Tutti i quotidiani dedicano il loro titolo di apertura ad Andreotti: “il simbolo del potere” per Il Corriere della Sera, che parla di “divisioni, accuse e polemiche anche nel giorno della morte”;
“I misteri del potere” è il titolo de La Repubblica, che mette in evidenza il giudizio di Berlusconi (“Il Cavaliere: perseguitato dai magistrati come me”). Il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari firma un commento dal titolo “La leggenda di Belzebù”.
La Stampa: “Andreotti, potere e misteri. Scomparso a 94 anni: simbolo Dc, sette volte capo del governo”.
Il Fatto quotidiano: “Andreotti, il cinismo al potere. Berlusconi: ‘Fu perseguitato come me’”. L’editoriale di Marco Travaglio è titolato: “Giulio, eri tutti loro”.
Il Giornale: “Andreotti muore. Vive l’odio”. “E’ stata la prima vittima di un processo politico. E oggi i forcaioli non lo lasciano in pace neppure nel giorno della scomparsa”.
Il Foglio: “Andreotti, statista al bacio”; Libero: “Belzebù ha smesso di tirare a campare”.
Gli altri titoli di prima pagina: sul Coriere della Sera si dà conto della decisione della Corte di Cassazione, che ha respinto la richiesta avanzata dai difensori di Silvio Berlusconi di trasferire a Brescia i processi sui diritti tv Mediaset e Ruby. “La Cassazione: restano a Milano i processi a Berlusconi. ‘Confido nell’assoluzione’”.
Il Fatto quotidiano: “Il Caimano nei guai: ‘I processi a Milano’. No alla richiesta di spostare tutto a Brescia”.
La Repubblica: “Ruby e Mediaset, Berlusconi sconfitto”. “La Cassazione respinge il ricorso: i processi restano a Milano, no al trasferimento a Brescia”.
La Stampa dedica il titolo di apertura a Letta, che ieri ha incontrato il premier spagnolo Rajoy: “Letta avvisa la Ue: basta rinvii, subito misure anti-crisi”. E poi: “Allarme dall’Inps, sono finiti i soldi per la cassa integrazione in deroga”.
Anche su La Repubblica: “Letta: non siamo una minaccia per l’Europa”.
Sulla prima pagina de L’Unità si parla del dibattito sul Documento di economia e finanza, in corso in Parlamento: “Cig e giovani, arriva il decreto. Saccomanni: ‘Non solo lo stop all’Imu’. Letta: ‘In politica un po’ di follia visionaria’”.
Il Sole 24 Ore dedica il suo titolo di apertura alla relazione annuale del Presidente della Consob: “Consob chiede più poteri contro il rischio-illeciti. Il Presidente Vegas: consentire interventi preventivi e misure caustelari anche contro i manager delle quotate”. E poi: “’No all’austerità senza speranza. Il problema è la disoccupazione’”.
Andreotti
Marcello Sorgi su La Stampa parla di Andreotti come “l’uomo simbolo della Prima Repubblica al centro dei misteri”. “Contrario alla trattativa durante il sequestro Moro – si sintetizza nel titolo – la sua politica estera filo-araba provocò attriti con gli Usa”. Dove si legge che Andreotti non a caso era presidente del Consiglio del governo di unità nazionale, che nel 1978, nei 55 giorni fatali del sequestro Moro, dispiegò la cosiddetta “linea della fermezza” e andò allo scontro frontale con la direzione strategica delle Br e al rifiuto proclamato di ogni trattativa, riuscendo perfino ad influenzare il famoso appello di Paolo VI, un Papa assai vicino per generazione e formazione a Moro e allo stato maggiore del suo partito, che finì per rivolgere ai terroristi solo un invito, purtroppo rivelatosi inutile, a liberare il prigioniero senza condizioni. Per questo, o anche per questo, Andreotti e Zaccagnini, l’ascetico segretario Dc, divennero, insieme al ministro Cossiga, i bersagli principali delle strazianti lettere di Moro dal carcere brigatista. Sorgi ricorda che, al di là dei molti ruoli ricoperti, Andreotti è stato essenzialmente due cose: prima di tutto il ministro degli esteri del Vaticano, o se si preferisce il capo della diplomazia italiana al servizio di Oltretevere. Andreotti ha assolto a questo ruolo anche quando alla Farnesina sedeva un esponente di un partito alleato. E lo ha fatto in modo inflessibile se si pensa, ad esempio, alla sua indefessa e “talvolta irragionevole dal punto di vista elettorale” opera di fiancheggiamento della Ostpolitik del cardinale Casaroli nei confronti della ormai cadente Urss brezeneviana, e in particolare alla sua incredibile presa di posizione contro la riunificazione della Germania. Ma a parte i rapporti con il gigante comunista sovietico, il grosso di quella politica estera voluta da Oltretevere consisteva nell’indirizzo filo-arabo. La seconda e più intima natura di Andreotti era quella di massimo esponente del “noir” italiano. Qui basterebbe l’atto finale della sua vita politica, il “processo del secolo” da cui è uscito per metà assolto e per metà prescritto, che tendeva a rappresentarlo non solo come uno dei numerosi politici in rapporti con i mafiosi, ma come una specie di capo, o di co-capo, accanto al boss corleonese Totò Riina, della mafia tutta intera.
