Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nell’aprile 1949, un anno appena dopo la nascita d’Israele, sulle pagine di Haaretz, quotidiano considerato ancora oggi il più illuminato del paese, Arye Gelblum raccontava lo sbarco degli ebrei sefarditi a Haifa.
“…Questa è una razza diversa da tutte quelle che abbiamo visto prima. Dicono che ci sono differenze tra la gente di Tripolitania, di Marocco, di Tunisia e d’Algeria, ma nessuno sembra capace di dire quali siano queste differenze e se, nei fatti, esistano. Dicono, per esempio, che i tripolitani e i tunisini siano meglio dei marocchini e degli altri, ma è lo stesso problema con tutti loro. La primitività di questa gente è insuperabile. Sono quasi privi di educazione, e ciò che è peggio è la loro incapacità a comprendere qualcosa di intellettuale. Come regola sono appena più avanzati degli arabi, dei neri e dei berberi nei loro paesi. È certamente un livello più basso degli ex arabi palestinesi”. E ancora: “Sono interamente dominati da istinti selvaggi e primitivi”. Gelblum parlava di “pigrizia cronica e odio per il lavoro”.
Di questi sefarditi provenienti da tutta la regione mediorientale e dal Nordafrica si occupa Claudia De Martino in “I mizrahim in Israele. La storia degli ebrei dei paesi islamici 1948-77” (Carocci editore, 216 pagine , 23 euro). Il volume si concentra soprattutto sugli ebrei dei paesi arabi (lasciando fuori un’analisi degli ebrei persiani o iraniani, paese musulmano ma non arabo, che hanno sempre avuto un rapporto più articolato con e nei confronti di Israele). Attraverso una descrizione delle varie comunità nei loro paesi d’origine e del loro approdo nella nuova patria, l’autrice ci spiega come hanno pesato sullo sviluppo e la profonda trasformazione di quel paese nato da un’idea sionista d’impronta europea e cresciuta nei primi anni grazie quasi esclusivamente alla maggioranza aschenazita e alla sua cultura.
Anni fa lessi una sconcertante analisi di David Ben Gurion. Il padre della patria e suo primo premier, non aveva molti dubbi sulle difficoltà che avrebbero costituito i “diversi” riferendosi alla comunità sefardita più numerosa tra gli immigrati. “Quelli venuti dal Marocco non avevano educazione. I loro costumi sono quelli degli arabi. Amano le loro mogli ma le picchiano…Forse nella terza generazione qualcosa verrà fuori dall’ebreo orientale che sia in qualche modo diverso. Ma oggi non lo vedo. L’ebreo marocchino molto ha preso dall’arabo marocchino. Non vorrei vedere qui la cultura del Marocco…Noi non vogliamo vedere gli israeliani diventare arabi. Siamo chiamati a combattere contro lo spirito sul Levante, che corrompe gli individui e le società, e a preservare gli autentici valori ebraici così come si sono cristallizzati nella diaspora”.
Gli abitanti di Tel Aviv, oggi, si definiscono i newyorkesi del Mediterraneo. Lo sguardo del paese è proiettato verso Occidente. L’Europa è vicina ma sono gli States a dominare anche se sono esaltanti gli esempi di fusione, soprattutto nella cultura gastronomica e nella musica tra quelle origini aschenazite e la grande estensione del mondo arabo dove, per millenni, gli ebrei convivevano con le altre comunità che soltanto in un secondo tempo si identificarono nell’Islam, la nuova religione monoteista.
Israele, nei brevi anni della sua esistenza come patria di tutti gli ebrei fu costretta a rendersi conto di come gli ebrei, dopo duemila anni di diaspora, erano diversi tra di loro e non costituivano (e ancora non costituiscono) un’unica identità. Il nazionalismo laico e le spinte messianiche sono costretti a convivere in un mondo dove l’identità ebraica per millenni dipendeva proprio dalle tradizioni religiose. L’autrice ci porta attraverso alcuni passaggi fondamentali del riavvicinamento degli ebrei sparsi in giro per il mondo. Le barriere erano alte e radicate come De Martino vuol far capire citando Saul Adler, un professore universitario dell’Università ebraica e medico, che nel 1950 scriveva “Un esperimento in sociologia”, in riferimento all’aliyah (l’immigrazione degli ebrei) di massa e ai problemi nuovi che essa poneva.
“Per l’aschenazita, l’idea che sua moglie abbia pari diritti è assiomatico; per l’ebreo curdo, questa idea non è soltanto rivoluzionaria, ma rivoltante, e l’attuale generazione di ebrei curdi a Gerusalemme non lo permetterà. L’aschenazita si rallegra alla nascita di una figlia, il curdo esprime la sua frustrazione apertamente e può anche rimproverare sua moglie per la sua incapacità di partorire un figlio maschio. L’aschenazita manda sua figlia a scuola e [aspira] anche al suo conseguimento di un’istruzione superiore; il curdo non permette a sua figlia di conseguire un’istruzione superiore e, a volte, nemmeno quella elementare. Io conosco personalmente casi in cui padri curdi hanno severamente proibito alle proprie figlie di imparare a leggere e scrivere […]. Altre differenze lampanti sono riscontrabili. L’aschenazita, a differenza del suo collega, legge i quotidiani, compra libri, partecipa a incontri e, in generale, si dedica ad attività definite, in un certo senso, “culturali”.
