Come tutti i libri di memorialistica, scritti – senza appunti – sul filo dei ricordi, delle suggestioni, delle emozioni, per lo più frutto di una vita ricca e piena di esperienze, incontri, conoscenze intese come saperi, rischi di perderti in un labirinto di dettagli. Tanto da rischiare di farti sfuggire quasi la trama, la sintesi della storia stessa. Non il senso, però. Cioè il suo profumo, il sapore di una vita. Che ti resta appiccicato addosso.
E il senso è, di fatto, esattamente tutto Contromano, come recita il titolo del resto, o controcorrente se lo preferite, cioè di una vita percorsa in controtendenza. Quasi al contrario di quello che avrebbe dovuto – forse – dettargli la ragione o la ragionevolezza, il buon senso se così si può dire, o l’opportunità, che però se non ben gestita può rischiare di sfociare nell’opportunismo. Perché mentre la Storia, quella ufficiale, fatta soprattutto dagli altri e quasi sempre indipendente dalle nostre volontà, seguiva il suo ineluttabile corso, il protagonista del libro andava da tutt’altra parte, anche nel tentativo di modificarlo. Almeno rispetto al suo status, sociale, culturale, familiare e dunque anche politico di provenienza.
Il protagonista è Marco Calamai, classe 1940, padre italiano, capitano di vascello, sempre imbarcato, sempre fuori casa, scomparso in mare prematuramente, madre spagnola, molto conservatrice, molto religiosa – baricentro della famiglia e dell’educazione dei figli – con quel senso della religiosità che c’è stato sotto il franchismo. Ma anche con uno spirito spigliato, internazionale, di chi ha vissuto l’America di New York, aperta, cosmopolita, multilingue. «Personaggio piuttosto contraddittorio lei» dice Marco, che è intriso della sua doppia nazionalità italo-spagnola, che adatta alla perfezione – a seconda del Paese in cui si trova – ma che vive anche come scontro tra identità culturali diverse e che però tendono sempre a prevalere (o l’una o l’altra) e soffocarsi anche «una con l’altra» a seconda del luogo. Schizofrenia “biculturale”, che però gli apre anche la testa a valori diversi, che lo porteranno anche a lavorare per le Nazioni Unite e a occuparsi di tematiche e lavoro internazionale per la Cgil.
Lui è un figlio politico di Bruno Trentin, il signore del sindacalismo italiano, padre nobile dei metalmeccanici da subito (o da sempre) ancor prima di un regolare cursus honorum, quasi un blasone, e che quando Marco Calamai entra all’Ibm gli offre la possibilità di fare il dirigente sindacale della Fiom «proprio nel momento stesso in cui scoppia il ‘68», epopea delle epopee per una generazione di studenti e lavoratori, da quel momento uguali e uniti ad ogni latitudine del Pianeta. «Un’esperienza che mi cambia la vita radicalmente».
Ma la dominante del libro è, soprattutto, il franchismo, blocco condizionante, essenza e stile di un regime che opprime la parte centrale del Novecento spagnolo ma anche europeo come una sorta di tappo alla democrazia, che ne frena l’evoluzione e non di un solo Paese, ma di fatto di un intero bacino. Spettro sulla soglia di casa, proprio al di là della porta, con tutte le sue conseguenze politiche, culturali e anche psicologiche. Specie per il protagonista del libro, che alla fin fine non fa che raccontare la storia di una “insicurezza personale”, la propria, dentro un’educazione spagnola “nazional-familiare” nel tentativo di contrapporsi a quel grumo di valori consolidati, ideali, culturali in formato “regime” in uno sfondo apertamente e decisamente psicanalitico: «La mia è una contrapposizione continua al bisogno di un altrettanto rigido e forte insieme di valori e di riferimenti ideali – ci spiega l’autore nel corso di una lunga conversazione telefonica – quasi il passaggio da un fortino all’altro, ciò che spiega anche la mia evoluzione verso il comunismo anche, e non solo, attraverso questo tipo di dinamica psicologica che più tardi poi affronto con la psicanalisi».
Il franchismo, del resto, occupa i trentasei anni centrali del “secolo breve”, una parte temporale sia del fascismo quale ideologia sia – per opposto – del comunismo: «Il franchismo – ci spiega Calamai – io lo considero come la risposta della destra alle istanze della Repubblica, lo considero anche come l’ultima fase di un lungo periodo storico spagnolo dominato essenzialmente dal “nazional-cattolicesimo”, da un’ideologia religiosa di tipo fondamentalista quale ultima fase del fondamentalismo cattolico, che offre un collante e dà sostanza alla destra spagnola». «Quando il fascismo vince – aggiunge ancora Calamai –, sta iniziando la Guerra mondiale e Franco immediatamente già nel ’42-’43, come racconto nel libro, si sposta da posizioni filoitaliane, cioè filofasciste, filonaziste, su posizioni filo-alleati, filo-angloamericane, per garantirsi la continuità del regime. Quindi l’ideologia che domina non è più quella tipica del fascismo europeo, che inizialmente aveva in qualche modo condizionato Franco e i suoi, ma diventa dominante l’elemento religioso che implica anche un concetto di unità della Patria. In questo modo il caudillo fa leva sui sentimenti profondi della spagna, sugli errori anche della guerra civile, – costellata di errori e di esagerazioni da parte delle forze repubblicane – ma soprattutto la Chiesa diventa il collante e la dominante del regime.
