Il Foglio: “Braccio di ferro a Berlino. Berlusconi, colloquio sui processi e governo. O Letta raddrizza le storture dell’euro o perde tutto”. E’ un lungo articolo-intervista firmato dal direttore Ferrara.
Libero: “Silvio: ‘Via da questo euro. Il Cavaliere sta con Libero’. Il Fmi ammette: gravi errori con la Grecia. L’ex ministro Riccardi svela: Monti ci ha stangato per farsi bello con la Merkel. La situazione della moneta unica non è più sostenibile. E Berlusconi lo dice”.
La Repubblica: “Berlusconi, ricatto sull’Europa. Il governo vara il ddl sulla riforma costituzionale. Scontro nel M5S sulla giunta delle immunità guidata da Sel: si riaccende il caso ineleggibilità”. “’Piegare la Merkel o addio moneta unica’”. “Commissioni, la Rai ai grillini”. A centro pagina: “E’ vivo il giornalista rapito in Siria. Una telefonata tra Domenico Quirico e la famiglia: ‘Situazione delicata, aspettiamo notizie certe’”.
Il Corriere della Sera: “Riforme, c’è il primo passo”, “approvato il disegno di legge costituzionale che fissa modi e tempi. ‘Fine lavori entro ottobre 2014’”, “E Berlusconi chiede a Letta un braccio di ferro con la Merkel”.
Di spalla: “La cautela di Draghi. Risale lo spread”. “La Bce abbassa le stime di crescita Ue, la Borsa di Milano la peggiore in Europa”.
La Stampa: “La voce di Quirico: sto bene. Ha chiamato la moglie: sono stato rapito. Bonino: una fase delicata”. “L’inviato de ‘La Stampa’ era scomparso 58 giorni fa in Siria. La Farnesina: riserbo per una soluzione positiva”. A centro pagina: “Napolitano ai saggi: ‘Riforme ineludibili’. Eletti i presidenti di Copasir e Vigilanza”.
Il Fatto quotidiano: “Napolitano contro Il Fatto: vietato far domande su di lui”. “Il Capo dello Stato, tre giorni dopo l’annuncio che il governo Letta è a termine (ripreso da tutta la stampa) ci ripensa. Ma anziché ammettere l’errore, se la prende con il nostro giornale, reo di aver intervistato Barbara Spinelli per l’ennesima forzatura costituzionale”:
Il Giornale: “Sconfitti e rabbiosi. De Benedetti detta la linea a La Repubblica. ‘Berlusconi o Grillo? Malformazione”. De Benedetti era ieri alla festa de La Repubblica, in corso a Firenze.
L’Unità: “Renzi pronto a candidarsi”, “Il sindaco di Firenze prepara la squadra. E Letta cerca l’intesa per evitare colpi al governo”. A centro pagina: “Riforme al via: il premier, ultima occasione”.
Sul Sole 24 Ore il titolo di apertura è: “Ecco le nuove pensioni: così scatteranno i tagli. Nei trattamenti futuri gli autonomi sono più penalizzati”. “Le stime dell’Inps e della Ragioneria dello Stato annunciano ribassi fino al 20 per cento dnegli assegni”. Di spalla il quotidiano offre un “colloquio” con il presidente di Confindustria Squinzi, dedicato alla situazione economica in Europa.
