La Repubblica: “Pd, sfida a Renzi: ‘Intesa sul lavoro o referendum’”, “Dissidenti all’attacco, ma il premier: io cambio”, “Bersani: rispettaci, come Berlusconi e Verdini”, “L’ex Cavaliere ai suoi: pronto alle larghe intese”.
A centro pagina, con foto dal viaggio di Papa Bergoglio in Albania: “Le lacrime di Papa Francesco: ‘Non uccidente nel nome di Dio’”.
A destra, la “copertina”: “Il Truman show della Russia di Putin”, di Timothy Garton Ash e Nicola Lombardozzi.
In taglio basso: “Così i vitalizi d’oro sbancano le Regioni”, “Agli ex consiglieri 170 milioni l’anno”.
La Stampa: “Lavoro, resa dei conti nel Pd. La minoranza: un referendum”, “Renzi sfida l’opposizione interna: ‘Cascate male’”.
A centro pagina, foto della marcia di ieri a New York contro il riscaldamento globale: “New York e la grande marcia per il clima”, “Domani summit all’Onu. Il sindaco De Blasio: ridurremo a nostre spese i gas serra dell’80%”.
Sotto la testata, con foto del direttore d’orchestra Riccardo Muti: “Burocrazia e sindacati, l’atto d’accusa di Muti: ‘Lascio l’Opera di Roma’”.
In apertura a sinistra, il viaggio in Albania del Papa: “Papa Francesco: ‘Un sacrilegio uccidere in nome di Dio’”.
E un intervento dello scrittore israeliano Abraham Yehoshua: “Uno Stato per due popoli non funzionerà”.
A destra, “il futuro dell’Eni”: “Descalzi archivia l’era Scaroni”, di Francesco Manacorda.
Il Corriere della Sera: “Chi licenzia perde gli incentivi. Ecco la riforma del lavoro senza articolo 18. Bersani attacca il premier”. “Solo due tipi di contratto e indennità di disoccupazione”. Un “retroscena” è dedicato a “Renzi” e alla “trincea dei ‘giapponesi'”, mentre Dario Di Vico si sofferma sui “modelli europei” ed avanza “qualche dubbio”.
A centro pagina, il G20 australiano: “Il messaggio degli Usa. ‘Non aiuta la crescita’. La fortezza tedesca finisce sotto accusa”.
Il Sole 24 Ore: “Tasi, incognita da 100 mila aliquote. Il labirinto del prelievo negli oltre 100 mila Comuni che hanno deliberato in tempo per i pagamenti di ottobre. Dall’incrocio tra il nuovo tributo e l’Imu 200 mila variabili nei calcoli”.
A centro pagina: “Liti sul lavoro in cerca di una intesa. Più di 60 mila nuove controversie ogni anno nelle sole Direzioni provinciali”. “Spazio alla negoziazione assistita con l’accordo degli avvocati”.
Il Fatto, con foto a centro pagina di un negozio chiuso: “Chiudo bottega”, “Da Torino a Napoli, viaggio nell’Italia che abbassa la saracinesca, mentre gli affari calano del 5-8 per cento e altri 14 mila negozi cessano l’attività (oltre il 40 per cento di quelli avviati nel 2010).
Sulla politica italiana: “Bersani si è rotto: ‘Renzi tratta B. meglio di noi’”.
E un’intervista a Luigi Bisignani , che replica al nuovo ad di Eni: “Quell’ingrato di Descalzi, voleva aiuto e ora piange”, “Il lobbysta Bisignani smentisce il numero uno dell’Eni: ‘Deve tutto a Scaroni e lo molla’”.
In taglio basso, le nomine alla Corte costituzionale, su cui forse si tornerà a votare da martedì: “Violante, uomo per tutte le poltrone”, “Alla Consulta serve un vero giurista. E non di partito”, di Ferruccio Sansa.
Il Giornale: “Basta con l’Italia dei sindacati. Il maestro Muti si autolicenzia”, a proposito della decisione del maestro di lasciare il Teatro di Roma: “Impossibile lavorare”.
E poi: “Sulla riforma del lavoro Renzi tiene duro: ‘Questi cascano male’. Ma il Pd resta spaccato”.
