Il Corriere della Sera: “Napolitano spinge per l’intesa. Elogio del Patto Dc-Pci del 1976, no ai ‘falsi moralizzatori’. M5S: occupiamo il Parlamento”. “Berlusconi: incontrerò Borsani, serve un governo”. In alto, la morte di Margaret Thatcher, “mito del liberismo mondiale”, “la figlia del droghiere che segnò un’epoca”. Anche l’editoriale di Sergio Romano è dedicato alla Thatcher: “La conservatrice rivoluzionaria”.
La Repubblica: “Napolitano invoca le larghe intese. Il presidente ricorda il ’76. ‘Ci volle coraggio’. E poi accusa ‘i fanatici della moralizzazione’”. Nel sottotitolo: “Berlusconi: vedrò Bersani. I grillini: occupiamo il Parlamento”. E poi: “Crocetta affida a Ingroia la riscossione delle tasse”. A centro pagina: “La lady di ferro che cambiò l’Inghilterra”.
La Stampa: “Napolitano, elogio delle larghe intese. E critiche ai grillini”. “Berlusconi annuncia: ‘Incontrerò Bersani’. Il Colle contro i ‘moralizzatori distruttivi’”. Di spalla: “Londra, addio alla Lady di ferro”.
L’Unità: “’Ritrovare il coraggio del 76’. Napolitano: allora scelta una inedita larga intesa. Il ‘fanatismo moralizzatore è distruttivo’”. A fondo pagina un richiamo per il processo per l’omicidio di Stefano Cucchi: “Caso Cucchi: ‘Condannate agenti, medici e infermieri’. La requisitoria: la morte di Stefano fu provocata dalle percosse subite e dalle cure negate”.
Il Foglio: “Così Bersani scopre che il governo nasce solo da un patto con il Caimano. La drammatica legittimazione del Cav, la direzione indicata da Napolitano, le trattative in vista dell’incontro”.
Il Fatto quotidiano: “’Berlusconi ineleggibile’. M5S: occupiamo le Camere”. “Oggi i Cinquestelle iniziano la battaglia per il via libera alle Commissioni. A partire dalla Giunta per le elezioni: ‘Resteremo ai nostri posti fino a mezzanotte e un minuto e giovedì le autoconvochiamo’. Il Parlamento è insediato da un mese, ma ha fatto solo sette sedute”.
Libero: “I poveracci del Pd”. “Bersani e suoi vanno in piazza ‘contro la povertà’. E perché non contro l amorte? Perdono tempo invece di fare l’unica cosa di cui c’è bisogno: un governo. Intanto i veri poveri si uccidono”. “I grillini occupano il Parlamento: vogliono nozze gay e Silvio a casa. Intanto i veri poveri si uccidono”.
Il Giornale: “Premio a Equitalia se ci spreme di più”. “Gli agenti del fisco hanno dei bonus in base alle cartelle che emettono. Follia dei sindacati: ‘Dovrebbero essere più alti’. E in Sicilia Ingroia finisce a fare l’esattore per Crocetta”. A centro pagina: “La Lady che avrebbe sconfitto la crisi”.
Il Sole 24 Ore: “Le imprese non ce la fanno più”. “Mobilitazione di tutte le aziende lombarde: siamo al codice rosso, così moriamo. Sale l’allarme del mondo della produzione. ‘Tra fisco, credito e consumi in calo aumentano le chiusure e la politica non decide”. Di spalla: “Addio alla Thatcher, la ‘Lady di ferro’ che salvò l’Inghilterra”.
Napolitano, Bersani, Berlusconi
Ieri il Presidente della Repubblica ha preso parte alla commemorazione di Gerardo Chiaromonte, dirigente comunista e amico, scomparso venti anni fa.
Il testo integrale del suo intervento viene pubblicato da L’Unità, che ne evidenzia nei titoli un passaggio: “’Il fanatismo moralizzatore distrugge la politica’”.