Riforme
L’Unità scrive che il governo ieri ha accelerato, con una riunione lampo di 40 minuti appena, per avviare le riforme. Ha accelerato anche sul calendario ipotizzato nei giorni scorsi: “Otto giorni fa – ha detto il ministro Franceschini – il Parlamento aveva dato mandato all’esecutivo di tradurre in ddl il contenuto della mozione entro il 30 giugno. Noi lo approviamo con molto anticipo sui tempi fissati”. Scrive ancora il quotidiano che il ddl costituzionale varato ieri a Palazzo Chigi, malgrado le perplessità di alcuni ministri per le tappe forzate che possono comprimere il ruolo del Parlamento, verrà trasmesso immediatamente a Palazzo Madama. Diciotto mesi di tempo per modificare la Costituzione: il provvedimento scandisce i tempi e ridefinisce le tappe. Letta lega alle riforme il destino del suo governo. Ieri ha spiegato che andrà avanti fino alla fine della legislatura ma che, se non si faranno le riforme di qui al 2014, si dimetterà. Franceschini ha spiegato che il governo chiederà la procedura di urgenza per ridurre i tempi: l’auspicio è che Camera e Senato approvino il provvedimento varato dal governo entro la fine di luglio, in prima lettura. Il ddl istituisce il “comitato parlamentare per le riforme costituzionali” (quello formato da 20 deputati e 20 senatori) e dovrà superare il doppio vaglio del Parlamento per essere insediato. Per fine maggio è prevista la prima lettura da parte della prima Camera, per gli inizi di settembre la prima dell’altro ramo. La seconda deliberazione e l’approvazione finale della riforma, salvo eventuale svolgimento di un referendum confermativo, dovrebbe avvenire entro la fine di ottobre 2014.
Ieri il Presidente della Repubblica ha accolto al Quirinale, come riferisce il Corriere, i35 studiosi ed esperti la cui “’istruttoria’, dal valore consultivo, affiancherà il lavoro della Commissione congiunta di 40 membri di Camera e Senato. E’ stata una occasione per tornare a precisare a precisare il senso del suo atteggiamento in questi giorni sul fronte delle riforme istituzionale e del governo Letta: Napolitano ha accennato a “certe distorsioni” interpretative, riferendosi ad una intervista a Barbara Spinelli comparsa ieri su Il Fatto, in cui si diceva che in Italia “il presidenzialismo nei fatti c’è già” e che “il Colle ha forzato la Carta”, anche perché non si era mai visto che un capo dello Stato mettesse “una data di scadenza al governo, ignorando le Camere”. Napolitano ha replicato con una nota scritta di suo pugno: “si continua ad accreditare un ridicolo falso di un termine posto dal Presidente alla durata dell’attuale governo”. Napolitano si riferisce alle dichiarazioni rilasciate ai giornalisti il 2 giugno, che il Corriere si è premurato di rileggere: “Diciotto mesi – aveva detto Napolitano – sono un tempo più che appropriato per le riforme. Il processo è complesso, si tratta di tenere il ritmo”.
Su Il Fatto insiste, e con un editoriale del direttore dal titolo “Il monarca capriccioso” scrive che “il vero problema di Giorgio Napolitano sono i giornali”. “Quelli (quasi tutti) che lo incensano da mane a sera”, “così abbagliati dal verbo del Colle da non vedere l’enormità di certe affermazioni del Presidente bis”. Lunedì 3 giugno infatti (quasi) tutta la stampa italiana ha scolpito sulle sue pagine la frase sul ‘governo a termine’, pronunciata dal supremo monitore nei giardini del Quirinale. Si trattava evidentemente di uno sconfinamento del tutto arbitrario del capo dello Stato dalle sue funzioni, ma ‘quasi’ nessuno obiettò qualcosa, poiché – grazie ai giureconsulti di palazzo che tutto ingoiano in cambio di un gettone di presenza in qualche commissione – la Costituzione, come dice Camilleri, è bella che andata in vacca”.
