Da Reset-Dialogues on Civilizations
Le migrazioni si legano al razzismo e alle sue evoluzioni contemporanee, alle discriminazioni attuate in tutte le forme possibili e alle diverse forme di “confinamento” attivate alle frontiere del Mediterraneo, nei luoghi di confine e nei muri che separano il mondo esterno dai Cie, i Centri di identificazione e di espulsione. «Il razzismo contemporaneo è l’eredità di un passato con cui le società occidentali non hanno mai fatto i conti del tutto». Alla sua base c’è un «inconscio coloniale», legato alla costruzione dell’Altro. «L’immigrato/rifugiato/clandestino mobilita in noi meccanismi psichici di difesa, e nell’inconscio ci ricorda colpe e responsabilità che non abbiamo la forza o forse la voglia di affrontare, perché richiedono la necessità di decolonizzare noi stessi. In questo lavoro di decolonizzazione del se stessi, riconoscere sé comporta il riconoscimento dell’Altro come essere uguale a me».
In questo modo il razzismo contemporaneo si sviluppa nello sfruttamento della forza lavoro immigrata, funzionale all’economia globalizzata e capitalistica e frutto dei rapporti che intercorrono fra l’Occidente e i paesi da cui provengono i migranti. Allo stesso tempo colpisce soggetti portatori di differenti “diversità”, discriminati in base a nazionalità, differenze etniche, culturali, religiose, di genere e di orientamento sessuale – per non parlare della discriminazione del popolo rom. Il razzismo contemporaneo si afferma inoltre come «razzismo istituzionale», discriminazione frutto di precise politiche nazionali e locali volte all’esclusione, un «complesso di normative che tendono ad escludere, inferiorizzare e talora ghettizzare la popolazione migrante», esito anche dell’affermazione di partiti e politiche che si fondano sul contenimento dell’immigrazione e sconfinano nella xenofobia. La discriminazione istituzionale si manifesta ad esempio nelle differenti modalità di accesso (o non accesso) ai servizi sociali, nella marginalizzazione dei migranti nelle carceri – dove sono sovrarappresentati rispetto alla popolazione “autoctona” – nella negazione del diritto di voto alle elezioni amministrative e nella negazione del diritto alla cittadinanza.
Il razzismo si esprime anche nelle questioni di genere e nella doppia discriminazione – in quanto donne e in quanto straniere – di una vasta popolazione immigrata che si occupa del lavoro di cura nelle case italiane. E si esprime, ancora, nella costruzione della «frontiera mediterranea», nelle politiche di sicurezza adottate dai Centri di identificazione e di espulsione (dove i diritti dei migranti vengono negati e compressi e dove i respingimenti facili non tengono conto della normativa internazionale e della legalità delle procedure di allontanamento) e nella costruzione della «emergenza securitaria» con la quale vengono gestiti i flussi di migranti in arrivo a Lampedusa, che finisce per sopprimere l’etica del mare. A Lampedusa l’emergenza mediatica, unita a precise strategie politiche, fa salire l’allarme sociale e quindi la richiesta di sicurezza a danno dei diritti dei migranti, che una volta spenti i riflettori della cronaca allarmistica quotidiana finiscono nell’oblio e nell’invisibilità. È questo il quadro di riferimento, espresso seguendo le parole introduttive di Mario Grasso, curatore del volume, nel quale si colloca “Razzismi, discriminazioni e confinamenti” (Ediesse 2013), una corposa raccolta di saggi frutto di un convegno internazionale che si è svolto l’anno scorso ad Agrigento.
Le migrazioni sono viste innanzitutto come eredità del colonialismo. Scrive Renate Siebert: «Non possiamo parlare di immigrazione senza riflettere sul colonialismo perché gran parte delle migrazioni rappresentano una variante del dominio coloniale, sono la sua ombra e la sua eredità, e nella struttura stessa di molti processi migratori si perpetua la dimensione coloniale». Il razzismo serve al capitalismo e quest’ultimo erige nuovi muri, concreti e simbolici, dalla frontiera che separa Stati Uniti e Messico ai Centri di detenzione, dal ruolo giocato ai paesi di frontiera nel Mediterraneo, come la Libia, allo status di Lampedusa. In un contesto economico che ha bisogno di forza lavoro immigrata e spesso dequalificata, non manca un approfondimento sulla crisi economica della Grecia, dove aumentano discriminazione e razzismo nei confronti delle categorie più fragili come appunto gli immigrati.
