Si vede di tutto: terreni in cui sono state scavate fondamenta poi abbandonate, terreni su cui è ricresciuta l’erba, fino alle case finite, abitate. Case la cui costruzione è stata abbandonata al secondo piano, i pavimenti allo scoperto, le finestre sul vuoto, le pietre senza rivestimento. Case con il tetto ma simili a gabbie vuote, con pavimenti e finestre non rifiniti. Case terminate ma dalle persiane chiuse, completamente disabitate. Case abitate solo da una parte, il resto chiuso. Case infine completamente abitate, case superbe ma abitate dal popolino, la sporcizia che deborda dalle finestre, stracci che pendono dai balconcini scolpiti, puzza e miseria, donne spettinate, a malapena ricoperte da uno scialletto sporco, alle finestre. Tutta questa gente paga appena l’affitto. Mi dicono che alcuni si sono perfino installati in queste case come per diritto di conquista. Sono entrati e ce li hanno lasciati. E questi quartieri si trovano ovunque a Roma, ai Prati di Castello, sotto il Gianicolo, sui terreni di villa Ludovisi, fuori porta Pia, a San Lorenzo, vicino al Campo Verano, lungo la stazione, sul Viminale e l’Esquilino, e anche altrove, vicino al monte Testaccio.
Siamo nel 1894, ai tempi del primo crack immobiliare, e Zola perlustra Roma per disegnare lo scenario di un suo nuovo romanzo che avrà per titolo proprio il nome della città, e questa descrizione, pubblicata solo nel 1949, sembra tracciare il filo di un topos ricorrente nel giornalismo italiano, quello ripreso da Manlio Cancogni nel 1956 in una energica campagna condotta su L’Espresso contro la speculazione guidata dalla Società Generale Immobiliare con un titolo apodittico, “Capitale corrotta-nazione infetta”.
Di questo topos letterario, ricorrente con un ritmo carsico sul fluire continuo di un costume edilizio romano che sembra sempre in qualche misura corrotto, compare ora la sua manifestazione più attuale, il recente libro di Francesco Erbani – dove ogni capitolo, tessuto da tutte le interviste che corroborano un vero réportage, affonda la lama di una prosa molto elegante in parecchi bubboni cittadini – riporta accuratamente nella sua bibliografia i testi più noti e autorevoli.
E’ il succedersi delle scene di una commedia dell’arte dove compaiono ogni volta sempre le medesime maschere, gli Speculatori che comperano distese di aree agricole destinate a diventare in seguito fabbricabili (la citazione d’obbligo è il film di Rosi, Le mani sulla città, ma mai nessuno a ricordare quel film tenero di de Sica sulla controfaccia della domanda di casa, Il tetto, sugli schermi nel medesimo 1956), compaiono Amministratori conniventi, soprattutto di destra, e Amministratori soltanto inadeguati, quelli di sinistra, compaiono gli Eroi che le forze del male combattono sul campo – qualche Uomo politico consapevole e beninteso i Numi Tutelari dei Buoni Principi – quasi sempre con esiti incerti, compaiono gli Azzeccagarbugli che trasformano il diavolo in acquasanta, e poi cala il sipario per la prossima scena.
Ma questa commedia ha anche un severo fondo morale, perché rappresenta il secolare scontro tra il Bene e il Male, e se il Male è più facile da cogliere perché è appunto il tema delle singole scene dove combattono i Paladini, del Bene cogliamo soprattutto quanto evocano in filigrana i suoi valorosi difensori caso per caso, anche se a guardar meglio – suggerisce il titolo stesso del libro – il Bene dovrebbe coincidere con la Città Pubblica e, simmetricamente, il Male con la Città Privata.
Senonché subito le cose vanno complicandosi perché non tutto quanto viene deciso nel nome del Pubblico – molte iniziative del Comune per esempio – sono buone, e d’altra parte non tutta la Città Privata coincide con il Male, ché, se molti speculatori sono diabolici, i compratori dei loro appartamenti, che in definitiva hanno anch’essi lucrato sulla loro crescita di valore, sono poi brave persone.