Su La Repubblica, intervista a Giancarlo Caselli, l’uomo che, da Procuratore capo di Palermo, fece processare Andreotti per associazione mafiosa. Caselli contesta che sia stato assolto: “Non è assolutamente così”, “noi portammo a processo il senatore Andreotti in base a plurimi elementi di prova, in particolare le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Francesco Marino Mannoia, che narrò di due incontri (di uno era stato testimone oculare) avvenuti in Sicilia tra lo stesso Andreotti e Stefano Bontade. Incontri che avevano per oggetto, come è scritto nella sentenza di appello confermata in Cassazione, ‘la discussione di fatti gravissimi in relazione alla delicatissima questione di Piersanti Mattarella’”. Spiega ancora Caselli: “Mannoia raccontò che il senatore era andato una prima volta da Bontade per cercare di far cessare le intimidazioni mafiose contro Mattarella, politico onesto che la mafia aveva deciso di uccidere. E una seconda volta incontrò Bontade per chiedere ragione dell’assassinio di Mattarella, che si era verificato qualche tempo prima. In nessuno dei due casi Andreotti, a conoscenza di circostanze gravissime sull’assassinio di Mattarella, informò la magistratura e gli inquirenti”. E allora per quale motivo fu assolto? “L’assoluzione riguarda soltanto i fatti successivi al 1980. Per i gravi fatti commessi fino a quella data Andreotti è stato riconosciuto colpevole di associazione a delinquere con la mafia. Solo che il reato venne prescritto”.
Il Foglio fa parlare Emanuele Macaluso: la sua riflessione abbraccia tutta la storia della Dc in Sicilia. Ricorda Macaluso che Andreotti aveva come suo uomo di fiducia in Sicilia Salvo Lima, ucciso nel 1992 da due killer della mafia. E Lima, come ebbe a dire lo stesso Andreotti, non era un demonio in un mondo di Agnelli: era campiere di un feudo, quello democristiano, che poteva contare su grandi mediatori”, da Bernardo Mattarella a Mario Scelba, da Giuseppe Restivo a Giuseppe La Loggia, da Vito Ciancimino a Giovanni Gioia, che furono, per Amintore Fanfani, esattamente quello che Lima è stato per Andreotti, ovvero uomini che per la gloria e i voti del partito sapevano come sporcarsi le mani. Macaluso ricorda la famosa relazione della Commissione Antimafia, un vero e proprio atto d’accusa, scritta e approvata dopo che il Presidente Violante aveva interrogato Tommaso Buscetta. Quella relazione “fu approvata con il consenso non solo della Dc ma di tutti i partiti, dai socialisti ai liberali, che avevano governato per 40 anni fianco a fianco con Andreotti. E tutti i partiti avevano ben chiaro che quella relazione sarebbe diventata la forca mediatica, prima che giudiziaria, alla quale la Procura di Caselli avrebbe poi appeso il vecchio senatore”. Ricorda ancora Macaluso che Andreotti era stato uomo di rispetto anche per Berlinguer, che nel 1976, nonostante la sua grande sensibilità per la questione morale, “non annusò l’odore di zolfo”. Macaluso ricorda di aver chiesto a Berlinguer che il governo di unità nazionale fosse presieduto da Moro anziché da Andreotti: “Berlinguer mi disse che Moro non sentiva ragioni e che la Dc avrebbe accettato il governo solo se a guidarlo fosse stato Andreotti, il quale evidentemente era l’unico in grado di garantire al Vaticano che la strana alleanza con il Pci non avrebbe mai portato i boloscevichi di Breznev ad abbeverare i loro cavalli nelle fontane del palazzo apostolico. Andreotti, ma questo non è un mistero, è stato all’un tempo ministro dei governi italiani e del Vaticano”.
