1000 frustate per la libertà, pubblicato in Italia per Chiarelettere nel settembre 2015, è un libricino che dà voce a Raif Badawi, un coraggioso blogger saudita diventato famoso perché vittima di un’inaudita crudeltà del sistema giudiziario del suo Paese. Proprio in questi giorni arriva da Strasburgo la notizia del fatto che il Parlamento Europeo ha selezionato Raif Badawi tra i finalisti del Premio Sakharov che dal 1988 premia l’impegno per i diritti umani e le libertà fondamentali e che, come ogni anno, verrà assegnato il 10 dicembre in ricordo della firma della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948. A lui è anche dedicata anche la seconda edizione del Festival dei Diritti Umani che dal 14 al 18 ottobre si svolge in Svizzera a Lugano.
Attraverso i racconti di Badawi sento riecheggiare nella mia testa le conversazioni che ho avuto nel 2011 a Gedda nella libreria Bridges, creata da giovani intellettuali che stavano lavorando per un cambiamento culturale del paese. Questo libro, infatti, oltre a denunciare il radicalismo islamico attraverso le testimonianze dell’autore, guida il lettore verso una visione più ravvicinata del mondo giovanile di Gedda, seconda metropoli dell’Arabia Saudita. Gedda è una città bagnata dal Mar Rosso, che affonda le sue radici in antiche tradizioni popolari molto diverse da quelle di altre città saudite, essendo strettamente legata alla cultura beduina delle aree centrali della Penisola.
Proprio in quest’area centrale, Al Gasim, è nato il wahhabismo, una variante dell’Islam sunnita della scuola hanbalita che è tuttora alla base della cultura del potere dell’Arabia Saudita. Le zone costiere, non solo Al Hijaz sulla costa occidentale, ma anche la Provincia Orientale del Golfo Persico, dove abita la maggior parte degli sciiti sauditi che sopporta con sempre più difficolta la cultura nomade del deserto che regna in Arabia Saudita.
L’Arabia Saudita è nata da una jihad intrapresa nel 1744 da un capo villaggio vicino all’attuale Riad, Mohammad ibn Al Saud, e da un predicatore ultra conservatore hanbalita, Mohammad ibn Abd al-Wahhab. La loro jihad – che somiglia per certi versi a quella promossa in Iraq e in Siria dall’ISIS – creò, dopo diverse fasi, nel 1932 il regno dell’Arabia Saudita. Il sistema politico nato da quest’alleanza è tuttora valido e alla base di moltissimi avvenimenti politici e giudiziari, compresa la sentenza di Raif Badawi.
La casa regnante Al Saud detiene il monopolio politico del regno saudita, mentre il monopolio religioso lo possiede la leadership religiosa ufficiale. I discendenti dei due uomini che iniziarono la conquista del territorio e la creazione dello stato, però, hanno legato tra di loro le due ali del potere Saudita tramite svariati matrimoni tra gli eredi delle due famiglie. L’ala religiosa è dipendente dal potere reale, anche se, a volte, i leader religiosi tentano di contestare politiche modernizzatrici della casa di Al Saud.
Il settore giudiziario è invece controllato dal clero, essendo la giustizia saudita basata sulla Sharia, salvo sotto alcuni profili, come l’ambito economico. Il monopolio della politica è, invece, completamente nelle mani della casa regnante e questo implica che le organizzazioni create dalla società civile raramente ottengono il permesso di agire legalmente se non rientrano nelle grazie reali. Inoltre per la cultura wahhabita ogni cittadino saudita deve giurare la fedeltà al Re e tra le colpe di molti attivisti, condannati a dure pene, vi è anche il tradimento al giuramento di fedeltà.
Principalmente per queste ragioni le sentenze del sistema giudiziario del Regno dell’Arabia Saudita sono da sempre motivo di scandalo se viste con occhi occidentali. Negli ultimi anni, per esempio, molti sauditi che chiedevano una monarchia costituzionale sono stati incarcerati. Uno dei più conosciuti è Mohammad al-Qahtani, un insegnante di economia dell’Istituto Diplomatico saudita che è stato condannato a 10 anni di carcere a marzo 2013.
Mohammad al-Qahtani era un modello anche per Walid Abu al-Khair, un avvocato per i diritti umani che è stato il difensore di Raif Badawi fino a quando non è stato imprigionato per 15 anni, ed anche di Samar Badawi, la sorella di Raif. Samar scelse la prigione quando un giudice di Gedda la mise davanti a una decisione: ritornare dal padre dopo il divorzio oppure andare in prigione. Samar scelse la prigione per non tornare a subire le violenze del padre e, inoltre, sposò il suo avvocato, che, come suo fratello, è oggi in carcere. Questi sono tutti esempi di sauditi che hanno accettato coscientemente di pagare cara la loro scelta di lottare per un cambiamento e per una società diversa.
Ho conosciuto personalmente sia Mohammad al-Qahtani a Riad che i coniugi al-Khair-Badawi a Gedda. Walid Abu al-Khair mi spiegò che loro sono consapevoli di dover subire punizioni durissime ma accettano questo destino sapendo che è necessario per iniziare una rivolta al sistema esistente. Ho avuto l’impressione che invece Raif Badawi non fosse pienamente cosciente della durezza della pena quando fu incarcerato, benché fosse stato imprigionato già nel 2012. In quell’anno infatti l’offensiva giudiziaria contro gli esponenti della società civile nascente saudita non era ancora della severità attuale. Nello stesso gruppo includo anche Hamza Kashgary e dei giovani già appartenenti ai Fratelli Musulmani che avevano poi fondato un loro partito politico, malgrado avvertimenti da parte di Mohammad al-Qahtani, finendo in carcere immediatamente, anche se per un periodo limitato di tempo.