Il Corriere scrive che è un indiretto, ma trasparente paragone tra la situazione politica del 1976 e quella di oggi, il discorso tenuto ieri dal Capo dello Stato. Anche allora – ha ricordato Napolitano – l’Italia viveva l’incubo di una dura crisi economica, tra minacce e prove che si chiamavano inflazione e situazione fuori controllo”. In più c’era “l’aggressione terroristica allo Stato democratico come degenerazione ultima dell’estremismo demagogico”. Napolitano ha quindi citato un esempio di unione delle forze per superare l’emergenza: a quell’epoca seppe farlo Enrico Berlinguer, per il Pci, impegnandosi “nella scelta e nella gestione di una collaborazione di governo con la Democrazia cristiana, dopo decenni di netta opposizione.. E ci volle coraggio, per quella scelta di inedita, larga intesa e solidarietà”. Napolitano ha ricordato che con Chiaromonte “l’unico momento in cui non ci si trovò in piena sintonia fu quello della concitata chiusura, da parte del Pci, dell’esperienza della “solidarietà nazionale”: decisione che fu “foriera di un arroccamento” più tardi “giudicato fuorviante” da entrambi. La lettura che ne dà il quirinalista del Corriere Breda: “Un messaggio che ha il sapore di un estremo pressing sul Pd e sul suo segretario Bersani, vincitore/perdente al voto del 24 e 25 febbraio, arroccato sull’azzardatissima strategia di costruire un esecutivo di minoranza, basato su impegni molto aleatori (incassati dopo un assai incerto scouting nel Movimento 5 Stelle) e su mezze promesse (della Lega) di fargli superare con un gioco di presenze-assenze la prova della fiducia in Parlamento. L’editoriale che compare sulla prima pagina di Repubblica, a firma di Massimo Giannini, è intitolato “il compromesso antistorico”. Dove si legge: “E’ vero, nella teoria, un accordo programmatico pieno tra sinistra e destra sarebbe il miglior antidoto per curare i mali del Paese, spurgarne i veleni politici e lenirne i disagi sociali. Sarebbe la formula più proficua per rimettere in moto l’economia e riaprire il cantiere delle riforme costituzionali. Sarebbe l’argine più efficace per fermare l’onda a 5 Stelle, che si nutre degli immobilismi parlamentari e dei bizantinismi parlamentari”. Ma, scrive più avanti Giannini, nella pratica “l’esperiemtno che riuscì nel 1976, quando Dc e Pci si accordarono per far nascere il terzo governo Andreotti, non è in alcun modo ripetibile”. Napolitano “sa meglio di chiunque altro”, secondo Giannini, che “quel monocolore democristiano di 37 anni fa, che si resse sulla ‘non sfiducia’ del Pci (oltre che del Psi, del Psdi, del Pli e del Pri) nacque grazie alla riflessione e alla elaborazione politica di due leader della statura di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer”. Ma Bersani non è Berlinguer, e “quello che conta di più, in questo parallelismo storico improprio e improponibile, Berlusconi non è Moro”. Per Giannini tuttavia “il dialogo è essenziale, purché serva ad individuare un metodo per fare ripartire l’orologio dei poteri dello Stato, dall’Esecutivo al legislativo. Prima ancora di eleggere un Presidente della Repubblica, dotato di tutte le prerogative e gli strumenti che la Costituzione gli assegna Se serve a questo, e solo a questo, e non a negoziare patti scellerati di altra natura, l’incontro tra Bersani e Berlusconi non è solo opportuno ma doveroso”.
Una cronaca della giornata di ieri sul convegno in ricordo ci Chiaromonte, ancora su La Repubblica, evidenzia anche le dichiarazioni di Napolitano che vengono lette come una critica ai 5 Stelle. Ricordando la testimonianza di “moralità di uomo politico” di Chiaromonte, Napolitano ha evidenziato la contrapposizione alla situazione attuale: “Adesso, peraltro, non è di questo che parlano certe campagne che si vorrebbero moralizzatrici e in realtà si rivelano, nel loro fanatismo, negatrici e distruttive della politica”. Di fianco, un retroscena racconta “l’ennesima incomprensione tra il Pd e Napolitano, con questo titolo: “Bersani gelato dall’uscita del Colle, ‘io il governo con il Pdl non lo farò’. Ma per metà Pd è la spinta verso Silvio. D’Alema da Renzi”. Quest’ultimo riferimento è al fatto che giovedì D’Alema sarà a Firenze, per un convegno e, con ogni probabilità, incontrerà il sindaco Renzi.
Libero scrive che ieri Berlusconi ha confermato che l’incontro con Bersani si farà, “non è stato ancora fissato” un appuntamento, ma dovrebbe essere giovedì o venerdì. “La posizione del Pdl la conoscono tutti, bisogna dare subito un governo forte e stabile al Paese per prendere i provvedimenti indispensabili e urgenti per l’economia”. Su Il Giornale si dà conto delle parole di Berlusconi, ieri al Tg4: “Finalmente Bersani si è aperto, si è reso disponibile a un incontro”.