A centro pagina il ritorno in una manifestazione pubblica – a Sirmione – di Silvio Berlusconi: “E Berlusconi torna tra la sua gente”. “Il leader rilancia Forza Italia: avanti giovani, io la bandiera”.
Articolo 18
La Repubblica, pagina 2: “Nuovo affondo di Renzi contro la minoranza Pd, ‘Cascate male, io cambio'”. Il “retroscena” di Goffredo De Marchis: “Ma la sinistra sfida il segretario: ‘Trattiamo o l’arma finale sarà il referendum nel partito'”.
Spiega il quotidiano che gli iscritti del Partito Democratico potrebbero essere chiamati a pronunciarsi sull’abolizione del reintegro in caso di licenziamento previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: l’appiglio è il numero 27 dello Statuto del Pd, ovvero la consultazione vincolante dei tesserati su temi di grande rilevanza. La possono chiedere il segretario, la direzione a maggioranza, il 30 per cento dei delegati dell’assemblea nazionale oppure il 5 per cento degli iscritti.
La Stampa: “La minoranza Pd: pronti al referendum”, “L’avvertimento a Renzi: sul Jobs Act parola agli iscritti. Il premier: cascate male, non faccio la foglia di fico”. E si riferiscono le parole di Alfredo D’Attorre, parlamentare Pd e braccio destro dell’ex segretario Bersani: “Se Renzi non sente ragioni faremo un referendum tra gli iscritti e lo vinceremo”. O quelle di Gianni Cuperlo: “Basta con le provocazioni e gli ultimatum. La delega sul lavoro è ancora troppo vaga”, “non possiamo accettare una discussione strumentalizzata per dividere il Pd tra innovatori e conservatori o minacciare decreti”.
La vice segretaria Debora Serracchiani, intervistata da La Repubblica, dice: “Non siamo una ditta né una bocciofila, qui le decisioni si devono rispettare”. Afferma: “Siamo determinati ad andare fino in fondo”. A qualunque prezzo? “Non possiamo più perdere tempo. Alla minoranza, ad alcuni della vecchia guardia dico che non possono frenare quei cambiamenti che avrebbero voluto fare e non ci sono riusciti e ora non va bene perché è Renzi a farli”.
In prima pagina, Ilvo Diamanti scrive che il disegno di legge sul lavoro approvato nei giorni scorsi in commissione al Senato “rispetta una priorità del governo”. Ma “l’ipotesi di superare l’articolo 18, in particolare, risponde ad un obbiettivo politico – prima ancora che economico – di Matteo Renzi. Costruire il suo partito. Post-ideologico e post-berlusconiano. Il PPR oppure il PdR. Che vada oltre. Il dibattito sull’articolo 18, infatti, ha ri-evocato e ri-sollevato antichi steccati. Fra la sinistra e il resto del mondo. Anche se l’art. 18, nella realtà, ormai, è poco utilizzato. Gran parte delle vertenze aziendali aperte su questa base si conclude con un accordo fra le parti. Senza considera che il segno di questa norma è, quantomeno, ambiguo e ambivalente. Perché esclude ampi settori del mercato del lavoro. Peraltro, i più deboli: gli occupati delle piccole imprese, i precari e gli intermittenti. I giovani”.
La Stampa intervista il vicesegretario Pd Lorenzo Guerini: “Non si usi il lavoro per cambiare i rapporti all’interno del partito”. Sulla minaccia di un referendum tra gli iscritti risponde: “Mi permetto di far notare che ho preso parte a molte assemblee di partito in varie regioni e il sentimento prevalente è quello del cambiamento”. E precisa che sul lavoro “non ci serve Forza Italia, la maggioranza ce la farà da sola”.
Su La Stampa si fa anche notare però che per ottenere la “universalità” delle tutele vanno reperite ulteriori risorse.
