Landini ha sempre sostenuto. Lo stesso Landini, intervistato dal quotidiano, dice però che “la precarietà si riduce estendendo i diritti, non riducendoli: se annullo il reintegro anche con falsi motivi si potrà licenziare”.
Il Fatto: Renzi rottama la direzione, sull’art. 18 finisce 130 a 20”, “Il premier spacca la minoranza e porta a casa il sì al provvedimento dopo una giornata di mediazioni. Si astengono in 11. La palla al Senato”.
Il quotidiano intervista il sondaggista Renato Manheimer, secondo cui il premier “ormai punta al centro” e c’è “il rischio scissione”. Ma Renzi è ancora popolare? “L’entusiasmo è in flessione, secondo tutti gli istituti di sondaggi. I nostri ultimi dati dicono che si fida di lui poco più del 50 per cento degli italiani, che è comunque un dato molto alto. Ma qualche settimana fa eravamo al 70 per cento”. Perché è calato? “Si è diffusa l’impressione che faccia molti annunci ma pochi fatti: però è ancora molto popolare, glielo ripeto”.
“Il bastone dei mercati” è il titolo dell’editoriale che compare in prima sui Il Fatto a firma di Stefano Feltri che, secondo cui Matteo Renzo si è “impelagato” nella campagna sull’articolo 18 poiché esso è “il simbolo di un’Italia che non cambia mai, diritti fondamentali o incrostazioni post-sessantottine, a seconda del punto di vista”. Per due motivi: finora il suo governo non ha fatto alcuna riforma e all’estero e sui mercati aspettano di vedere se Renzi “è capace di ottenere risultati (regalare soldi prima delle elezioni non vale)”; e poi perché “il governo può sperare di ottenere concessioni da Bruxelles sul deficit solo se le deroghe servono a finanziare riforme strutturali. E’ lo schema suggerito dal presidente Bce Mario Draghi: riformate il lavoro e Bruxelles vi aiuterà a pagare i costi”.
Il Corriere intervista il senatore Pd Alfredo D’Attorre, che dice che Renzi “ha fatto un passo avanti, sia nei toni che in alcuni punti”, “credo si sia reso conto che l’abolizione totale dell’articolo 18 non reggeva in termini di consenso, anche rispetto all’elettorato Pd”.
Sullo stesso quotidiano il “retroscena” di Maria Teresa Meli riferisce le parole che il premier avrebbe pronunciato alla fine della Direzione: “Li ho spianati”, riferendosi a D’Alema e Bersani. Ancheperché “‘ogni volta che Bersani e D’Alema si mettono insieme mi fanno un grande favore e un bello spot'”. Renzi ha fatto “una piccola concessione all’ala più moderata della minoranza (il licenziamento disciplinare da definire) che ha contribuito a dividere il fronte dei suoi oppositori”. L’altra mossa di Renzi è stata quella di invitare i sindacati ad un incontro a Palazzo Chigi, che “spingerà ancora di più Susanna Camusso sulla strada dell’isolamento, mettendola in difficoltà, e tenterà nello stesso tempo di recuperare il rapporto con il leader della Fiom Maurizio Landini”.
Sul Sole 24 Ore Stefano Folli scrive che la minoranza Pd, “divisa e confusa al suo interno”, si è spaccata tra astenuti e contrari, ed ha “permesso al presidente del Consiglio di cogliere una facile vittoria sulla riforma del lavoro”, anche perché Renzi ha gettato acqua sul fuoco aprendo al “reintegro del lavoratore licenziato per ragioni disciplinari e su basi discriminatorie: formula abbastanza ampia da abbracciare molte delle obiezioni avanzate dai ‘conservatori'”. Secondo Folli ieri “Renzi ha vinto, sì, una battaglia, ma è soprattutto la sinistra interna ad aver perso la partita per eccesso di involuzione. E recuperare terreno non sarà facile”.
Secondo Laura Cesaretti, su Il Giornale, ieri Renzi ha offerto “(ome gli ha consigliato di fare anche Napolitano) una sorta di contentino, diretto a quella parte della minoranza – da Orfini a Speranza, da Martina ai bersaniani e dalemiani della segreteria – che gliela chiedeva disperatamente per poter sostenere la linea del segretario senza rompere clamorosamente con la ‘vecchia guardia’”. Quanto alla convocazione dei sindacati, dice di essere pronto a “riaprire la sala verde di Palazzo Chigi (quella dei tavoli della concertazione, ndr )”, “ma detta un ordine del giorno bello pesante per i capi confederali: legge sulla rappresentanza, contrattazione aziendale, salario minimo”.