Macaluso viene intervistato anche da L’Unità: “Per lui la Dc era lo Stato. E ne fu la quintessenza”, “ebbe un rapporto di totale fiducia con Berlinguer e anche di lealtà. Condivise con lui la strategia della fermezza durante il caso Moro”. Su Il Fatto, ne scrive Marco Politi: “Un cardinale laico che ha attraversato sette pontificati”. E nelle pagine precedenti, Peter Gomez e Marco Travaglio: “Dalla P2 a Pecorelli, il suo nome non manca mai”. Sulla prima pagina del quotidiano Marco Travaglio firma l’editoriale: “Giulio, eri tutti loro”, “era il simbolo del cinismo al potere”, “un politico buono a nulla, ma pronto a tutto e capace di tutto”. “Il principe del trasformismo, che l’aveva portato con la stessa nonchalance a rappresentare la destra, la sinistra e il centro della Dc, a presiedere governi di destra ma anche di compromesso storico, a essere l’uomo degli Usa ma anche degli arabi”. Forse proprio per questo era il politico più popolare, “il più somigliante a quell ‘italiano medio’ che non è tutto il popolo italiano. Ma ne incarna una bella porzione”. Se Andreotti spaccava gli italiani, “affratellava i politici, che han sempre visto in lui – amici e nemici – il proprio santo patrono e protettore. La sua falsa assoluzione, in fondo, era anche la loro assoluzione. Per il passato e per il futuro. Per questo quando le Procure di Palermo e Perugia osarono processarlo per mafia e per il delitto Pecorelli si ritrovarono contro tutto il Palazzo”. Le critiche di Travaglio si abbattono anche sulla sinistra: “Fu quando si salvò per prescrizione che Violante criticò l’ex amico Caselli per averlo processato, e la Finocchiaro esultò per l’inesistente ‘assoluzione’. Anche i magistrati più furbi e meno ‘matti’ (è una citazione da dichiarazioni di Berlusconi, ndr) come Grasso si dissociarono dal processo e fecero carriera”.
Anche Eugenio Scalfari sulle pagine de La Repubblica ricorda Andreotti, e scrive che la sua corrente dentro la Dc “non fu mai numericamente forte”. E anche i grandi del capitale, sia pubblico che privato, non sono mai stati suoi alleati (da Mattei a Cefis, da Schimberni a Cuccia): “E’ stato il protettore di Rovelli contro Cefis, di Sindona contro Cuccia, del Banco di Roma contro la Commerciale e il Credito Italiano, di Calvi contro tutti. Ha avuto in mano per molti anni l’importantissima Procura di Roma, attraverso Claudio Vitalone. Gelli ha lasciato intendere per molto tempo di considerarlo il suo referente principale. Il generale Maletti, capo dei servizi del controspionaggio, gli fu devotissimo”. Sui rapporti con Moro, “il suo avversario a pari livello di intelligenza politica”, Scalfari scrive che in alcune cose importanti i due si somigliavano: “per esempio nel radicarsi nel centrodestra per meglio aprire alla sinistra, per esempio nel servirsi di personaggi discutibili come procuratori di affari. Se Andreotti ha avuto i suoi Sindona e Caltagirone, non dimentichiamoci che anche Moro ha avuto i suoi Sereno Freato”.
Il Corriere della Sera, con Giovanni Bianconi, ricostruisce i processi e le sentenze, nell’ambito dei rapporti ambigui tra politica e mafia. Ricorda che fu scagionato per Pecorelli, e andò incontro alla prescrizione per Cosa Nostra. L’omicidio Lima e la strage di Capaci gli sbarrarono la strada del Quirinale. Il quotidiano intervista Vincenzo Scotti, che in uno dei sette governi Andreotti entrò come titolare del lavoro nel plumbeo 16 marzo del sequestro Moro, e che da ministro continuò a lavorare al suo fianco anche in seguito. Racconta Scotti: “Fare il ministro dell’interno quando lui guidava il governo era dura. Si alzava alle quattro del mattino e leggeva non soltanto i giornali, ma anche i mattinali dei carabinieri, delle questure. Io mi svegliavo alle sette e sapeva già più di me”.
