Il Corriere della Sera: “Riforme, Napolitano spinge. Vertice con Letta e Alfano. Epifani contro i partiti personali: sono antidemocratici. Un disegno di legge costituzionale entro pochi giorni”. In alto: “Eternit, condanna più dura per il magnate svizzero. Risarcimenti a rischio”. A centro pagina: “Istanbul non cede a Erdogan”.
La Repubblica: “Eternit, una condanna storica”, “pena più dura per il disastro ambientale. Maxi risarcimento da 92 milioni”. “In appello 18 anni al magnate svizzero. Guariniello: una decisione che farà scuola. Le vittime: ma sarà difficile ottenere i pagamenti”. A centro pagina: “Bossi: Maroni tradisce, guido io la Lega”. Si tratta di una intervista a Bossi firmata da Gad Lerner.
La Stampa: “Eternit, condanna storica. Morte di amianto: 18 anni all’imprenditore svizzero e 30 milioni alla città di Casale. La Corte di Appello di Torino infligge due anni in più a Schmideheiny. ‘Un disastro doloso che continua ancora’”. Il quotidiano offre una intervista al pm Guariniello. In alto le riforme e il “pressing di Napolitano sul governo”.
L’Unità: “Quando Napolitano disse no. Alla Camera nel 2008 indicò la strada del governo parlamentare e bocciò il modello francese”. Il suo discorso al Parlamento viene riprodotto dal quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Il Giornale dedica l’apertura al processo Ruby: “Il processo è truccato: ecco le prove. Ghedini: volevano solo indagare sul Cav. Tanti giudizi morali ma non fatti. Nessuno scavava sui reati di altri che man mano emergevano”.
Il Fatto quotidiano: “Imu, spiccioli dalla Chiesa. Dopo tante promesse, il gettito per lo Stato sarà inferiore perfino ai 100 milioni previsti. Le regole restano misteriose, i controlli inesistenti, i moduli per giustificare le esenzioni del 2012 non sono mai arrivati. E a Roma negli alberghi degli enti ecclesiastici non sono affatto preccupati: ‘Quanto dobbiamo versare? E chi lo sa…”.
Eternit
Ieri la Corte di Appello di Torino ha condannato a 18 anni di carcere il magnate svizzero Schmidheiny e La Stampa nota che una pena simile non era mai stata inflitta in Italia ad un imprenditore per il solo reato di disastro doloso. In primo grado era stato condannato a 16 anni. E’ stato ritenuto prescritto il reato di omissione dolosa di norme anti-infortunistiche. Nel giugno 1976 il magnate riunì in Germania una trentina di manager del gruppo e – secondo quanto racconta La Stampa – li sbalordì con il quadro drammatico che fece dei danni provocati alla salute dall’amianto. Ma impartì loro istruzioni per minimizzare i rischi con i lavoratori e le popolazioni: l’amianto non poteva essere sostituito efficacemente con altri materiali, e si doveva quindi continuare ad utilizzarlo. Così è stato fino alla chiusura delle fabbriche, senza che neppure l’amianto blu, quello più micidiale per la salute, venisse accantonato. Scrive La Repubblica che la corte ha accollato al manager anche la responsabilità delle morti di Rubiera e Bagnoli, esclusi dal primo processo. E’ stato condannato a pagare un risarcimento da quasi 100 milioni di euro: 12 milioni ai sindacati, circa 30 al comune di Casale, 20 alla Regione Piemonte, 250 mila euro ad altri comuni del Monferrato, 30 mila euro alle 932 parti lese. Questa provisionale viene assegnata non solo ai familiari delle vittime, ma anche a circa 400 persone di Cavagnolo per aver vissuto in un luogo avvelenato. Scrive La Repubblica: “E’ il riconoscimento del ‘danno da paura’ a chi è bastato un colpo di tosse per temere di aver contratto l’asbestosi”. Sono soldi che dovrà pagare soltanto il magnate svizzero, perché il suo socio, il barone belga De Marchienne, è deceduto due settimane fa.