Stefano Rodotà su La Repubblica ammonisce sul rischio di “manipolazioni istituzionali”, ricorda che all’indomani della riforma elettorale del 1993 politici e politologi sostenevano che “l’instaurato bipolarismo, con l’alternanza del governo, avrebbe assicurato assoluta stabilità governativa”. E tutto questo avveniva “in un clima che svalutava la funzione rappresentativa delle Camere”. Venendo ai nostri giorni, Rodotà critica il modo in cui si è voluto strutturare il processo di riforma: si è abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 per la revisione costituzionale, norma di garanzia che dovrebbe sempre essere tenuta ferma proprio per evitare che la Costituzione possa essere cambiata per esigenze congiunturali e strumentali. Compaiono nuovi soggetti – una super-commissione parlamentare e una incredibile e pletorica commissione di esperti, con componenti a pieno titolo e ‘relatori’. Il Parlamento viene ritenuto inidoneo per affrontare il tema della riforma e così, consapevoli o meno, si è imboccata una strada tortuosa che finisce con il configurare una sorta di ‘potere costituente’ del tutto estraneo alla logica della revisione costituzionale, concepita e regolata come parte del sistema ‘costituito’”. Scrive ancora Rodotà parlando della “discontinuità” invocata sulla forma di governo: “Queste modifiche sono compatibili con l’articolo 139 della Costituzione, dove si stabilisce che ‘la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale’?”. Rodotà condivide l’opinione di Zagrebelsky, secondo cui l’introduzione del presidenzialismo nel nostro Paese si risolverebbe in una misura non democratica ma oligarchica, perché l’idea di un solo uomo al potere è lontana dall’idea di democrazia partecipativa iscritta nella nostra Costituzione. Per Rodotà esiste una “pulsione suicida” nell’allontanarsi dal modello di democrazia partecipativa manifestatosi su richiesta dei cittadini e per via del mutamento continuo dello scenario tecnologico: allontanarsene comporterebbe “delegittimazione ulteriore delle istituzioni”: “Una revisione condotta secondo la logica costituzionale, e non contro di essa, esige proprio la valorizzazione di tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella Costituzione, tirando un filo che va dai referendum alle petizioni alle proposte di legge di iniziativa popolare”.
Berlusconi
Silvio Berlusconi ha invitato a pranzo il direttore de Il Foglio Giuliano Ferrara ed ha quindi rilasciato una intervista al quotidiano. Dice Berlusconi: “Bisogna che il governo sappia con autorevolezza ingaggiare un braccio di ferro, senza strepiti ma con grande risoluzione, allo scopo di convincere i Paesi trainanti dell’Europa, e in particolare la Germania di Angela Merkel, che siamo di fronte a una alternativa secca… O si rimette in moto in forma decisamente espansiva il motore dell’economia, compreso quello finanziario legato alla moneta unica, uscendo dalla paralizzante enfatizzazione della crisi da debito pubblico, oppure le ragioni strategiche della solidarietà nella costruzione europea, dall’Unione bancaria a tutto il resto, si esauriscono e si illanguidiscono fino alla rottura dell’equilibrio attuale”. E prosegue: “Paesi del peso e della consistenza del nostro non possono accettare una situazione in cui fare impresa non è più conveniente, in cui bisogna delocalizzare o ristrutturare fino alla distruzione di ricchezza e lavoro in quantità inimmaginabili per l’immenso squilibrio creatosi nel mondo dei mercati aperti, a partire dai costi di produzione e dalla incredibile situazione del credito e della circolazione della moneta e degli impieghi.
Sul Corriere della Sera un articolo dà conto della risposta “stizzita” della Commissione europea alle critiche contenute in un rapporto del Fondo Monetario Internazionale sulla gestione della crisi greca. Ieri il portavoce del Commissario Olli Rehn ha replicato ai rilievi del Fondo, spiegando che “una ristrutturazione del debito (greco ndr) nel 2010 avrebbe comportato il rischio di un contagio sistemico”. Quanto alla incapacità di individuare riforme strutturali per la crescita, l’Ue risponde: “Siamo in disaccordo sul fatto che non siano stati compiuti sforzi sufficienti per identificare le riforme strutturali per favorire la crescita”.
