Chi avrebbe mai detto che il XX secolo si sarebbe concluso senza che il conflitto israelo-palestinese si risolvesse, lasciando aperte per quello successivo le stesse sfide dell’autodeterminazione palestinese, del nazionalismo ebraico, della legittimità e del difficile possesso condiviso della terra, dell’occupazione israeliana, dei profughi palestinesi (ormai giunti alla terza generazione), della possibilità sempre imminente di una guerra tra Israele e i propri vicini arabi, della possibilità per un intero popolo palestinese di sparire e di continue e improvvise, quanto inutili, irruzioni di violenza a Gaza, nei Territori occupati e a Gerusalemme?
Eppure, è così che sono andate le cose. Nel momento in cui scrivo, il mondo è immerso nella pandemia di Covid-19 di cui difficilmente si riesce a prevedere l’esito. Una pandemia che ha coinvolto anche il Medio Oriente, seppure in modo più marginale della MERS nel 2012, con una seconda ondata di contagi di massa in corso [anche] in Israele e Palestina. Non conosciamo ancora le sue ricadute politiche, dal momento che essa ha colto alla sprovvista tanto noi europei quanto tutti i Paesi mediorientali. Tuttavia, è probabile attendersi che se il numero dei contagi e dei morti dovesse rivelarsi molto alto, esso rappresenterebbe presto un prezzo intollerabile per le popolazioni locali, ma soprattutto per quei cittadini le cui aspirazioni di democrazia e redistribuzione economica espresse nelle Primavere arabe del 2011 sono state tradite dai rispettivi regimi autoritari. Tra quest’ultimi, nonostante non sovrani a pieno titolo, rientrano anche i due governi della Palestina, ovvero delle due unità autonome in cui essa è irrimediabilmente divisa dal nodo irrisolto delle elezioni del 2006: Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania.
Entrambi i regimi, per un insieme esplosivo di condizionamenti interni ed esterni, non hanno la possibilità né il coraggio di confrontarsi con il giudizio dei propri cittadini attraverso le urne, né si sono dimostrati capaci di migliorare sostanzialmente le loro condizioni di vita da quando detengono il potere. La loro maggiore responsabilità, però, risiede nell’incapacità di fornire un orizzonte di senso, una prospettiva politica ai cittadini palestinesi di ogni colore politico, che una volta rinunciato alla lotta armata con la firma degli Accordi di Oslo (1993) e ottenuto una relativa per quanto ristretta autonomia amministrativa, si sarebbero attesi gradualmente di progredire verso quella statualità piena e totale che doveva rappresentare l’esito finale del processo di pace triangolato dagli Stati Uniti. Un processo lungo e farraginoso che avrebbe dovuto portare a compimento la volontà espressa dai due popoli di convivere insieme in due Stati indipendenti, pacificamente allineati l’uno accanto all’altro.
Dal fallimento degli Accordi di Camp David II, ovvero già dal 2000, quella possibilità di raggiungere tra le due parti un accordo di pace mediato dagli Stati Uniti, per quanto sbilanciato, è definitivamente tramontata. Nel 2009, quando l’attuale Premier revisionista e leader del Likud, Benyamin Netanyahu si è re-insediato al governo (aveva già governato negli anni 1996-1999), una svolta netta da un processo di pace negoziato su base bilaterale si è resa evidente nella politica israeliana, nonostante l’adesione nominale del Premier nel suo famoso discorso di Bar Ilan – influenzato dall’insediamento alla Casa Bianca di un leader del fronte progressista, il Presidente democratico Barak Obama – ai principi della “soluzione dei due Stati”. Dopo quel breve quanto effimero tributo alla causa, essa non è stata più trattata come un tema prioritario, finendo per decadere completamente nel dibattito interno israeliano, ormai difesa solo da quei partiti della sinistra sionista che hanno visto la propria rappresentanza crollare alla Knesset negli ultimi dieci anni.