Corte Costituzionale
Oggi – come ricorda Europa – è previsto in Parlamento un nuovo voto per eleggere due giudici costituzionali. I candidati sono ancora Violante e Bruno, “ma stamattina potrebbe arrivare un altro nome e comunque, per le 16, è convocata una riunione dei gruppi di Forza Italia”. Ieri ha parlato il procuratore di Isernia Albano, rivendicando ‘il massimo riserbo’ sulle notizie per cui Donato Bruno sarebbe indagato. Ha anche detto che “‘le notizie vengono da qualcuno che ha interesse a farle uscire in questo momento'”, e che “‘quando sarà, dopo l’elezione dei membri della Consulta e dopo le esternazioni del senatore Bruno, potremo, eventualmente dire qualcosa’”. Insomma: “ributta quindi la palla a Donato Bruno, che ha negato di aver ricevuto alcuna informazione di garanzia ma avrebbe ben potuto chiedere conferma o meno di essere sotto indagine”. Bruno a sua volta ha detto che farebbe un passo indietro se fosse rinviato a giudizio, “che è cosa diversa da essere indagato, e che potrebbe intervenire – ove si andasse avanti con la sua votazione – quando già siederebbe alla Consulta (con conseguente imbarazzo per le istituzioni e relativa immunità per l’interessato)”. Per questo si parla di altri nomi di centrodestra: Maurizio Paniz, Francesco Paolo Sisto, Giovanni Guzzetta.
Sergio Rizzo sul Corriere della Sera intervista Giuseppe Tesauro, Presidente della Corte Costituzionale. Si parla delle votazioni in Parlamento per due membri della Consulta, in corso da mesi: “Vogliono riflettere molto? Benissimo. Ma si poteva anche fare con discrezione. Lo spettacolo che stanno dando in Parlamento si riverbera in modo molto negativo sull’immagine della Corte, come se fosse diventata terreno per scorribande politiche. Con il rischio di invischiare anche il Presidente della Repubblica, che dovrà a sua volta nominare due di noi”. La Corte “è diventata oggetto di una retorica anti-istituzionale”, “vittima di cattiva, ingiusta considerazione”. Non ha aiutato la sentenza che ha decretato l’incostituzionalità dei tagli di stipendio per i magistrati: “Lo so. Ma lì c’era in ballo il principio della eguaglianza tributaria”, la norma andava fatta per tutti e “non solo per i magistrati”. Tesauro risponde anche domanda sul suo stipendio: “Ci siamo adeguati alla logica dei tetti. Guadagno 12mila e dispari netti al mese”, “certo siamo dei privilegiati”, ma “ci sono decisioni per cui non dormiamo la notte”. E “il tasso di civiltà giuridico è cresciuto grazie alla Corte e alle sentenze sui diritti fondamentali”, come quelle sulla fecondazione assistita.
Internazionale
“Con gli ombrelli contro il Golia cinese”, è il titolo della corrispondenza da Hong Kong di Ilaria Maria Sala che compare oggi su La Stampa per raccontare come gli ombrelli siano diventati “il simbolo della protesta per la democrazia”. Servivano a proteggersi dal sole cocente di Hong Kong, poi dagli spray urticanti al peperoncino e dai gas lacrimogeni. Ieri sono scesi in piazza anche i cardinali cattolici e “Pechino si trova ad affrontare una delle sfide politiche più impegnative da piazza Tiananmen, 25 anni fa”. E il quotidiano racconta anche come sia “surreale” la copertura mediatica riservata alle manifestazioni di Hong Kong in Cina: in tv domenica scorsa un’annunciatrice ha illustrato le immagini della folla in cammino come la celebrazione della giornata del primo ottobre, festa nazionale. La scritta in sovraimpressione recitava: “Hong Kong sostiene il programma di riforme elettorali annunciato dal governo”. Una direttiva governativa inviata ai provider di Internet intima poi di eliminare dalla rete tutto quel che riguarda Hong Kong.
Il quotidiano intervista l’analista Ian Bremmer, che dice: “E’ come tra Russia e Ucraina. Ma le sanzioni sarebbero inutili”, “l’ex colonia non sarà mai libera”, il presidente Xi non accetterà alcun compromesso e finora “ha consentito alle forze locali di gestire la crisi”, ma se la situazione non si calmerà da sola, la Cina interverrà “e allora esiste il rischio concreto di uno spargimento di sangue”.
