Societing, le nuove frontiere dell’innovazione sociale

L’«innovazione sociale» è in certo senso quello che sta già accadendo: le cose cambiano, la recessione modifica i consumi, si va di più al super-discount, si comprano le scarpe negli outlet e di meno nei negozi. O non si comprano per niente, quest’anno. Con la recessione più bici e meno auto, oppure si coordina alla meglio il viaggio con altri, car-pooling. Se diventa sistema brevettato allora è car-sharing. Qui la pratica ha fatto un salto con una invenzione, come fu una grande invenzione l’asilo-nido, il kindergarten: intuizione di Robert Owen e Friedrich Froebel di metà ottocento. Intelligenza sociale applicata al problema delle madri in fabbrica. Si tratta di idee che risolvono problemi e – importante – creano posti di lavoro, e dunque aziende e se possibile anche margini di profitto. La «social innovation» è anche il gergo di una serie di discipline – dall’economia all’informatica, dal marketing al design alla comunicazione – che cercano di farsi strada nello spazio, vasto e crescente, che c’è fra il crearsi di problemi nella vita collettiva e l’incapacità dello Stato di risolverli.

La raccolta di saggi, in italiano nonostante il titolo, Societing Reloaded, a cura di Adam Arvidsson e Alex Giordano propone numerosi autori che si riconoscono dietro questa etichetta, coniata da Giampaolo Fabris, che mescola marketing e sociologia in un proposito di radicale rinnovamento: il progetto intende dare a un tema tradizionalmente nord-europeo una impronta latina e mediterranea, ispirandosi al pensiero meridiano di Franco Cassano, all’insegna di una visione del consumo improntato ai concetti di «autenticità, dieta, lentezza e misura». L’ago della bussola del «societing» è orientato verso una situazione ideale, quasi una utopia: un mondo dove ogni volta che si genera un problema sociale si creano le condizioni perché esso trovi una soluzione non attraverso un intervento pubblico – lo Stato è giunto al limite della sua capacità di azione e di prelievo fiscale – ma attraverso l’intervento delle imprese nel mercato e attraverso l’azione dei consumatori che con le loro decisioni modificano il mercato. Arvidsson e Giordano immaginano un mutamento accelerato sia delle imprese che delle «tribù» dei consumatori, in un processo che coinvolge il volontariato e la sua «imprenditorializzazione».

La chiave del societing sta qui. E non é un caso che l’innovazione sociale abbia le sue più note manifestazioni in aree in cui il welfare ha subito i colpi peggiori (l’Inghilterra post-Thatcher e post-Blair) o non si è neppure presentato in scena a causa della povertà (il Bangladesh del Nobel Mohammed Yunus), mentre ha una vita meno brillante dove lo Stato sociale ha provveduto, fino a poco fa, a far fronte alle emergenze con le sue strutture sanitarie, previdenziali, con la cassa integrazione e tutto il resto. Nasce insomma da uno stato di necessità. È nel Regno Unito che si sono sviluppate le più fiorenti iniziative della social innovation, la Young Foundation, la Nesta, la Skoll, che ha creato con l’Università di Oxford un centro per la formazione di imprenditori sociali. Questi centri di iniziativa si occupano di tutto lo spettro delle possibili innovazioni. Un esempio: l’invecchiamento della popolazione, con gli stessi avanzamenti della medicina, ha creato situazioni dai costi insostenibili, ha moltiplicato il bisogno di assistenza e creato situazioni di solitudine e isolamento che richiedono una svolta nel modo di concepire le abitazioni, di organizzare i soccorsi, il sostegno quotidiano, le tecnologie adeguate di comunicazione, di monitoraggio, di allarme. E queste svolte hanno bisogno di nuove imprese o di servizi e prodotti nuovi da imprese che si sappiano adattare al nuovo. L’idea di Yunus scaturisce dalla sua filosofia pratica: il microcredito è una charity che diventa business; un atto di benevolenza che diventa un affare e che consente di uscire dalla povertà; l’obiettivo è quello di introdurre l’impresa sociale, «l’anello mancante del capitalismo», l’azienda che non dà dividendi e non ha perdite, anche nella finanza.