Guariniello, intervistato da La Stampa, definisce “inaudita” la pena comminata: “Merito di questo processo è di averla resa ragionevole”. Guariniello ricorda che è consuetudine che nelle corti di appello si riducano le pene, ma “qui è stata aumentata per l’elevata capacità di delinquere di Schmidheiny, la sua consapevolezza della pericolosità dell’amianto, per la stessa strategia di disinformazione messa in atto con le fabbriche aperte e proseguita dopo”. A cosa allude? “Alle attività di depistaggio e spionaggio volute da Schmidheiny anche nei miei confronti”, “si informava sui miei processi perché aveva capito prima di me di essere colpevole. Io avevo indagato e processato gli amministratori italiani dell’Eternit, e non avevo capito che dietro di loro c’erano i vertici della multinazionale, e che il vero capo era lui”. Guariniello si arrabbia pensando “a quante tragedie sul lavoro, con o senza l’amianto di mezzo, sono state dimenticate dalla giustizia. Perché a Torino e in altre città si fanno i processi sulla salute di lavoratori e cittadini mentre altrove non si sa nemmeno cosa sono, questi processi. Non c’è la cultura, non c’è la specializzazione dei magistrati”, dice, rilanciando la proposta di una Procura nazionale sui disastri sul lavoro. Racconta poi di aver ricevuto le lettere dei familiari delle vittime di uno stabilimento campano tra Salerno ed Avellino dove si smontavano vagoni ferroviari pieni di amianto: cominciano ad esservi numerosi decessi tra i lavoratori di quello stabilimento, e nessuno apre una indagine.
L’Unità raccoglie le dichiarazioni di uno degli avvocati dei parenti delle vittime: “L’unico elemento di accertamento del danno riconosciuto dalla Corte – spiega l’avvocato Bonetto – è stata l’esposizione all’amianto. Tutti gli altri danni – come la morte o la malattia – non sono stati riconosciuti, rinviando le singole posizioni al giudice civile”.
Su La Repubblica Luciano Gallino ricorda che la elevata nocività dell’amianto fu scoperta da una ispettrice del lavoro inglese nel 1898. Nei primi anni del900 medici francesi misero in relazione la morte di decine di operaie tessili con la polvere di amianto diffusa nei loro reparti, e tra gli anni 20 e 30 le morti imputate dai medici alla lavorazione dell’amianto divennero migliaia. Negli anni 60 si scoprì che muoiono anche i parenti di coloro che lavorano a prodotti amiantiferi, nonché gli abitanti di quartieri situati nelle vicinanze. Verso la fine degli anni 90 uno studio della agenzia europea dell’ambiente stimò che entro il 2035 i casi di tumore e mesotelioma si sarebbero aggirati sui 3-400 mila. L’uso dell’amianto nelle lavorazioni industriali è stato vietato dalla Ue nel 1999. Perché la tragedia non è stata fermata prima? Un fattore chiave è stato il tempo, poiché diversamente da altre sostanze nocive – la diossina per esempio – l’amianto non uccide quasi subito: ci si ammala e si muore anche decine di anni dopo l’esposizione. “Tale circostanza – scrive Gallino – è stata sfruttata dalle direzioni delle corporation attive nel settore, da falange illegali da esse impiegate, come pure da centinaia di medici di parere opposto a quelle di loro colleghi – per sostenere nel corso di quasi un secolo che tra l’esposizione all’amianto e la patologia che colpiva chi lo aveva toccato, maneggiato o inspirato, non era possibile stabilire con chiarezza un nesso causale. I tribunali americani ed europei hanno molto spesso dato loro ragione, quello di Torino no. La sentenza torinese ha spezzato tale muro di negazionismo”. E per Gallino la sentenza impone ai dirigenti delle imprese di prendere sul serio il cosiddetto “principio di precauzione”. E questo vale per tutti, “a partire dall’Ilva di Taranto”.