Della Città Pubblica, tuttavia, qualche profilo Erbani lo suggerisce: corrisponde ai principi della buona urbanistica, persegue l’interesse generale, soddisfa i bisogni collettivi e taglia le unghie agli speculatori edilizi.
Solo che qui le cose diventano più complicate, perché la buona urbanistica sembra un poco come l’araba fenice, che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa: sicché quella rappresentata dal faticoso piano regolatore di Campos Venuti – pure evocato tra i numi tutelari – sembra anche quella un colabrodo, infiltrata da “aree di riserva” che presto diventeranno edificabili e tessuta di 18 “nuove centralità” il cui destino concreto va rivelandosi all’atto pratico sempre meno convincente.
Il vero nocciolo del problema è quel che sembra il più scontato: quale sia e come venga certificato l’interesse generale, che molti ritengono interpretato da un ceto di saggi in grado di vederlo con chiarezza al di là delle umane e contingenti passioni, quegli stessi saggi che Platone voleva alla guida della sua Repubblica e che legittimano poi i regimi totalitari, quelli che conoscono il Vero Bene dei loro inconsapevoli e riottosi cittadini e che a quel Vero Bene li guidano conoscendo quali siano i Bisogni collettivi e in che consista il Diritto alla Città.
Ora, in un paese retto come il nostro da un ordinamento democratico, la nozione di un cosiffatto interesse generale non ha molta legittimità, perché il Bene comune è precisamente quanto deciso con le sue procedure, dove beninteso tutti gli attori della nostra commedia hanno il loro ruolo: sicché, se vogliamo, possiamo cercar di capire meglio perché le proposte di chi pretende di esserne gli autentici custodi hanno un esito modesto rispetto alle aspettative.
Questa disciplina urbanistica moderna è fondata sulla legge del 1942, una legge lungamente covata dal fascismo per legittimare la proibizione di costruire alcunché in alcune zone del territorio comunale, destinate a rimanere agricole, una legge che tentava di frenare davvero l’inurbamento dalle campagne che il regime – almeno in linea programmatica – avrebbe voluto contrastare.
Ma questa disposizione offerta dalla legge semina da allora nell’urbanistica moderna le tentazione di utilizzarla per discriminare il territorio contrastando quello che era stato per secoli il trend della crescita urbana, quella che da un giorno con l’altro diventerà la vituperata “macchia d’olio”: che ci starebbero a fare gli urbanisti se non fossero legittimati a decretare dove la città potrà ingrandirsi e dove invece dovranno rimanere intatti i terreni agricoli, la pastorizia dell’agro romano ma anche le marcite del milanese?
Così nasce una mostruosa ortopedia che, beninteso, non potrà avere successo perché il suo fondamento disciplinare, la pretesa di orientare la crescita di una città come possiamo fare con i piedini delle ragazze cinesi, non ha alcuna convincente giustificazione, risponde soltanto alla tentazione offerta agli esperti dalla legge del 1942.
Allo stesso modo la stessa legge prescrive che il territorio debba venire suddiviso in zone differenziate per le loro funzioni, e se le zone industriali non hanno poi più quella cogenza di un secolo fa – era una domanda nata alla fine dell’Ottocento a Francoforte per segregare la polluzione delle grandi fabbriche già negli anni Cinquanta del Novecento superflua – le zone residenziali vengono codificate nella forma di un aggregato di quartieri, o quanto meno di ampie unità residenziali, quasi autosufficienti, dotati di giardini e di attrezzature convenienti, forse oggi corredati anche delle “nuove centralità” previste dal recente piano regolatore, la cui realizzazione dovrebbe venire accompagnata da accordi con gli imprenditori edilizi – di solito privati, gli stessi speculatori di sempre – cui verranno tagliate le unghie chiedendo che la garantiscano a loro spese. E questo è appunto quanto successo a Roma ma anche in tutta l’Italia, dove da qualche decennio il diritto alla città, quello elementare di procurarsi una casa, passa soltanto nei terreni messi sul mercato dagli Scarpellini o dai Ligresti con l’accordo del Comune.
