Ci sono migranti, profughi, rifugiati, esuli senza i quali la “nostra” cultura, anzi la cultura tout court non esisterebbe neppure. Dante, esule inseguito da una condanna a morte, sapeva bene “quanto sa di sale” il pane del rifugiato. A Hannah Arendt in fuga dalla Germania nazista non piaceva essere chiamata profuga, preferiva “nuova arrivata” o “immigrante”. Allo scrittore Ariel Dorfman non piaceva che lo chiamassero “rifugiato” dal Cile di Pinochet, preferiva definirsi “esule”. Einstein, che già era stato insignito del Nobel, pensava di trasferirsi a Istanbul, prima che lo accogliessero in America. Ma Walter Benjamin si suicidò perché gli negavano il visto alla frontiera tra Francia occupata, così come si uccisero l’ebreo austriaco Stefan Zweig e il nobile ungherese Sándor Márai, raminghi e poi disadattati in fuga, il primo dall’Anschluss, l’altro dal regime comunista.
Espatriati ed esuli nella storia della conoscenza di Peter Burke (Il Mulino) è una vera e propria enciclopedia dei moltissimi grandi cervelli esiliati, espulsi, in fuga dalle guerre o dai rispettivi tiranni, insomma dei rifugiati o emigranti che hanno lasciato un segno, dall’antichità ai giorni nostri, appunto nella storia del pensiero umano. A differenza di milioni di altri profughi ed emigrati, che hanno lasciato un segno anche se non erano ingegneri o professori, questi non sono sconosciuti. Non possono essere ignorati o silenziati. Eppure persino loro hanno avuto difficoltà di adattamento e talvolta difficoltà ad essere accolti. Hanno dato al proprio campo di studi e alle nazioni che li hanno ospitati incomparabilmente più di quanto abbiano ricevuto. Al solo elencarli viene da arrossire di vergogna. Per chi voleva rifiutarli, o “rimpatriarli”. E anche per chi storce il naso a sentir parlare di Ius culturae, che poi è un’espressione orrenda per dire che gli si darà il diritto di restare solo se passano l’esame. Io, che sono nato a Istanbul da genitori turchi, non avrei potuto diventare italiano in base allo Ius soli.
Molti, nota Burke, sono stati “sia intellettualmente sia emotivamente degli sbandati”. Anche per il fatto del cambio di lingua. Nei quarant’anni di esilio prima del suicidio in California, Márai scrisse pochissimo (scriveva in ungherese). Zweig si definiva “senza casa in ogni Paese”. Lo storico dell’arte Erwin Panofsky avvertiva il “grande imbarazzo” dello “studioso che scrive in una lingua diversa dalla propria” e si sente “come se si rivolgesse all’uditorio indossando parrucca e naso posticci”. Sigmund Freud era ancora rintronato dalla fulminea nazificazione della sua Vienna quando si rifugiò con la figlia Anna in Inghilterra (quattro sue sorelle sarebbero finite uccise nei campi di sterminio). Il filologo Leonardo Olschki, costretto dalle leggi razziali italiane a rifugiarsi negli Stati Uniti, scrisse con amara ironia che, nella sua cerchia di esiliati, l’inglese che stavano imparando a parlare veniva chiamato “desperanto”. Il fisico ungherese Leo Szilard, fuggito dall’Ungheria di Horty a Berlino, nel 1933 teneva i suoi averi in due valigie per essere sempre pronto a fuggire. Poi, fuggito in America, sarebbe diventato uno dei padri della Bomba atomica. Theodor Adorno, esule in America e poi tornato in Europa, notò che “ogni intellettuale nell’emigrazione è – senza eccezioni – un minorato”. W.G. Sebald, tedesco, espatriato in Inghilterra, ha disseminato nei suoi romanzi biografie immaginarie di emigrati che rifiutano di adattarsi.
Fu sempre chi li aveva cacciati a rimetterci. I Paesi di accoglienza a guadagnarci. E non solo nel caso di scienziati come Enrico Fermi, Erwin Schrödinger, Kurt Gödel, John von Neumann. I fisici Bruno Rossi, che prese parte al progetto Manhattan, ed Emilio Segre, che ebbe il Nobel mentre era a Berkeley, il fisiologo Carlo Foà che si trasferì in Brasile, il matematico Beppo Levi che andò in Argentina, furono costretti ad emigrare dopo essere stati licenziati in seguito alle leggi razziali (nel 1938 quasi un docente su dieci nelle università italiane era ebreo). Gaetano Salvemini aveva lasciato l’Italia fin dal 1925. L’orientalista Giorgio Levi della Vida andò in America, lo storico dell’arte Lionello Venturi (che non era ebreo ma aveva rifiutato il giuramento di fedeltà al fascismo) a Parigi. Il classicista Arnaldo Momigliano scelse di andare in Inghilterra. Saggezza straniera si intitola il suo fondamentale studio sui rapporti tra l’Ellenismo e le altre culture, compresa quella romana.
L’esilio forzato contribuì a “sprovincializzare” il loro lavoro (e sprovincializzare, al tempo stesso, chi li ospitava). Zygmunt Bauman ha sostenuto che ciò che si guadagna dall’essere out of place, fuori posto, è molto superiore a ciò che si perde. Leszek Kołakowski ha intitolato uno dei suoi saggi In lode dell’esilio. Entrambi sono esuli dalla Polonia comunista. Già nell’800 Georg Simmel notava la maggiore “obiettività dello straniero”. Fernand Braudel potè esercitare il suo “sguardo da lontano” e “sulla lunga durata” proprio perché era stato a lungo straniero tra stranieri. Eric Hobsbawm era nato ad Alessandra d’Egitto, era vissuto a Vienna e Berlino, prima di trasferirsi nel 1933 con degli zii in Inghilterra. Un certo “distacco” giova. Ne so qualcosa: per trent’anni ho fatto il corrispondente all’estero, potevo scrivere lucidamente dei guai altrui perché erano fatti loro. Non sempre ci riesco quando si tratta di guai nostri, quello del mio paese d’adozione, l’Italia. Peter Burke, che è uno dei massimi studioso di “storia culturale” al mondo esordisce questo suo libro notando che, sebbene lui non abbia avuto alcuna esperienza personale di esilio, nessuno dei suoi nonni era nato in Gran Bretagna.
Titolo: Espatriati ed esuli nella storia della conoscenza
Autore: Peter Burke
Editore: Il Mulino
Pagine: 280
Prezzo: 28 €
Anno di pubblicazione: 2019