Presidenzialismo
Si riunisce nel pomeriggio la Direzione del Partito democratico e – secondo La Repubblica – il convitato di pietra della riunione sarà il presidenzialismo. Beppe Fioroni, leader degli ex popolari, schierato tra i dubbiosi sulla questione, presenterà un ordine del giorno per chiedere un referendum nei circoli. Un altro ordine del giorno è stato preparato da Cesare Damiano e Vannino Chiti, anche loro per un referendum largo che coinvolga il popolo delle primarie. Sullo stesso quotidiano il resonconto del dibattito tenutosi ieri in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Veltroni, presenti il segretario del Pd Epifani, l’ex sindaco di Torino Chiamparino ed Eugenio Scalfari. Quest’ultimo ha esplicitamente messo in guardia gli sponsor del presidenzialismo e semipresidenzialismo, evocando esperienze sudamericane: “L’Italia – ha fatto notare Scalfari – ha eletto con l’attuale sistema presidenti come Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano”, “vogliamo rischiare di mandare al Quirinale Grillo o Berlusconi?”.
Sulla prima pagina di Europa il direttore Menichini, sul presidenzialismo scrive: “L’argomento più distruttivo di tutti, come è evidente, è quello secondo il quale in Italia introdurre l’elezione diretta del Capo dello Stato equivarrebbe a consegnare il potere a Berlusconi. Penso esattamente l’opposto (come Roma Prodi, a occhio). Sono convinto che Berlusconi, persino con tutto il suo conflitto di interessi non abbia (meglio: non abbia più) la minima chance di farsi eleggere dagli italiani né presidente della Repubblica né altro. Sono sicuro che non solo Prodi medesimo – di diverse lunghezze – ma molti altri leader del centrosinistra batterebbero oggi o domani Berlusconi”, “dico di più. Proprio per questo motivo sospetto che, se non ci riusciranno altri prima di lui, sarà Berlusconi a far saltare il tavolo della riforma dello Stato”, (come ha del resto già fatto ai tempi della Bicamerale di D’Alema).
Alle pagine interne il costituzionalista Barbera illustra “le ragioni del modello francese: sistema elettorale a doppio turno e semipresidenzialismo possono essere la risposta alla fragilità dell’attuale modello italiano”. E nello spazio basso della pagina si ricorda come D’Alema, ai tempi della Bicamerale, fece propria la soluzione approvata in quella sede, nel 1997 per un semipresidenzialismo temperato, pur essendo lui originariamente orientato su un premierato forte.
Secondo Europa oggi Epifani proporrà un “percorso congressuale” che prevede una prima fase, riservata i circoli e alle strutture territoriali del partito, per discutere la forma organizzativa del Pd, e una seconda fase, per scegliere il nuovo segretario. Il tutto dovrà concludersi entro la fine del 2013. Il quotidiano ricorda che l’ordine dei lavori di oggi non prevede formalmente il tema che sta animando il dibattito interno al Pd, cioè le riforme istituzionali. Anche perché tra pochi giorni ci sarà il secondo turno delle elezioni amministrative (e il primo in Sicilia) e secondo i vertici Dem non è il caso di mettere in evidenza le divisioni interne.
Su Il Foglio una intervista ad Arturo Parisi (“La svolta presidenzialista spiegata dal partito di Romano Prodi. La versione di Parisi”), in cui il professore ulivista, amico di vecchia data di Prodi, spiega che “l’unica novità è che adesso Prodi ha fatto riferimento all’esperimento francese nella sua interezza, doppio turno e semipresidenzialismo”.
Processi a Berlusconi
Il Foglio pubblica l’arringa difensiva dell’avvocato Niccolò Ghedini al processo Ruby (e nella stessa pagina la difesa che Raymond de Sèze pronunciò per Luigi XVI).