Una delle ultime e più feroci condanne è stata quella contro due giovani Sciiti, Ali Mohammad Baqir al-Nimr, arrestato a 17 anni e condannato all’esecuzione capitale con decapitazione e successiva crocefissione e Dawould al-Marhoon, arrestato anche lui alla stessa età nel maggio 2012, torturato e obbligato a firmare una ‘confessione’ utilizzata poi per condannarlo. Entrambi i giovani potrebbero ora essere giustiziati in qualsiasi momento, senza preavviso alle famiglie e nonostante i dubbi sulla imparzialità e correttezza dei processi. È evidente che questa sentenza ha lo scopo di spaventare e scoraggiare i giovani Sciiti che protestano da anni nella Provincia Orientale. Questa parte dell’Arabia Saudita è l’unica dove, a partire dall’anno delle rivolte arabe, 2011, ci sono state molte manifestazioni e le proteste sono costate vite umane, una ventina tra Sciiti e alcuni poliziotti. La soppressione della primavera araba in Bahrain, dove la maggioranza della popolazione è sciita, fu una delle cause scatenanti del fenomeno ma non solo. Gli Sciiti sono stati oggetto di diversi tipi di repressione, anche dal punto di vista amministrativo. Un esempio ne è l’incarceramento, per periodi brevi, in seguito al ritrovamento all’interno di autovetture da parte della polizia di immagini legate allo Sciismo oppure in seguito alla pratica di cerimonie religiose in luoghi non autorizzati.
Anche lo zio di Ali, un religioso di nome Nimr Baqir al-Nimr, è stato condannato nel 2014 ad esecuzione. Lo zio era accusato di essere un esponente religioso sciita responsabile di aver spinto al radicalismo dei giovani Sciiti nella Provincia Orientale. Lo sceicco al-Nimr è stato accusato di aver fomentato i giovani alla ribellione, anche se lui stesso sostiene di sconsigliare l’uso della violenza ai propri giovani interlocutori. Il discorso politico di Nimr Baqir è semplicemente una critica alla leadership politica ufficiale degli Sciiti sauditi, che ha una linea molto moderata dall’anno 1993, cioè dall’accordo che fu firmato tra gli Sciiti e il re. Quell’accordo che doveva finire la discriminazione della minoranza, portò alcuni cambiamenti, ma non riuscì invece a cambiare in maniera determinante la situazione.
L’estrema durezza della punizione contro Ali al-Nimr e Dawould dipende certamente dal clima molto pesante causato dal conflitto tra Sciiti e Sunniti in tutta la zona del Golfo Persico. Questo conflitto proviene dal wahhabismo il quale vede gli Sciiti come nemici perché deviati dalla retta via, anche i Sunniti fondamentalisti considerano gli Sciiti degli eretici che devono essere uccisi. Questa ideologia dell’odio radicata negli estremisti Sunniti almeno dalla nascita del wahhabismo, si è acutizzata dopo la salita al potere in Iraq degli Sciiti, che hanno perseguito una politica di forte discriminazione nei confronti dei Sunniti. Una successiva escalation del conflitto tra Sciiti e Sunniti è stata causata dalla frustrazione dell’emergere dell’Iran khomeinista (dal 1979) di matrice sciita come nuova potenza regionale in Medio Oriente.
Condanne tremende in Arabia Saudita sono continuate per anni, ma solo ora iniziano a suscitare orrore in Occidente. Perché proprio adesso? Forse la causa principale è che adesso le condanne toccano gli intellettuali, non solo criminali o poveri immigrati di cui nessuno assume la difesa, e sono legati a questioni politiche di respiro più internazionale. Nei suoi scritti Raif Badawi dice, però, che anche nel carcere dove è stato tra i peggiori criminali, ha trovato testimonianze di coscienza politica.
Forse l’atteggiamento dell’Occidente sta cambiando anche perché il lavoro svolto da anni dalla nascente società civile dell’Arabia Saudita comincia ad avere un effetto. Anche le organizzazioni saudite per i diritti umani – alcune lavorano all’interno ma sono aiutate da sauditi che lavorano all’estero – stanno finalmente riuscendo a creare legami duraturi sia con le organizzazioni per i diritti umani internazionali che con i media stranieri. Un’altra motivazione potrebbe essere che l’Occidente non dipende più in modo spropositato dall’oro nero del regno della dinastia Al Saud. Che l’Occidente stia cominciando a rendersi conto del cambiamento epocale che si sta determinando sullo scacchiere mediorientale? Il fatto che nel Medio Oriente di oggi tutto sia stato messo in discussione da guerre e conflitti potrebbe forse, almeno, avere l’effetto di aprire anche le nostre coscienze a ciò che di nuovo sta veramente nascendo in Arabia Saudita.
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Titolo: 1000 frustate per la libertà
Autore: Raif Badawi
Editore: Chiarelettere
Pagine: 144
Prezzo: 13 €
Anno di pubblicazione: 2015