Non essendo più proponibile un’ideologia di tipo fascista, perché ormai dal ’43 la sconfitta del fascismo e del nazismo è evidente, Franco si attacca a questi valori della Chiesa. La quale ha appoggiato fin dal primo momento la guerra civile, salvo qualche eccezione, e s’afferra al regime per difendere la propria visione del mondo. In qualche modo lui recupera i valori dei cattolici della fine del ’400-inizi del ‘500». Che poi è esattamente la cultura della madre.
Infine, c’è l’esperienza italiana delle lotte sindacali e dei Consigli operai, che s’intreccia con quella spagnola delle “comisiones obreras”: «L’idea dei Consigli, per altro, non era un’idea accettata neanche dal gruppo dirigente del Pci. Era un processo utopico, che partiva da Gramsci e che Trentin recupera adattandolo ovviamente alle esigenze nuove. Un progetto eretico e totale, che si confaceva perfettamente alle mie esigenze non solo culturali, ma anche mental-psicologiche».
In fondo Calamai abbraccia tutta l’esperienza che si svolge alla sinistra del Pci, e che va da Ingrao al manifesto, esperienza molto radicale di una sinistra critica, eterodossa e che non crede al mito dell’Unione Sovietica, ma che anzi lo critica da tempi lontani, almeno dal 20 agosto 1968 quando i carri armati dell’Urss invadono Praga. Dice Calamai: «Non è che si volesse rifare l’esperienza dei Consigli operai della Torino del ’19-’21 – del cosiddetto biennio rosso – però c’era in fondo l’illusione che si potesse riproporre la democrazia operaia puntando al controllo della produzione. I Consigli di fabbrica nascono proprio sul presupposto che si potessero controllare la vita della fabbrica nei ritmi, nella produttività, nelle qualifiche e persino nella distribuzione salariale. E questo è e rimane un capitolo aperto sul quale non si è approfonditamente discusso in Italia, s’è solo rimosso il capitolo».
L’ultimo, invece, di questa cavalcata nella memoria del Novecento, a partire dagli anni Cinquanta, ha un titolo amaro: Fine di un’illusione, vista più come la parentesi di una vita molto intensa , interessante e importante che come sconfitta storica, individuale e collettiva, di una generazione, vera e propria Un cambio di clima, che è anche cambio di ritmi, prospettive, orizzonti, in un’altra dimensione esperienziale ed esistenziale. Che avviene anche sulla base di un incontro importante, quello tra l’autore con Ignacio Matte Blanco, uno psicanalista di origine cilena molto apprezzato sul piano internazionale, al quale Calamai si rivolge mettendogli tra le mani, e affidandogliela, la sua “situazione emotiva”.
Un incontro da cui nasce un’esperienza analitica intensa «per fare i conti con le mie insicurezze» personali, che hanno come spesso accade, e accennato più sopra, un’origine nel vissuto della propria famiglia d’origine. Scrive in proposito l’autore a chiusura del libro: «Sono convinto che la psicoanalisi mi abbia aiutato. Mi è servita a capire che la propria identità non va cercata nella protezione di una struttura autoreferenziale che vorrebbe imporre ai propri seguaci la ricetta giusta per risolvere i grandi problemi del mondo. Che potevo allontanarmi dal fortino nel quale mi ero barricato per anni senza rotture laceranti, sempre legato all’odio verso coloro che ci hanno deluso e dai quali in qualche modo ci sentiamo traditi. Che potevo chiudere un capitolo fondamentale della mia vita senza rinnegare il mio passato, del quale portavo con me le ombre e anche le luci».
Cosa resta? Il ricordo. L’esperienza. I sogni. Una vita vissuta. La storia e la sua memoria. Da tramandare. Come si può, più che si può. Non a caso Calamai dedica il libro a due giovani nipoti, Lupo e Orso, eredi dei suoi ricordi. Confida a noi l’autore: «C’è sempre il rischio di un’alterazione della memoria. I nostri figli non possono capire qualcosa di noi se noi in qualche modo non gli raccontiamo le nostre esperienze vitali, politiche, psicologiche, culturali. Attraverso i miei nipoti, che sono piccoli, mi rendo conto che se non facciamo proprio noi, come generazione, un tentativo di raccontare e comunicare quel che c’è stato, difficilmente capiranno chi siamo noi.Che non significa sperare che questi ragazzi abbiano valori identici a quelli che abbiamo avuto noi come generazione, ma noi abbiamo vissuto un periodo straordinario ma anche drammatico. Il “secolo breve” è stato un secolo terribile, che cavolo possono capire, al di là dei libri di storia e di scuola, di tutto questo?».
Non a caso il libro si apre con la citazione di una frase di Milan Kundera: «La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio». Un incitamento che vale un epitaffio.
Titolo: Contromano
Autore: Marco Calamai
Editore: Ediesse
Pagine: 284
Prezzo: 15 €
Anno di pubblicazione: 2013