La Repubblica: “L’Ira del Cavaliere nel fortino Arcore, ‘il Quirinale adesso deve difendermi’”. Il retroscena così sintetizza solo sfogo cui si sarebbe lasciato andare il Cav: “Ho fatto tanto per pacificare questo Paese e ridargli un governo dopo lo stallo, e ora assistono tutti in silenzio al tentativo di farmi fuori. Non una reazione dalla Consulta né dal Colle” Il 19 giugno dovrebbe arrivare la sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento invocato nel corso del processo Mediaset. E il quotidiano ricorda che un esito negativo in questa sede potrebbe aprire alla conferma della condanna in Cassazione e alla interdizione. Ecco perché quella decisione è attesa ben più di quella Ruby, di primo grado, prevista per il 24 giugno.
Turchia
La Stampa intervista il politologo Soner Cagaptay, che dirige il Turkish Research Program al Washington Institute: “La classe media si rivolta contro il premier Erdogan che è vittima del proprio successo politico”, dice con un paradosso il politologo. “Nell’ultimo decennio le politiche economiche dell’AKP, il partito di Erdogan, hanno trasformato la Turcha in una società dove la classe media è diventata la maggioranza. Si è alzato il tenore di vita, la povertà è stata arginata, c’è stata la crescita economica. Ma adesso tale classe media chiede il rispetto dei diritti individuali, pone al partito di governo la questione di come definire la democrazia”. Secondo il politologo le manifestazioni di questi giorni denotano “la nascita di una nazione”, “una nazione composta da una classe media che crede nei diritti degli individui e dove le elites sono democratiche, nel senso che credono in governi legittimati dal voto popolare. Ciò che più conta è che la classe media costruita dall’Akp sta dicendo al partito di governo che democrazia non significa solo vincere le elezioni ma costruire consenso popolare, dunque ascoltare i cittadini senza forzarli a ingoiare qualsiasi decisione. Questo significa che in Turchia la base popolare della democrazia si sta rafforzando”.
Il Corriere intervista Elif Shafak, la scrittrice de La bastarda di Istanbul: “Sono molto demoralizzata per quello che sta accadendo, il comportamento della polizia mi ha molto rattristato”, dice. Ma rimane convinta che questa non sia una rivoluzione: la Turchia “è molto diversa da altri Paesi musulmani perché è una democrazia e un Paese secolare, con una lunga tradizione di modernità e occidentalizzazione. Però lo ammetto: questa non è una democrazia matura”. Cosa le manca? “Abbiamo bisogno di maggior libertà di espressione”, e “vanno dati più diritti alle minoranze e alle donne”. Su decisioni come quella di una legge sull’alcol la Shafak dice: “Anche i conservatori, quelli che magari non bevono mai, sono preoccupati da questo giro di vite”. Una parte dell’elettorato sta voltando le spalle al premier? “Anni fa Erdogan era molto più costruttivo e tollerante, diceva che sarebbe stato il premier di tutti, anche di quelli che non l’avevano votato. Ora invece sta proteggendo solo quella parte della popolazione che la pensa come lui. Il resto della società, più o meno il 50 per cento, si sente alienato, distante”. Dice ancora che tutti è iniziato con un sit-in pacifico, e “forse non sarebbe successo nulla, se la polizia non avesse usato un atteggiamento così violento. E’ stata quella la miccia che ha innescato la rivolta”, “molta gente è scesa in strada dopo le violenze. Questo no è un movimento kemalista, è la reazione agli errori del governo e delle forze dell’ordine. I manifestanti vengono dagli ambienti più diversi, a muoverli il risentimento e la rabbia accumulati in questi anni”.