La Repubblica intervista il responsabile Economia del Pd, Filippo Taddei: “Io mi rifiuto di concentrare la discussione sull’articolo 18 quando l’obiettivo è estendere le tutele a chi oggi non ha nulla”, dice. Ma per il sussidio di disoccupazione universale servono risorse, come pensate di reperirle? “Per rendere universale il sussidio il costo si aggira intorno a 1-2 miliardi aggiuntivi rispetto alle spese attuali”. Dove troverete questi soldi? “Nella legge di Stabilità da 20 miliardi che è l’altro pilastro della politica economica di quest’autunno”.
Il Fatto: “Bersani all’attacco”, “Renzi tratta meglio Berlusconi e Verdini”. E il quotidiano intervista Stefano Fassina, che dice, del premier-segretario: “Così ci porta tutti dritti al voto”. L’emendamento del governo “toglie diritti ad alcuni senza migliorare la posizione di tutti gli altri. La legge delega non prevede il disboscamento della giungla di contratti precari, se non in modo eventuale. C’è la possibilità del demansionamento dei lavoratori. Senza dimenticare la riforma degli ammortizzatori sociali: nella legge c’è scritto che deve avvenire a risorse invariate. Significa redistribuire soldi già insufficienti a una platea molto più larga”.
Sul Corriere della Sera, una intervista a Guglielmo Epifani che dice che le voci di scissione nel Pd “sono una sciocchezza, roba inesistente. Ma non giova a nessuno accentuare lo scontro e sarebbe un errore gravissimo non trovare un’intesa sul Jobs act”. Epifani ammette che serve una riforma del mercato del lavoro, che sia “più inclusivo”, e bisogna cominciare “dagli ammortizzatori sociali, che devono arrivare a coprire in maniera non occasionale le persone che hanno contratti di lavoro precario. Diritti che vanno estesi a maternità e salute”. Dice anche che “la via maestra è quella del contratto di lavoro a garanzie crescenti, una proposta lanciata da Boeri tanti anni fa e ripresa da Damiano e Madia. Ha il pregio, se si riducessero i contratti a quattro o cinque tipologie, e su questo la delega non è chiara, di semplificare le modalità di assunzione”. Superati i tre anni il reintegro dovrebbe rimanere, “magari affinandolo”.
Ancora sul Corriere Enrico Marro spiega “quello che ha in mente” il governo: una “riforma di sistema che cambierebbe le coordinate del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali”, una riforma in cui l’abolizione dell’articolo 18 è “solo uno dei tasselli”, anche se “fondamentale per rendere appetibile il nuovo contratto di lavoro ‘a tutele crescenti’, rilanciato qualche giorno fa con l’emendamento governo-maggioranza e fulcro del nuovo sistema”. L’obiettivo è avere solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. In quello dipendente c’è il tempo determinato e quello indeterminato a tutele crescenti, che dovrebbe essere – nelle ambizioni dell’esecutivo – la forma più diffusa, attraverso “uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine”. E se al termine del periodo di “tutele crescenti” l’azienda licenziasse, “dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più”. Si cancellerebbero i contratti a progetto e “le altre forme di precariato”. Ovviamente “il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge” e dunque resterebbe un nucleo – circa 6 milioni di persone – con l’articolo 18. Un bacino che “anno dopo anno” si restringerebbe. Nel nuovo sistema il reintegro resterebbe solo per i licenziamenti discriminatori (per fede religiosa, politica, sindacale, razza eccetera), “mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro)”. Il nodo riguarda cosa accade passata la prima fase del contratto: “La sinistra Pd e sindacale vogliono che, passati tre anni, torni la protezione dell’articolo 18 mentre il Nuovo centrodestra no e insiste per il solo indennizzo crescente. Il resto del Pd si divide tra quest’ultima ipotesi e quella di prevedere l’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (6-12-15) o una certa età del lavoratore”. Altro tassello della riforma è l’Aspi estesa a tutti – anche agli attuali lavoratori a progetto. Costerebbe circa un miliardo e mezzo, oltre alle risorse già destinate oggi, e avrebbe un tetto e una durata massima. Sparirebbero Cig e mobilità. Resterebbe solo la cig ordinaria per momentanei cali di produzione e quella straordinaria per ristrutturazioni aziendali, che però potrebbe essere attivata solo dopo aver attuato riduzioni dell’orario.