Scotti ribadisce: “Anche ora, al processo su Stato e mafia, ho detto che senza il presidente del consiglio (Andreotti) il decreto per rimettere in galera i mafiosi arrestati non ci sarebbe stato”.
La Stampa offre una carrellata di fotografie dallo sterminato archivio di Andreotti: 3500 faldoni, 600 metri lineari di documentazione, conservati nei sotterranei dell’Istituto Sturzo. E’ qui che nel 2007 il senatore a vita fece trasferire tutte le sue carte, spesso souvenir e testimonianze dei suoi viaggi da politico. Andreotti conservava con la stessa cura il manoscritto di un discorso pronunciato negli anni 50 a pochi elettori di un paesino del suo collegio elettorale, e la lista degli ospiti e delle portate di una cena di gala in suo onore alla Casa Bianca.
Pd, Commissioni
In vista della Assemblea nazionale del Pd, che si terrà sabato prossimo a Roma, c’è “nebbia sui candidati alla segreteria”, scrive Europa in prima pagina. “In quello che sembrava un ballottaggio tra Gianni Cuperlo e Guglielmo Epifani, potrebbe spuntare a sorpresa un terzo nome. E le ipotesi in campo non mancano: Anna Finocchiaro, Vannino Chiti, Piero Fassino, Pierluigi Castagnetti. Perfino Sergio Chiamparino sarebbe ancora disponibile (nonostante le dichiarazioni di ieri a Repubblica) se tutto il partito lo richiamasse unitariamente a Roma”. Aggiunge il quotidiano che la scelta di un segretario “che traghetti il Pd al congresso” è “però ancora bloccata da veti incrociati e dalla priorità assegnata alla presidenza delle commissioni parlamentari”.
L’Unità: “Segretario e Statuto. Nuove tensioni nel Pd. Il candidato più quotato resta Cuperlo, ma Bersani teme spaccature e cerca la soluzione ‘condivisa’. Rischio sul numero legale all’Assemblea: molti assenti per protesta?”. L’Assemblea – secondo lo Statuto – elegge un nuovo segretario in caso di dimissioni. E non è prevista la figura del “reggente”.
Secondo La Repubblica per la reggenza non c’è ancora alcun accordo, e sarebbero in calo le quotazioni di Cuperlo e di Epifani. Secondo il retroscena che il quotidiano pubblica, “l’idea è congelare le dimissioni di Bersani, anche se l’ex segretario ora tifa per Martini”, ovvero per l’ex presidente della Regione Toscana Claudio Martini, tra i papabili per la reggenza.
Anche sulla prima pagina de L’Unità un contributo di Mario Tronti: “Bersani resti fino al Congresso”, “non torniamo alle due sinistre”.
Quanto alle presidenze delle Commissioni parlamentari permanenti, ieri – scrive il Corriere della Sera – sarebbe stato raggiunto un accordo: “Commissioni, sì a Nitto Palma e no a Romani. Decisi i presidenti, in Cinque Stelle fanno ostruzionismo. Stallo su Copasir e Rai”. “Quindici presidenti di commissione al Pd, 11 al Pdl, 1 (o forse 2) a Scelta Civica. Via libera quasi certo alla Giustizia per due specialisti – Nitto Palma del Pdl al Senato, Ferranti del Pd alla Camera – mentre il nodo dei Trasporti-Telecomunicazioni, in odore di conflitto di interessi, viene risolto a Palazzo Madama dal Pdl con il ritiro della candidatura di Paolo Romani, bocciata dal Pd, e con l’inserimento in corso d’opera dell’ex ministro Altero Matteoli”, scrive il quotidiano milanese. Sarebbe questo il “succo dell’accordo” raggiunto ieri dai capigruppo alla Camera e al Senato di Pdl e Pd, anche se altre riunioni sono previste per questa mattina. Scelta Civica prenderebbe la presidenza della commissione esteri al Senato (Casini) ma spera fino all’ultimo di ottenere una presidenza anche alla Camera. “Magari l’agricoltura, con l’ex ministro Mario Catania, anche se si è parlato con insistenza pure dell’avvocato Gregorio Gitti per la Giustizia. Solo la prossima settimana verranno eletti i vertici della Commissione di Vigilanza Rai e del Comitato parlamentare sui servizi (Copasir).