Una seconda parte del volume analizza le questioni di genere legate al lavoro di cura di anziani, disabili e bambini fatto nelle case italiane dalle donne migranti: colf e badanti sono in una condizione di estremo rischio, disagio ed esclusione sociale, impiegate in lavori in gran parte irregolari, col doppio svantaggio di essere donne e di essere straniere. Sintetizza Alisa Del Re: «Non è difficile allora immaginare la posizione di estremo rischio e vulnerabilità in cui colf e badanti sono sottoposte quotidianamente, in una condizione lavorativa priva delle più basilari garanzie dei diritti, in cui difficilmente si rispettano gli orari di lavoro e gli straordinari non sono retribuiti, non sono concessi e rispettati giorni di riposo o vacanza, la malattia non è pagata né viene tutelata la maternità, il numero e il tipo di mansioni da svolgere le accomunano a “tuttofare” e dove viene meno la possibilità di frequentare altre persone e avere uno spazio privato e tempo libero per sé». Queste donne spesso rimangono intrappolate nella «catena globale della cura»: forniscono welfare nel paese di immigrazione ma sono costrette ad assumere personale straniero per assistere a loro volta i familiari anziani rimasti in patria. Il lavoro svolto dalle badanti nelle «segrete stanze» – spiega Ignazia Bartholini – le rende invisibili alla società e allo stesso tempo è ambiguo, perché mescola l’asimmetria di potere nei confronti del “datore di lavoro” – un anziano, un disabile – e il rapporto gerarchico sotteso a questa relazione con l’intimità necessaria al lavoro di cura, che si regge sulla partecipazione al dolore della persona assistita e ai suoi bisogni più intimi. Le donne migranti che si occupano di cura vivono inoltre, spiega Alessandra Sciurba, un «doppio vuoto»: quello che le separa dal paese in cui vivono, perché isolate nelle case italiane, e quello che le separa dalle famiglie lasciate in patria, con minori privi di guida che si abbandonano al consumismo, uomini soli, anziani privi del sostegno dei familiari più stretti. È una vita dura, che ha costi sociali e personali altissimi e nella quale anche la maternità diventa scelta difficile.
Il volume si sofferma poi sulle discriminazioni istituzionali, frutto di precise politiche di esclusione degli immigrati dalla partecipazione alla vita sociale, economica e politica attuate attraverso atti di governo e ordinanze comunali – dall’esclusione dei figli di immigrati irregolari dagli asili nido alle diverse forme di esclusione degli stranieri dai contributi economici fino ad arrivare a ordinanze contro la libertà di culto, specialmente nei confronti dei musulmani e, non da ultimo, al mancato riconoscimento del diritto di voto alle elezioni regionali e amministrative. Sostiene Maurizio Ambrosini: «Molte ordinanze in tal modo hanno preso di mira, direttamente o indirettamente, la componente più povera e sbandata della popolazione immigrata: quella che cerca rifugio in stabili abbandonati, dorme sulle panchine dei parchi, consuma sostanze alcoliche in pubblico, domanda l’elemosina. Altre hanno inteso vietare gli assembramenti in determinati luoghi pubblici dove si raccolgono gli immigrati, altre ancora hanno colpito le attività economiche avviate da immigrati, soprattutto quando divengono punti di incontro dove si radunano gruppi di persone e si praticano orari prolungati. Non mancano neppure gli interventi che hanno ostacolato la libertà di culto per i musulmani o sanzionato l’uso di veli che nascondono il volto».