La Repubblica: “Pechino ritira l’esercito ma avverte l’Occidente: ‘Nessuna interferenza’”, “Dopo le proteste la Cina cambia strategia. Giovani in piazza: ‘La rivolta continua’”, “Gli agenti anti-sommossa non si vedono più. Ma la ‘rivoluzione degli ombrelli’ contro la riforma elettorale-truffa non si placa. La Casa Bianca si schiera con gli insorti: ‘Vogliono solo la democrazia’. E adesso il regime teme una nuova Tienanmen”. Il quotidiano interpella Richard McGregor che, sull’ipotesi che la Cina intervenga risponde: “Stanno chiaramente dibattendo sul tema, indecisi. A inizio 2016 ci saranno le elezioni a Taiwan, dove sono già per metà favorevoli all’indipendenza dalla Cina. In più, fra 40 giorni a Pechino c’è l’incontro dei 21 leader dell’Asia-Pacific Economic Cooperation. I cinesi lo stanno preparando con gesti di pacificazione anche verso il Giappone. Non hanno bisogno di tensioni”.
Il Messaggero intervista un imprenditore italiano che da 20 anni vive ad Hong Kong. Si chiama Michele Bina, e dice che “sotto i britannici la situazione della democrazia non era migliore”. Il malcontento è “soprattutto economico”, e “buona parte della popolazione non condivide la protesta, i cinesi, come i giapponesi o i coreani, hanno più a cuore il potere economico del potere politico”.
Sul Corriere: “La Cina avverte gli Usa: non interferite”. Si ricorda che le decine di migliaia di manifestanti chiedono le dimissioni del Chief Executive Cy Leung, nominato da Pechino, che a sua volta accusa i “cospiratori angloamericani” e una “banda di individui infatuati dalla democrazia occidetale” che li seguono.
Su La Stampa Marta Ottaviani parla di una “nuova svolta in senso islamista” nella Turchia del presidente Erdogan, dopo il blocco dei social network: il Paese dice basta a tatuaggi, piercing e capelli tinti nelle scuole. Sabato sulla gazzetta ufficiale è comparsa una normativa che consente l’utilizzo del “turban” (il velo islamico della tradizione turca), nella scuole a partire dai 10 anni, ma proibisce cappelli e berretti, con la motivazione che limitano la riconoscibilità di una persona. Tolleranza zero estesa anche a tatuaggi, piercing e persino capelli tinti. Il provvedimento porta la firma del nuovo governo guidato dall’ex ministro degli Esteri Davutoglu, ma secondo molti è ispirato dal presidente Erdogan, che da qualche anno promette di crescere generazioni di musulmani devoti e nel luglio scorso aveva criticato un calciatore proprio per i suoi tatuaggi.
Se ne occupa Marco Ansaldo su La Repubblica: “Vietati i tatuaggi e niente trucco, la nuova stretta di Erdogan”, “Nelle scuole sì al velo, no a barba e baffi: cambiano le regole per gli studenti. E il presidente tuona anche contro l’iPhone”. “Più che una campagna di islamizzazione” -scrive Ansaldo- quella di Erdogan “pare un’offensiva moralizzatrice, tesa a rimodellare la società”, con queste nuove norme che prevedono divieti di tintura di capelli, o di portare barba e baffi oltre che tatuaggi. Contemporaneamente si mostra “insolitamente liberale” con le studentesse che vogliono indossare il “turba”. Noto per la sua ostilità ai social network e strumenti per la comunicazione online, Erdogan se l’è presa anche con l’ultimo iPhone della Apple: “Quell’azienda -ha detto in un discorso in tv- mette in commercio un nuovo modello più o meno ogni anno. Ma non è diverso dalla versione dello scorso anno. Non si vende un telefono, ma il brand di quel telefono”.
In Spagna il governo Rajoy ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro il referendum sull’indipendenza indetto dal governo locale della Catalogna, previsto per il prossimo 9 novembre. “Madrid blocca il referendum”, scrive Il Sole 24 Ore. L’Alta Corte ha già ammesso i due ricorsi (uno sulla legge che indice il referendum, uno sul decreto di convocazione del voto) e questo vuol dire che per ora il voto è sospeso, fino alla pronuncia della Corte.
Sul Corriere: “La Spagna blocca il referendum catalano”.