Il Fatto intervista Yldirim Turker, uno dei più noti giornalisti indipendenti finiti sotto processo con l’accusa di aver offeso l’identià turca, e di aver insultato l’esercito e lo Stato. Amico del giornalista turco-armeno Hrat Dink, dichiara: “Ho lavorato per 16 anni al giornale Radical, ma dopo aver scritto una inchiesta su Erdogan, che venne censurata, fui costretto a lasciare la redazione. Da quel momento sono entrato e uscito da una lunga serie di processi”. E’ stato quasi sempre assolto, ma la sua vita professionale ne ha risentito, anche perché Erdogan “ha comprato praticamente tutti i mezzi di comunicazione, carta stampata e tv. Dal momento che la maggior parte dei magnati dei media ha progetti estremamente ambiziosi anche in altri ambiti industriali, come la costruzione di autostrade, ad esempio, ha bisogno del sostegno della politica, e preferiscono licenziare i reporter che scrivono di corruzione e collusioni”.
Su Europa Lorenzo Biondi scrive che “le riforme promosse nell’arco di un decennio dal partito islamico-moderato gli hanno guadagnato un consenso straordinario: non solo la liberalizzazione dell’economia, ma il primo vero tentativo di sottrarre la Turchia all’ingombrante tutela dell’esercito e del cosiddetto ‘Stato profondo’. Dal 1960 al Duemila per quattro volte i militari sono intervenuti a stravolgere i risultati elettorali, che avevano premiato partiti più o meno apertamente ‘islamici’. C’è voluto il referendum del 2010, una prova di forza cercata proprio da Erdogan, per far sì che i vertici dell’esercito fossero perseguibili per i crimini commessi durante i vari colpi di Stato, un trionfo consacrato dalla vittoria elettorale del 2011. Dopo quel successo, il primo ministro sembra aver perso molti freni inibitori”. Ma il problema resta l’alternativa al governo Erdogan, perché le diverse forze di opposizione sono lontanissime l’una dall’altra, e nessuna da sola sembra poter impensierire l’AKP.
Alberto Negri sul Sole 24 Ore spiega perché proprio a Taksim e Gezy park che è esplose la rivolta. Fu lì che Ataturk con i giovani turchi, nel 1908, lanciarono una offensiva contro un settore delle forze armate che voleva una restaurazione religiosa, mentre loro avevano relegato il sultano Abdulhamid in esilio a Salonicco: “Entrarono nella piazza, tagliarono le teste degli islamici e rasero al suolo la loro caserma. E’ evidente che costruire la moschea e una replica della caserma ottomana, come intende fare Erdogan, è per i laici una provocazione: al centro di Taksim il monumento ad Ataturk di Pietro Canova ricorda proprio quell’azione che segnò l’inizio del crollo dell’impero. Kemal Ataturk dopo la guerra abolì il sultanato, poi il califfato, e fece gettare via il fez e il velo ai connazionali. Erdogan non è il De Gasperi turco, e l’Akp non è una sorta di Dc in salsa islamica come anche noi giornalisti abbiamo volgarizzato. Nessun Dc si sarebbe mai giocato una piazza per costruire una chiesa. E’ un islamico che ha saputo dare prova di realismo, utilizzando a piene mai i principi giuridici garantisti della Ue, per emarginare i generali, ma che si è anche lasciato andare a dichiarazioni sconcertanti con il principe del Qatar: ‘La democrazia è come un autobus, salgo e scendo alla fermata che voglio’. Ha avuto il grande merito di dare voce alla parte conservatrice del Paese, alla borghesia islamica che ne ha decretato il boom, ma adesso, se vuole cambiare la Costituzione e diventare Presidente con pieni poteri, non gli basterà vincere le elezioni”.
La Stampa in un reportage di Istanbul, raccoglie le voci degli attivisti in piazza. Che parlano di un lavoro preparato per mesi, tentando di entrare in contatto con gli abitanti del quartiere. I lavori di piazza Taksim sono partiti sei mesi fa, ed “Erdogan sarà stato anche sindaco di Istanbul, ma non ha capito quanto sia importante quella piazza”, dice uno di loro. Mesi di attività porta a porta, e quando la data della distruzione di Gezy park è arrivata si è passati alla parte B del piano: l’uso dei social media.