Internazionale
Su La Repubblica si racconta come il quotidiano britannico Guardian con uno scoop, abbia rivelato, il 25 aprile, – ovvero dieci giorni dopo gli attacchi di Boston – che il giudice della Foreign Intelligence Surveillance Court Roger Vinson aveva firmato un ordine che impone a Verizon, il più grande gestore telefonico Usa, di consegnare alla Nsa (l’agenzia per la sicurezza nazionale) milioni di dati sulle telefonate di utenze americane (nella sezione business). Per La Repubblica si tratta di una “enorme pesca a strascico di informazioni sensibili”. Si spiega che vengono raccolti i numeri di entrata e uscita delle chiamate, sia nazionali che verso l’estero, i rispettivi identificativi, gli orari, la durata ma – come ripetono più volte le fonti di Washington – non i contenuti delle conversazioni. E’ pur vero, scrive ancora il quotidiano, che in presenza di anomalie l’FBI può chiedere di avere accesso alle registrazioni e ascoltare quel che viene detto. Ma non è noto se e in quanti casi sia stato dato il via libera, così come non si sa se la stessa procedura sia stata chiesta anche ad altri gestori telefonici. Il portavoce della Casa Bianca ha spiegato: “Noi dobbiamo utilizzare tutti gli strumenti utili per combattere il terrorismo. Esiste un consolidato regime legale che sovrintende all’uso da parte del governo dei poteri previsti nel Patriot Act e lo rende compatibile con la Costituzione”. “Regole severe che riflettono il desiderio del presidente di assicurare il giusto equilibrio tra la protezione della nostra sicurezza nazionale e le libertà civili”. Su La Stampa: “Barack come il ‘nemico’ Bush nella guerra al terrorismo. La continuità con il predecessore irrita la sinistra e le associazioni per i diritti civili”. Il quotidiano evidenzia che simili richieste alle compagnie telefoniche sono iniziate nel 2006, con l’Amministrazione Bush, quando l’intelligence decise di creare a fort Meade, nel Maryland, una cittadella di palazzine dove immagazzinare i big data raccolti con la sorveglianza elettronica delle comunicazioni sul territorio nazionale. Questa scelta della Casa Bianca fu adottata assieme a Robert Muller, direttore dell’FBI, che si insediò pochi giorni prima l’11 settembre 2001, e il cui mandato è terminato dopo dodici anni. Un retroscena dello stesso quotidiano scrive che per moltissimi anni il soprannome della NSA è stato “no such agency”, ovvero l’agenzia inesistente. E’ un colosso di fronte al quale anche la Cia impallidisce, in termini di risorse e personale, e con un peso in costante crescita, grazie all’avvento di Internet. Budget di 12 miliardi, 18 mila agenti. Il Corriere della Sera riferisce l’opinione secondo cui tutto è così da sette anni ed è tutto regolare, condivisa dai responsabili delle commissioni di controllo dei servizi segreti del congresso, ovvero la senatrice democratica Dianne Feinstein e il senatore repubblicano Saxby Chambliss: “C’è molta gente che cerca di colpire l’America, il terrorismo è una minaccia costante, è il motivo per cui l’FBI ha ormai diecimila agenti impegnati nella sorveglianza anti-terrorismo. Sono cose pensate per sventare gli attacchi prima che avvengano. La pensa così anche il presidente della commissione intelligence della Camera, Mike Rogers: “Negli ultimi anni questo programma è stato utilissimo per bloccare gli attacchi al nostro Paese. Lo sapevamo, è una cosa legale, di grande valore”.
Ieri, di ritorno da un viaggio nel Maghreb, il primo ministro Erdogan ha spiegato che dietro alla protesta ci sono “estremisti, alcuni anche coinvolti in atti di terrorismo”, riferendosi, secondo La Repubblica, all’attentato all’ambasciata Usa di febbraio. Erdogan ha detto che non rinuncerà al progetto di costruire un centro commerciale al parco Gezy, nel cuore di Istanbul.