Il Giornale si sofferma sulle scelte di Forza Italia, tentata dal votare sì alla delega sul lavoro “per spaccare il Pd” e lavorare poi ad un governo “di larghe intese”. La strategia sarebbe stata pensata “nella stanza dei bottoni azzurra” e mirerebbe a far spaccare il Pd per poi “essere decisivi” nel voto sul Jobs Act.
Il Capitale di Piketty e la sinistra europea
La Repubblica intervista l’economista francese Thomas Piketty, autore dell’ormai bestseller “Il capitale nel XXI secolo”: “Basta con la dittatura del debito, ma non si salva l’Europa con gli slogan”, dice. E spiega: “Mi fa paura l’assenza di proposte che colgo in Hollande e Renzi. Non si può dire solo meno austerità, più investimenti”, Italia e Francia dovrebbero mettere sul tavolo “un progetto di unione politica. A quel punto anche i tedeschi sarebbero in difficoltà”.E aggiunge: “penso a un Parlamento dell’eurozona con un solo ministro delle Finanze e un bilancio unico”, “Draghi ha fatto molto, ma ha dei limiti oggettivi. Servirebbe un fondo per emettere eurobond”.
Di Hollande(e della svolta riformista che impressero Blair e Schroeder) parla Pierluigi Battista, riferendosi alla sinistra italiana e francese, “segnata dalle sue tradizioni politiche e sindacali, arroccata nelle sue fortezze ideologiche”. I due Paesi oggi “sono nuovamente di fronte a una biforcazione fatale: mettersi in gioco fino a sfidare tabù consolidati e apparentemente invincibili, oppure ripiegare su un minimalismo di compromesso che forse potrebbe salvare ‘l’anima’ della sinistra antica ma farebbe fallire per l’ennesima volta l’ambizione di una sinistra moderna e non più prigioniera dei suoi schemi”.
Papa in Albania
Due pagine de La Repubblica sono dedicate al viaggio del Papa in Albania: “Francesco in Albania, un grido contro i jihadisti, ‘È un sacrilegio uccidere in nome di Dio'”, “Festa a Tirana, migliaia di musulmani tra la folla in piazza. Il pianto del Pontefice per il prete torturato dai comunisti”.
Su La Stampa, la storia di questo personaggio: “Le lacrime e l’abbraccio al prete sopravvissuto al comunismo”, “Padre Ernest: io torturato per aver celebrato una messa per Kennedy”. Padre Ernest Simoni venne arrestato dalla polizia comunista nel 1963. Liberato solo nel 1990, dopo una vita ai lavori forzati: “Mi dissero: tu sarai impiccato come nemico perché hai detto al popolo che moriremo tutti per Cristo se è necessario”. Lo hanno torturato, accusato di aver detto una messa in suffragio dell’anima del presidente Kennedy.
E poi
Sui quotidiani si parla anche della situazione in Afghanistan.
Per Il Giornale: ” Kabul, una poltrona per due. Il presidente non basta, c’è l’amministratore delegato”. “Per evitare la guerra civile il neoeletto Ghani viene ‘affiancato’ da Abdullah”, scrive Fausto Biloslavo. Sul Corriere: “Intesa tra i candidati rivali. Ghani è il nuovo Presidente”.
Riccardo Muti lascia l’Opera di Roma, anche a causa delle “continue proteste” all’interno dell’Orchestra, come scrive il Corriere, che dà conto di una lettera dell’artista al sovrintendente Carlo Fuortes in cui comunica l’intenzione di rinunciare ai suoi impegni nel teatro per la prossima stagione, l’Aida inaugurale del 27 novembre e Le nozze di Figaro, a causa del ‘perdurare delle problematiche emerse durante gli ultimi tempi’”. “È la seconda volta, dopo Sinopoli, che un direttore di fama, dopo averci lavorato per un breve arco di tempo (l’arrivo di Muti fu anticipato dal Corriere nel luglio 2011), abbandona il teatro romano, che non è esattamente di prima fascia nel rating internazionale. In un altro passaggio della lettera, fa capire che la sua decisione, pur presa ‘con grandissimo dispiacere, dopo lunghi e tormentati pensieri’, è categorica e irremovibile, secondo il suo temperamento”.