Un altro articolo sul quotidiano diretto da Sallusti fa il punto sul dibattito interno al Pd, dopo la lettera di Bersani di ieri e l’intervento di Veltroni, e spiega quale sarebbe la linea del segretario: “Grandi aperture a Berlusconi su presidente della Repubblica ‘condiviso’ e riforme, ma in cambio il Cavaliere deve dare una mano per mandare Bersani a Palazzo Chigi, ma senza farsi vedere. E non a caso ieri, dopo le parole di Napolitano che (ricordando Gerardo Chiaromonte) ha sottolineato il ‘coraggio di quella scelta inedita di larga intesa’ rievocando il 76, i bersaniani sottolineavano entusiasti il riferimento. Rivedendoselo come un via libera al loro progetto di astensioni concordate con Pdl, Lega e Grande Sud per dar vita al gabinetto Bersani. Peccato che nel frattempo, preso dall’entusiasmo pro-Bersani il neo parlamentare ex Rai Corradino Mineo si fosse scagliato contro Napolitano, reo di essersi assunto ‘una responsabilità gravissima’ a non affidare un incarico pieno al segretario Pd, ostacolando la nascita (non si sa con che voti) dell’ormai celebre ‘governo dei cambiamento’. Contro Mineo però si sono scagliati democratici di ogni sponda, da Nicola Latorre ai renziani Anzaldi e Marcucci, dal veltroniano Tonini al lettiano Meloni: ‘Mineo si ricordi che rappresenta il Pd, e che Napolitano sta gestendo la crisi nel modo migliore possibile’”.
La Stampa riassume: “Il Colle evoca la ‘larga intesa’ tra Pci e Dc del 1976. Il Pdl interpreta il messaggio come un assist”.
Thatcher
L’inserto R2 de La Repubblica è dedicato alla morte di Margaret Thatcher, “the Iron Lady”. Scrive Enrico Franceschini che le sue battute sono diventate leggendarie: “Non esiste una cosa chiamata società”, “i minatori sono il nemico che abbiamo in casa nostra”, “io non ho la retromarcia”. Il corrispondente ricorda che il nomignolo “lady di ferro” con cui verrà per sempre ricordata, fu coniato da Krasnaja Svezda, quotidiano delle forze armate sovietiche che voleva insultarla per l’atteggiamento bellicoso manifestato inizialmente nei confronti dell’Urss. Lei lo prese come un complimento. E’ stata la prima donna a guidare una grande potenza. La sua “fede nel liberismo economico, nella deregulation finanziaria, nelle privatizzazioni, accoppiate a una politica estera intransigente e baldanzosa, fotografano un’era, gli anni 80, che portò alla caduta del muro di Berlino, alla fine del comunismo, al trionfo del capitalismo senza freni”.
John Lloyd sullo stesso quotidiano: “Liberismo e pugno duro, così umiliò il sindacato”. Ricorda Lloyd che il partito laburista non era riuscito nei due governi tra il 1974 e il 1979 a raggiungere una solida intesa con il sindacato sulla riduzione dei salari e su una maggiore produttività. La Thatcher sapeva che la Gran Bretagna era considerata “Il malato d’Europa”, che gli scioperi stavano nuocendo alle esportazioni, che la sua produttività era la più bassa d’Europa, che il suo prestigio si stava affievolendo”.
Verso la fine dell’ultimo governo laburista il primo ministro Callaghan aveva comunicato al suo partito che la politica keynesiana non poteva più funzionare, che non era possibile uscire da una recessione continuando a spendere. Dopo gli scioperi del 1978-1978 i laburisti persero di stretto margine, e al governo andò la Thatcher. Spiegò che i governi, tanto quanto le famiglie, non dovevano spendere più di quanto guadagnavano. E per questo fu derisa, ma a tante persone di basso reddito la sua teoria apparve sensata. Ritenne i sindacati responsabili di buona parte della decadenza britannica, in quanto le loro richieste di aumenti di salario favorivano l’inflazione. Ma un governo laburista continuava a compiacerli perché – diceva – aveva bisogno dei loro voti e dei loro soldi. Tagliò la spesa pubblica, tentàò di imbrigliare i sindacati con nuove leggi. La disoccupazione si impennò, il suo indice di popolarità crollo. Ma nell’aprile 1982 la giunta militare che governava l’Argentina decise di invadere le isole Falkland, abitate da circa 3000 cittadini britannici. La Thatcher, appoggiata da tutti i partiti del Parlamento, riconquistò le isole in un tempo relativamente breve. E dal punto di vista politico fu una vera e propria manna. Il suo indice di popolarità balzò alle stelle. Le nuove forze le consentirono di combattere la componente più agguerrita del movimento laburista, il sindacato dei minatori, forte a quei tempi di 200 mila affiliati: uno sciopero guidato da Arthur Scargill durò un anno intero, finché la maggior parte dei minatori tornò al lavoro e il sindacato abbandonò le sue richieste. Da allora in poi i sindacati no furono più una forza in grado di impensierire il governo. Una influenza ancora maggiore la ebbe sul partito laburista: Tony Blair adottò nella Costituzione una clausola di impegno nei confronti del libero mercato, del pareggio di bilancio e garantì un appoggio duraturo alle leggi sul lavoro della Thatcher.
Sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore Romano Prodi: “Margaret Thatcher ha cambiato più di tutti il suo Paese e ha cambiato l’idea stessa dello Stato, che fino ad allora era prevalente nel mondo occidentale. Diciamolo come va detto: ha ridotto lo Stato a niente. Come nessun altro ha inteso modificare alla radice il patto fiscale tra cittadini e ha dato forma politica e dignità istituzionale alla ribellione anti-tasse, trasformandola in una vera e propria dottrina economica, diventata addirittura senso comune. E’ partita dalla sua testa la nuova corrente di pensiero economico e sociale che solo in un secondo momento diventerà anche la dottrina applicata da Ronald Reagan e definita come reaganomics”. La dottrina Thatcher, per Prodi, aumentò le disparità tra ricchi e poveri. In una prima fase interpretò bene il pensiero comune anti-burocrazia, ma la matrice innovativa delle sue idee si è poi scontrata con fasi applicative a dir poco drastiche, che hanno creato le condizioni della più drammatica crisi finaziaria – e ormai anche economica – del dopoguerra. “Anche se oggi è legittimo domandarsi se quesi disastrosi risultati siano stati prodotti da lei e dalle sue idee o dai suoi interpreti un po’ fessi”.
Sullo stesso quotidiano si ricordano le politiche scelte dalla Thatcher e le sue conseguenze: privatizzazioni e azionariato popolare, ma disuguaglianze sociali in forte crescita. La Thatcher visse e morì, politicamente, in un perenne stato di guerra, anche con un popolo che la elesse per tre volte. Fece di un popolo ad alto tasso di sindacalizzazione un mondo di azionisti, proprietari di case e della share older economy emersa dal primo piano di privatizzazioni mai avviato in Occidente. La Thatcher, ricorda David Willets, allora giovane ideologo del partito, aveva una idea dello Stato che si riassume così: “individui indipendenti la cui libertà è protetta dalle istituzioni”.
E un’altra analisi ripercorre le origini del credo liberista: “il thatcherismo, quando l’individuo prevale sulla società”. “Non esiste una cosa chiamata società”.
L’economista Luigi Zingales, intervistato da La Stampa, risponde alla domanda sul perché in Italia un centrodestra di stampo thatcheriano non ci sia mai stato: “La sostanza è che da noi il liberismo è sempre stato un pensiero caratteristico delle élites, impersonato per esempio da Einaudi. In Italia, proprio per prendere l’esemopio della Thatcher, la figlia del droghiere non crederebbe mai nel mercato. Il piccolo imprenditore italiano non ha una visione positiva del libero mercato, né dal punto di vista personale, né dal punto di vista morale”, “perché il nostro è un capitalismo sostanzialmente corrotto”, e “del resto non bisogna dimenticare che la Thatcher è stata rigidissima anche con i capitalisti”. Ricorda infatti Zingales che negli anni del grande crollo delle Borse nel 1987 una banca di investimento che aveva garantito la sottoscrizione di una quota di capitale della BP da collocare sul mercato, fu colta di sorpresa e si trovò in mano un pacco di azioni che poche ore prima aveva pagato assai più care: “la banca provò a invocare cause di forza maggiore per annullare l’operazione, ma la Thatcher fu inflessibile, e la obbligò a rispettare il contratto”.
Sullo stesso quotidiano, l’ex ministro Antonio Martino, dice: “Molte delle idee che vent’anni fa sembravano bizzare oggi sono accettate da molti”. A Romano Prodi, secondo cui la rivoluzione liberista della Thatcher ha aiutato e forse provocato la crisi finanziaria iniziata nel 2007, risponde: “Nessuno tra coloro che sostiene questa tesi è mai stato in grado di fare un solo esempio del perché. La verità è che il trentennio iniziato nel 1980 con lei e Reagan è stato il più fecondo nella storia dell’umanità., Prima di allora il mondo era privo di dittature, non esistevano né internet né Skype o i cellulari”. E ancora, sullo stesso quotidiano, Giulietto Chiesa ricostruisce i rapporti con il Cremlino, attraverso le parole di Gorbaciov, che dice: “Era un osso duro, pensava di cambiare il mondo, era convinta della superiorità del sistema in cui viveva, ma anche io lo ero”.
Sul Corriere della Sera, la ricorda Danilo Taino: “Dallo Stato ai privati, la ricetta semplice che aprì l’era globale. Scelse la rottura, e piegò i sindacati”. E di fianco, Antonio Polito focalizza l’atenzione su “l’attacco all’egualitarismo”: “rese popolare la destra e costrinse la sinistra fuori dagli steccati. Sorprese persino i colleghi di partito”, “fece appello all’individualismo come motore di crescita e della società, accanendosi con il collettivismo degli anni 70”.