Manning
E’ iniziato ieri il processo a Bradley Manning, ex analista di intelligence che, secondo il capitano Joe Morrow, avrebbe aiutato Al Qaeda, passando a Wikileaks oltre 700 mila documenti. Se ne occupa La Stampa, spiegando che per Manning si chiede l’ergastolo. La storia inizia nel 2010, quando Manning viene arrestato in Iraq, dove fa l’analista di intelligence. Finisce nella prigione dei marines a Quantico, in Virginia, dove subisce un trattamento così crudele che lo stesso giudice militare Denise Lind gli riconoscerà 112 giorni di carcere in meno rispetto a qualunqe condanna dovesse ricevere. Viene trasferito in Kansas. Ammette dieci dei 22 reati che gli vengono contestati: riconosce di aver girato i documenti a Wikileaks, ma “solo per provare un dibattito interno sulla guerra”. Nega di aver aiutato il nemico, e rifiuta il processo davanti ad una giuria, affidandosi alla clemenza del giudice militare e colonnello Lind. Spera di cavarsela con venti anni. Ma l’accusa non ci sta e non accetta l’accordo. Vuole la corte marziali anche per violazione dell’Espionage Act, e del Computer fraude and Abuse Act. Promette 141 testimoni, di cui 24 parleranno in segreto. Fra loro c’è anche un membro dei Navy Seals che nel maggio 2011 parteciparono al raid in cui fu ucciso Bin Laden, ed è chiamato a confermare la prova regina: alcuni documenti di Manning erano nel rifugio di Bin Laden, ad Abottabad, e quindi Manning avrebbe aiutato il nemico. Un reato punibile con la pena di morte, o quantomeno l’ergastolo. Si sospetta che l’accusa punti al massimo perché Manning non ha cooperato al tentativo di incastrare Julien Assange, negando di essere stato sollecitato da lui.
E poi
Su La Repubblica un intervento dell’ex premier britannico Blair: “Il filo che unisce i killer di Londra alla tirannia di Damasco”. Fatta una disanima della difficile situazione in tutto il Medio Oriente, Blair scrive: “Non c’è un conflitto con l’Islam, quelli di noi che l’hanno studiato non hanno nessun dubbio sulla natura autentica e pacifica. Non c’è un conflitto con i musulmani in generale: quasi tutti i musulmani britannici sono sicuramente inorriditi dall’omicio di Lee Rigby. Ma c’è un conflitto all’interno dall’islam, che nasce dai seguaci di una ideologia che rappresenta una varietà dell’islam, e di questo bisogna discutere apertamente. Naturalmente esistono cristiani estremisti, ebrei estremisti, buddisti e induisti estremisti. Ma purtroppo questa varietà dell’islam non è appannaggio di una manciata di radicali: è una ideologia incentrata su una visione della religione e della interazione tra religione e politica che non è compatibile con società pluralistiche, liberali e aperte”, “da un lato ci sono gli islamisti con la loro visione del mondo esclusivista e reazionaria. Sono una minoranza importante, rumorosa e ben organizzata. Dall’altra parte ci sono le persone con una mentalità moderna, che odiavano prima la vecchia oppressione dei dittatori corrotti e odiano ora la nuova oppressione dei leader religiosi. Potenzialmente sono la maggioranza, ma purtroppo sono male organizzati”. L’impegno in questi Paesi non deve essere sempre e soltanto militare, rispetto alla minaccia islamista: “l’idea migliore in questo è una visione moderna della religione e del suo posto nella società e nella politica. Deve esserci rispetto e uguaglianza tra persone di fede diversa. La religione deve avere voce nel sistema politico ma non lo deve governare”.