C’è poi il tema del carcere e della discriminazione attuata nei confronti di una popolazione, quella immigrata, sovrarappresentata rispetto agli italiani anche perché più esposta ai controlli delle forze di polizia. «La condizione detentiva, vissuta nell’ambito delle attuali condizioni di sovraffollamento, carenza di opportunità educative, precarietà alloggiativa, si traduce in un’ulteriore preclusione all’inserimento nella società di accoglienza, sfociando spesso in atti di autolesionismo o addirittura in gesti estremi come il suicidio», spiega Vincenzo Scalia. Allo stesso tempo, la mole di dati presentata evidenzia prospettive di cambiamento: dalla marginalizzazione il carcere può diventare canale di integrazione nel momento in cui apre le porte alle misure alternative (soprattutto grazie all’intervento dell’associazionismo) e quando gli stessi detenuti ricorrono agli altri gradi di giudizio, in appello e in Cassazione. Significa che hanno maggiore conoscenza degli strumenti giudiziari e delle tutele che permetterebbero loro di compensare lo “svantaggio” di partenza. «Da un lato è vero che continua la tendenza relativa alla sovrarappresentanza dei detenuti stranieri all’interno delle carceri italiane, così come continua ad esserci una presenza maggiore degli stranieri tra i detenuti in attesa di giudizio. […] Dall’altro lato, i dati relativi agli alti gradi di giudizio dimostrano come gli stranieri stiano integrandosi all’interno del sistema penale italiano nella misura in cui presentano appello e ricorrono in Cassazione, non accettando passivamente le sentenze a loro sfavorevoli e acquisendo maggiore consapevolezza dei deficit che sono all’origine della loro sovrarappresentanza all’interno del sistema penale».
C’è poi Lampedusa, isola di frontiera, dove è entrata in crisi l’etica del mare (i pescatori che soccorrono i migranti rischiano il sequestro del peschereccio) e dove la rappresentazione politico-mediatica degli sbarchi è funzionale al mantenimento di politiche securitarie. A Lampedusa lo «spettacolo dell’emergenza» vive nell’alternanza fra visibilità e invisibilità degli sbarchi, dell’isola e dei migranti che arrivano sulle sue coste. Questa dinamica è ben descritta da Antonella Elisa Castronovo. Nel 2011 viene rappresentata «la grande invasione» in arrivo dalla Tunisia e i media mettono in scena lo show della paura, il Governo stesso è responsabile della crisi fin quando non interviene, ma l’intervento è fatto a danno dei lampedusani, che rimangono da soli, e dei migranti confinati nei Cie e qui diventati “invisibili” perché le condizioni della detenzione, le proteste e gli atti di autolesionismo finiscono nel silenzio. Dall’invisibilità si passa, di nuovo, alla visibilità quando sull’isola arriva Papa Francesco, nell’estate 2013: sui media la retorica vira verso il rispetto dei diritti umani, entra in ballo la dignità, i “clandestini” diventano “migranti”. Ma al di là delle retoriche usate, «l’elemento che accomuna la visibilità e l’invisibilità della “emergenza” è il processo di politicizzazione delle migrazioni internazionali; ovvero quel processo che, invocando la necessità di difendere le frontiere nazionali, ha permesso ai governi di legittimare la sistematica violazione dei diritti umani dei migranti».
Il volume, denso di spunti di riflessione, riflette tutta la complessità del fenomeno migratorio e testimonia, ancora una volta, quale sia la mole di interrogativi e di sfide che le migrazioni portano con sé: perché “da fuori” (ma si può ancora parlare di un fuori?) non arrivano braccia da lavoro, arrivano persone che interagiscono con le società di accoglienza (che spesso accoglienti non sono affatto), esigono rispetto dei propri diritti, richiedono un ripensamento di assetti sociali e normativi solo apparentemente consolidati. Soprattutto, richiedono di riconoscere l’Altro come uguale a Sé. Perché non c’è più un Sé, se viene a mancare l’Altro.
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Titolo: Razzismi, discriminazioni e confinamenti
Autore: Mario Grasso
Editore: Ediesse
Pagine: 432
Prezzo: 20 €
Anno di pubblicazione: 2014