Sullo stesso quotidiano segnaliamo peraltro che alle pagine che si dedicano all’incontro “La Repubblica delle idee” compare una intervista allo scrittore turco Pamuk, che torna a sottolineare come piazza Taksim, luogo della occupazione da parte del Movimento di contestazione, rappresenti un posto cruciale che “ha a che fare con i ricordi di dodici milioni di cittadini di Istanbul”. I giovani di Istanbul, dice Pamuk, non erano associati a un partito, ma esprimevano rabbia e frustrazione per la distruzione dei loro ricordi.
Sul Sole 24 Ore l’inviato Alberto Negri scrive che “la stella di Erdogan sembra offuscarsi”. Voleva essere il modello di esportazione della democrazia islamica in medio oriente, e si è trovato la rivolta in casa, scivolando in maniera brusca e anche maldestra dalla parte dei repressori, quasi alla stregua dei raiss spazzati via dalla primavera araba. Nell’AKP però, scrive Negri, “affiorano diverse correnti”, dai fedelissimi di Erdogan a quelli che fanno riferimento al movimento di Tetullah Gulen, il leader musulmano residente negli Usa che sostiene una visione non estremista e intrattiene ottimi rapporti con ebrei e cristiani. Lo stesso presidente Gul potrebbe aspirare ad una riconferma, in occasione delle presidenziali.
Su L’Unità Michele Di Salvo invita a tener conto delle differenze storiche, sociali, culturali tra i Paesi del mondo arabo coinvolti dalle rivolte, e la Turchia: “Sembra quasi che la comunicazione, soprattutto in rete, sia più orientata a legittimare una protesta verso l’occidente, ovvero sia strutturata per dare all’osservatore esterno quello che lui desidera accada. Usare hashtag come #occupygezy è un modo per far rientrare quella protesta nel contesto dei vari occupy occidentali, quasi metterci un timbro, un marchio, che in qualche modo implichi simpatia, vicinanza, appartenenza.
Su Il Foglio, attenzione per il movimento sciita libanese Hezbollah. “I jihadisti sciiti sono la novità del conflitto siriano. Ne sono arrivati almeno il doppio rispetto ai jihadisti sunniti” è il titolo di un’analisi di Daniele Raineri, dove si spiega come per la prima volta nello sciismo c’è una chiamata alle armi internazionale per combattere una guerra in terra straniera. Si riferisce quindi l’opinione dell’autore de ‘La rivincita sciita’ Vali Nasr che qualche giorno fa un’analisi su Bloomberg Businessweek ha fatto osservare come la ribellione in Siria offrisse la possibilità di una “sconfitta strategica dell’Ira”, che sarebbe stato indebolito dal collasso del regime di Assad, suo unico alleato arabo e legame vitale con Hezbollah in Libano. Ma “non sta andando così”, commenta Raineri: gli eventi in Siria stanno girando a favore di Aassd, in una guerra che – come scrive Vali Nasr- “ridefinirà tutti i rapporti di forza in Medio Oriente”, a beneficio degli alleati del governo di Damasco, Iran e Russia, che di fatto hanno formato un consorzio militare per tenere il presidente siriano al suo posto.
Sullo stesso quotidiano, un editoriale sottolinea come Hezbollah abbia vinto “anche in Europa”. Ci si riferisce alla proposta di inserire il movimento nella lista delle organizzazioni terroristiche, su cui si dividono le cancellerie europee. Ora il cambio di governo in Bulgaria ha impresso una svolta: il nuovo ministro degli Esteri di Sofia, Kristian Vegenin, esponente del nuovo esecutivo socialista, ha cambiato linea rispetto al suo precedessore sulle responsabilità di Hezbollah nell’attentato che nel luglio del 2012 colpì il pullman di una comitiva di turisti israeliani nella città bulgara di Burgas. Le prove sul coinvolgimento di Hezbollah, ha detto Vigenin, “non sono categoriche”.