Per illustrare le diverse fasi di immigrazione (e le diverse spinte) e l’integrazione non facile, l’autrice ha scelto di dividere la sua ricerca in capitoli che raccontano e spiegano gli avvenimenti più importanti della storia d’Israele compresa – e questo è fondamentale – l’effetto delle varie popolazioni sulla politica del paese passato da laico e in qualche modo socialista a nazional-religioso, messianico e a profondamente capitalista.
Autori israeliani, in questi ultimi anni, si sono spesso serviti di parole come “fascista” per definire la destra (e non soltanto quella che è espressione dei coloni dei territori palestinesi occupati). Altri, attribuiscono alle identità stesse, come rileva De Martino, le spinte verso destra. Non è corretto “sostenere che i mizrahim non credano nella democrazia e nei suoi principi, ma piuttosto che ne difendano un’accezione diversa, maggiormente fedele alla volontà popolare, ai costumi e alle credenze della maggioranza: una democrazia di ‘stampo mediorientale’, più affine ad altri modelli espressi dalla regione”.
“Parimenti – aggiunge in conclusione l’autrice – la laicità avrebbe trovato sempre meno spazio in una società molto secolarizzata, ma che non accettava (e non accetta tuttora) la separazione tra appartenenza nazionale, etnica e religione”.
De Martino chiude la sua ricerca con il 1977. Da allora molto è accaduto. La pace con Egitto e Giordania e gli accordi di Oslo hanno rafforzato Israele ma l’accordo definitivo con i palestinesi continua a sfuggire. La colonizzazione dei territori occupati è andata avanti velocemente, soprattutto dopo l’assassinio del premier Rabin (da parte di un estremista nazional-religioso israeliano) e il dialogo è fermo. Uno dei nodi è da sempre quello dei rifugiati palestinesi, del loro “diritto al ritorno” e di un’eventuale compensazione economica per ciò che persero con la nascita d’Israele e con le successive guerre.
Nel 1975 i discendenti degli ebrei mizrahim tentarono di far conoscere la loro storia e le loro sofferenze attraverso la creazione di un comitato ma soltanto negli ultimi anni le loro istanze sono andate a far parte della politica ufficiale israeliana. “Tracciando un parallelismo disarmante tra la loro evacuazione in massa e quella dei palestinesi – scrive De Martino – nella loro narrativa storica descrissero la partizione della Palestina da parte dell’Onu come la data fondante della “riorganizzazione del Medio Oriente”. A loro opinione nel 1948 le Nazioni Unite avevano, consapevolmente o meno, avallato uno scambio di popolazioni, inevitabile a partire dal riconoscimento dello Stato di Israele”. È questo “scambio di popolazioni” che Israele vorrebbe far riconoscere per respingere ogni richiesta di risarcimento o di “diritto di ritorno” da parte dei palestinesi (e dei loro discendenti) costretti a lasciare le loro terre.
Mezzo secolo non è molto nella vita di una nazione. E Israele ha compiuto passi da gigante anche se non ha saputo farsi accettare completamente dai suoi vicini e, forse per non fare le concessioni territoriali indispensabili (ossia restituire ai palestinesi i territori occupati nel 1967, Gerusalemme Est e le alture siriane del Golan ), non è capace di chiudere il contenzioso con l’intero mondo arabo. Il rapporto tra le due componenti principali della società ebraica israeliana sono, invece, migliorate ma vecchi rancori e gelosie restano. Claudia de Martino, nel suo ottimo libro, racconta molto della vita di Musrara, a Gerusalemme. È un quartiere dove i mizrahim, sostenitori dei partiti di destra, sono sempre la maggioranza anche se oggi vi abitano anche ebrei di origine europea, religiosi e laici. Le tensioni sono palpabili e, talvolta, esplodano come qualche anno fa, durante una feroce campagna elettorale. Un gruppo di ragazzi, figli di immigrati marocchini, aggredirono a parole una signora bionda d’origine chiaramente mitteleuropea con una frase che potevano soltanto aver ascoltato dai loro genitori. “Sappiamo che voterai per Peres (il leader laburista). Tornatene ad Auschwitz!”.
Titolo: I mizrahim in Israele. La storia degli ebrei dei paesi islamici 1948-77
Autore: Claudia De Martino
Editore: Carocci
Pagine: 216
Prezzo: 23 €
Anno di pubblicazione: 2015