M5S
Tutti i quotidiani tornano sulla notizia data ieri da La Repubblica: i parlamentari del Movimento Cinque Stelle ancora non hanno trovato un accordo sul destino della loro diaria, “una delle promesse elettorali, uno dei simboli del loro essere diversi rispetto alla vecchia politica”, come scrive La Stampa. Quasi uno su due dei 163 parlamentari – di fronte alla richiesta di Grillo e Casaleggio di restituire la parte dell’indennità non spesa versandola ad alcune Onlus o creando un fondo per il microcredito alle imprese – ha scelto la “libertà di coscienza”, con la “diaria completamente trattenuta dall’eletto e la possibilità di scegliere quanto rendere”.
Libero: “La rivolta della diaria: vaffa dei grillini a Grillo. Vogliono tenersi tutti i soldi”. I parlamentari del M5S si sono organizzati “un sondaggino interno, e appena il 36 per cento di loro si è schierato con il capo supremo. Per tutti gli altri rendicontare va bene, ma la restituzione della parte eccedente di diaria deve essere lasciata alla buona volontà di ciascun eletto”.
Vittorio Feltri ne scrive su Il Giornale: “La furia grillini si ferma ai rimborsi. I parlamentari vogliono tenersi la diaria”. Scrive Feltri che la vita a Roma è cara, e scrive che dunque “non sorprende” che nel M5S divampi la polemica tra chi (pochi) insiste nel predicare uno stile da monaci, da estendersi obbligatoriamente a qualunque grillino, e che invece, realisticamente, pretende il necessario per campare”.
La Repubblica, in un articolo dal titolo “La rivolta della base grillina, ‘sulla diaria fate come tutti’”, scrive che i grillini “sono inciampati nell’asticella che loro stessi hanno alzato”: nel regolamento firmato prima delle elezioni era scritto che i parlamentari avrebbero tenuto solo 5000 euro lordi (2500 netti) dei 10 mila di indennità di carica, insieme a diarie e rimborsi vari (che, calcolando per difetto, tra spese per il mantenimento a Roma, collaboratori, taxi e telefono, ammontano a 8440 euro). C’era però – fa notare il quotidiano – l’obbligo di rendicontare tutto, e qui la prescrizione rimaneva ambigua: quello che non si documenta va restituito oppure no?
Su Il Fatto: “Grillo prepara la gogna per chi non molla i soldi”, “diarie e rimborsi, giovedì il leader a Roma per convincere i suoi. Dal web: ‘vogliamo i nomi di tutti i traditori’”.
Il Corriere della Sera, dando conto del referendum interno tra i parlamentari sulle diarie, scrive che su circa 130 partecipanti al sondaggio tra deputati e senatori (i parlamentari M5S sono 163) il 48.48 per cento vorrebbe trattenere completamente la diaria, stabilendo secondo coscienza quanto rendere. Per la rendicontazione – ossia trattenere solo le spese – si è espresso il 36,30 per cento dei Cinque Stelle.
E poi
L’Unità ha deciso di sostenere la proposta avanzata dalla Ministra Cecile Kyenge sullo ius soli, ovvero cittadinanza per i figli dei migranti nati in Italia. Ne parla oggi sul quotidiano il responsabile nuovi italiani del Pd, nonché deputato, Khalid Chaouki.
Anche sul Corriere della Sera il tema è oggetto di grande attenzione. Se ne occupa in prima pagina un editoriale di Gian Antonio Stella che, con il titolo “Le inutili forzature”, sottolinea come su questa questione non esista “una ricetta universale”. “Solo gli Usa hanno mantenuto di fatto lo ius soli integrale”. Ed un altro articolo, alle pagine interne del quotidiano, evidenzia le condizioni poste in molti Paesi per l’acquisizione della cittadinanza. Dalla Spagna, in cui diventa cittadino chi nasce nel Paese avendo almeno uno dei due genitori nato in Spagna, o dopo una residenza nel Paese per dieci anni o per matrimonio con cittadino spagnolo dopo un anno; alla Francia, dove si ottiene la cittadinanza se si è stranieri nati da genitori stranieri a loro volta già nati in Francia o con matrimonio con cittadino francese dopo due anni; alla Germania, dove basta che uno dei due genitori abbia un permesso di soggiorno permanente da tre anni e viva nel Paese da otto, oppure per matrimonio con cittadino tedesco dopo tre anni, alla Gran Bretagna, dove acquista la cittadinanza chi nasce in territorio britannico anche da un solo genitore che sia già cittadino britannico.