Nell’ultimo anno – in cui Israele ha cercato per tre volte a fatica di darsi un governo stabile in un clima di piena emergenza dopo elezioni incapaci di produrre alcuna maggioranza alla Knesset, riuscendoci il 21 aprile 2020 a fatica e solo dopo strenui negoziati tra i due maggiori partiti e principali antagonisti – la causa dei due Stati sembra sarà definitivamente seppellita dal nuovo governo di unità nazionale, che tra i principali punti di accordo contiene l’annuncio della volontà di annettere parte dell’area C palestinese, ovvero la Valle del Giordano, a partire dal primo luglio. Una scelta sostenuta tanto dal partito di maggioranza relativa del Likud che dal suo principale oppositore e oggi partner di governo, il Partito Blu&Bianco (Kahol Lavan), o quello che ne rimane dopo l’ultima scissione, e sostenuta dal 42% dell’opinione pubblica. E poco importa che la data del primo luglio si sia avverata o meno una scadenza esatta, perché la finestra di azione del governo israeliano rimarrà aperta fino a novembre prossimo, data delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, e probabilmente anche fino a gennaio 2021, periodo di insediamento del nuovo Presidente, e comunque per tutti i diciotto mesi in cui, secondo l’attuale accordo di governo, Netanyahu rimarrà Primo ministro ad interim dello Stato ebraico.
La disaffezione espressa da una netta maggioranza degli israeliani nei confronti della “soluzione dei due Stati” è il segnale della impossibilità per i cittadini comuni di pensare alle colonie nei termini in cui esse sono percepite all’estero, ovvero da quella comunità internazionale che continua a ribadirne l’illegalità, trattandosi di insediamenti edificati su territori occupati militarmente in un conflitto (1967) che non è mai sfociato in una risoluzione definitiva. Nell’assenza di una soluzione, però, la situazione sul terreno non è rimasta congelata a quel lontano 1967, ma ha creato dati di fatto che non sono più eludibili. In quella Cisgiordania “illegalmente” occupata dagli israeliani sono sorti 130 insediamenti ufficiali e 110 avamposti, tra cui almeno 6 cittadine densamente abitate e ben connesse alla “madrepatria” (Ma’ale Adumim, Modi’in Illit, Ariel, Gush Etzion, Givat
Ze’ev, Betar Illit) – di cui una perfino sede di una discussa Università (Ariel) –, industrie fiorenti, tra cui il grande complesso industriale di Barkan posto a soli 25 km di distanza da Tel Aviv, comunità demograficamente rilevanti (464.000 coloni circa, esclusi i 220.000 residenti a Gerusalemme est) e una rete infrastrutturale ampia e diversificata. Questi “coloni” richiedono a gran voce un riconoscimento ufficiale e di non essere più trattati da quello stesso governo, che ne ha favorito l’insediamento in Cisgiordania attraverso vantaggi fiscali e copertura politica, come cittadini di serie B, della cui esistenza vergognarsi ai tavoli diplomatici internazionali, solo per complimentarsene nei dibattiti nazionali e nelle manifestazioni patriottiche che ne celebrano il ruolo di “pionieri”.
Se questa schizofrenia esistente tra discorso politico interno ed esterno nuoccia o meno al Paese non è facile dirlo, dal momento che il governo israeliano ha più volte giocato la carta dell’ambiguità in ambiti diversi come il possesso delle armi nucleari, il tracciato definitivo della “Barriera di separazione” e la volontà di non fissare costituzionalmente i confini statuali, tuttavia è chiaro che un processo di normalizzazione degli insediamenti
sia in atto da molti anni, portato avanti consapevolmente dalle autorità pubbliche e private per rispondere alle proteste sempre più frequentemente espresse dai coloni contro le misure discriminatorie indifferentemente adottate da parte del governo e della comunità internazionale nei propri confronti. Il fronte della “normalizzazione” avanza ad ampi passi e non si accontenta più di azioni simboliche, come la possibile estensione della sovranità israeliana ad alcuni grandi insediamenti – tra cui le 6 colonie maggiori, che vengono anche definite “colonie del consenso” perché ormai date come parte integrante di Israele in un futuro accordo di pace da tutti i negoziati intrapresi dal 1995 ad oggi –, ma richiede l’adozione di soluzioni “onnicomprensive” che possano regolarizzarne la presenza in tutti i territori posti oltre le linee di armistizio del 1967. In altre parole, i coloni non vogliono più essere identificati come coloro che compiono “il lavoro sporco” per il governo, ma aspirano a una nuova legittimità politica, dentro e fuori Israele.
Titolo: Israele. Prosperità senza pace
Autore: Claudia De Martino
Editore: Castelvecchi
Pagine: 144
Prezzo: 15,68 €
Anno di pubblicazione: 2020