La realizzazione di questi quartieri, sostengono gli esperti il cui punto di vista Erbani rispecchia, dovrebbe venire subordinata al loro venire collegati in anticipo da una efficiente rete di trasporto pubblico, ma poi nei fatti dobbiamo aspettarci che le richieste dei cittadini già tali – gli elettori – abbiano la precedenza rispetto a quelle dei cittadini futuri: ché se poi questi nuovi quartieri non corrispondessero a un effettivo bisogno di nuove case, un bisogno esorcizzato dalla constatazione di Zola che molte delle case costruite di recente restano invendute, che ne faremmo della nuova linea della metropolitana scavata per servirli?
Allo stesso modo la legge del 1942 legittima l’invenzione di una zona particolare, il Centro Direzionale, quello di Milano e lo SDO di Roma, con la pretesa di modificare i criteri con i quali le singole amministrazioni pubbliche decidono di collocare i propri uffici. Ma Comune e Ministeri scelgono i propri siti privilegiati a partire dalla loro collocazione attuale – Erbani evoca per esempio il proliferare nel centro storico delle dépendance del Parlamento – e un Centro Direzionale può venire realizzato soltanto dai privati per lo charme che promette, come nel 1953 la Defense a Parigi.
Che questa fosse la partitura, nel concerto della commedia cittadina, della corretta urbanistica, era del tutto legittimo; che poi gli altri attori dovessero rinunciare ai loro programmi per adottarla era un altro paio di maniche, e forse il disordine che molti pretendono di leggere nella città è soltanto una forma di ordine la cui ratio gli sfugge. Perché poi a Roma è mancato chi fosse capace di leggere il ritmo di quell’esperienza reale che è stata la sua crescita, le sue contraddizioni, i suoi insuccessi ma anche i suoi inaspettati successi e soprattutto di suggerire come dimenticare la cultura del piagnisteo e farsi coinvolgere nel processo continuo di modificazione della città, di tutte le città.
Perché le città non sono mai state l’esito di una sequenza progetto > azione così limpido come la leggenda epica dell’urbanistica vorrebbe, con i sui eroi artefici di piani regolatori puntualmente eseguiti, magari da un Principe, sono sempre state il teatro di una continua dialettica tra i cittadini come individui, gelosi della loro libertà e come tali rappresentati nelle istituzioni, e i medesimi cittadini come civitas alla ricerca di un tema collettivo comune e condiviso, un teatro dove questi due momenti non saranno contrapposti nello schema Bene/Male, ma sempre intrecciati e entrambi legittimi.
In questo momento da molte parti viene invocato il “principio di realtà”: ma la comprensione della realtà è proprio quella da sempre mancata nel racconto epico della Roma moderna.
E tuttavia il libro di Erbani ci offre qualche sorpresa nel cast più recente, perché sullo sfondo dei Buoni Cavalieri di sempre, con la bandiera del Bene Comune, Antonio Cederna, Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni, Italo Insolera, Vittoria Calzolari, Leonardo Benevolo, Vezio De Lucia, compare, nella parte degli Scudieri – a battersi contro lo Speculatore, impersonato soprattutto da Sergio Scarpellini – una recente ma folta e agguerrita schiera femminile: Rita Parsi, Giordana Castelli, Elena Mortola, Francesca Geremia, Grazia Pagnotta, Anna Maria Bianchi, Maria Cristina Lattanzi, Gaia Pallottino, Barbara Pizzo, Giacomina Di Salvo, Gabriella di Lorenzo, Cristina Grancio, Rita Bernardini, e da Londra, Elena Besussi.
Chissà che l’irruzione sulla scena delle nuove eroine non contribuisca col tempo a cambiare il canovaccio.
Titolo: Roma. Il tramonto della città pubblica
Autore: Francesco Erbani
Editore: Laterza
Pagine: 185
Prezzo: 12 €
Anno di pubblicazione: 2013