Quella che il societing va cercando è la trasformazione di un circolo vizioso prodotto dalla lunga corsa neoliberale – ineguaglianze crescenti, imprese socialmente irresponsabili, bonus stellari ai tagliatori di teste, soluzioni individuali per fuggire dai problemi collettivi, barriere di protezione per ricchi – in un circolo virtuoso: sviluppo delle imprese di innovazione sociale, promozione della creatività e del talento attraverso incubatori, ascolto e rilancio delle spinte al cambiamento che vengono dai consumatori per scelte sostenibili, per l’uscita dall’isolamento, la messa in consorzio delle capacità creative come nella costruzione di software free e open source, ma anche nella produzione di contenuti di sapere gratuiti e resi accessibili a tutti, come nel modello Creative Commons, l’organizzazione non profit di Mountain View, con ramificazioni anche in Italia, che consente una forma di superamento legale e regolato dei diritti d’autore. Rientrano nella categoria del societing tutte le attività che riconoscono la natura «eminentemente relazionale della creazione del valore», con tutto ciò che esso comporta: il riconoscimento dell’altro, la produzione di beni nei quali la comunità si riconosce.

Nell’universo concettuale del societing, l’individuo come l’impresa divengono capaci di «reciprocità», di apertura verso l’altro, di fiducia (Anna Cossetta). Siamo agli antipodi del mondo di Gordon Gekko (quello del film di Oliver Stone «Wall Street»), quello in cui «l’avidità funziona, chiarifica, cattura… e salverà l’America».

Ma qualcuno chiederà, alzando la testa dalla lettura di questi saggi talentosi: di che cosa stiamo parlando? Di una aspirazione ideale? Di un bisogno urgente di cambiare rotta? O di una tendenza in atto e cioè di qualche cosa che sta accadendo. La risposta è incerta e forse inevitabilmente e creativamente confusa: un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Più che la quadratura di un cerchio ci troviamo davanti al compito di di ridefinire un poligono sgangherato, quello di economie che attraversano una pesante recessione, aggravano le iniquità, lasciano plaghe immense del pianeta nella povertà e consumano l’ambiente naturale. Nella realtà non sta trionfando spontaneamente la «responsabilità sociale»: diminuisce per esempio di Gran Bretagna la quota di prodotto lordo destinata al lavoro, mentre gli stipendi dei manager sono aumentati tra il 2010 e il 2011 del 50% (Barrett Stanboulian), mentre anche dall’Italia agli Stati Uniti le banche premiano con bonus milionari manager che hanno prodotto perdite o collassi. Un referendum in Svizzera – una forma di societing – ha imposto al Parlamento di limitare per legge questi onerosi «prelievi» a beneficio dei manager.

Eppure l’idea di un «connubio vincente» fra la logica del successo economico e i bisogni della società (che era nella filosofia di Adriano Olivetti, nume tutelare di questa linea di ricerca) dà segni di vita già nel presente: l’orizzonte del marketing è soggetto a una profonda trasformazione, il consumatore si presenta già come partner e committente dell’azienda, ne condiziona sempre di più le scelte, con le sue scelte. Le responsabilità sociale che l’azienda si assume incidono sempre di più sull’immagine e sulle sorti della marca-impresa. Non tenerne conto può produrre danni gravi quasi quanto mettere in circolazione un prodotto avvelenato.

Le discipline di ricerca che vanno sotto il nome di societing sono in una fase che il biologo E. O. Wilson chiama di consilience, e cioè di confluenza di tanti diversi saperi in modo non del tutto programmato: si confida nel fatto che la eterogeneità possa produrre soluzioni inaspettate e geniali, attraverso improvvisi «cambi di paradigma». E al presente il più duro dei cambi di paradigma è quello che riguarda il salto necessario per uscire dallo schema dello Stato protettore, capace di fornire l’intera dotazione sociale, dalla pensione, al pronto soccorso, dall’assistenza domiciliare alla terapia intensiva fino a cento anni, per tutti e dovunque. Non stupisce che la ricerca sulla innovazione sociale sia meno conosciuta in Italia, dove stiamo ancora spremendo il paradigma della vecchia stagione.

Questo articolo è stato pubblicato anche da La Repubblica il 5 maggio 2013.

Titolo: Societing Reloaded

Autore: a cura di Adam Arvidsson e Alex Giordano

Editore: Egea

Pagine: 268

Prezzo: 25 €

Anno di pubblicazione: 2013



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