No, le mamme moderne non sono delle eroine. Ma devono destreggiarsi fra il lavoro che ormai è privo di garanzie per tutte (per le precarie e per le freelance, per le partite Iva e pure per le poche che hanno contratti più stabili e che si vedono costrette a presidiare la scrivania), la cronica carenza di asili nido e di servizi per l’infanzia, gli ostacoli che di fatto le donne incontrano da quando decidono di diventare madri a quando si ritrovano in casa da sole, con l’esigenza di assistere il neonato, interpretare i suoi pianti, iniziare ad allattare, far funzionare la casa e prendersi cura del proprio corpo che cambia. E poi, quando il piccolo cresce, bisogna fare le equilibriste per coordinare i tempi del lavoro e quelli della scuola, per prendersi cura dei figli e dei compagni (già, i mariti, che a lavoro riescono anche a dimenticare il loro ruolo di padri, mentre le donne contemporaneamente lavorano e pensano a organizzare la giornata dei figli e pure la cena della famiglia) e per non dimenticare di prendersi cura anche un po’ di se stesse. E poi ci sono i costi da sostenere: quelli dei pannolini, del latte in polvere, dei farmaci e dei passeggini pieni di opzioni (mezzi di trasporto da mille euro che non a caso le mamme legano con la catena nei portoni dei palazzi), quelli per la scuola, quelli per i costi estivi, quelli per le baby sitter (perché l’orario scolastico non è certo fatto a misura di chi lavora), quello per i corsi di sport… L’elenco è infinito.
Per questo, di fronte a tutte le difficoltà che incontrano, le mamme non sono eroine: sono guerriere. È quanto racconta Elisabetta Ambrosi nel suo libro “Guerriere. La resistenza delle nuove mamme italiane” (Chiarelettere 2014), in cui l’autrice riversa la sua esperienza di mamma e giornalista («Ho trentanove anni, sono una giornalista free lance, ho un figlio di quattro anni e sono una guerriera. Ogni giorno – e pure di notte – provo a tenere insieme un lavoro da inventare e difendere, un bambino da lavare-nutrire-vestire-educare-amare, la mia libertà e le mie passioni. Il tutto mentre la crisi morde e il welfare si sgretola») e quella di tante amiche, conoscenti e donne con cui è venuta in contatto attraverso il suo blog “Sex and (the) Stress” e che hanno risposto a domande sul lavoro, sui figli, sulla scuola, sugli equilibri familiari, sui loro sentimenti.
Scrive Ambrosi: «Dopo aver letto le loro risposte, ancor più mi sono convinta che noi – giovani madri della generazione co.co.co-partite Iva e del debito che si mangia quei servizi che dovrebbero aiutarci – siamo delle guerriere, delle combattenti, lottatrici in difesa dei nostri desideri di fecondità e di vita contro i molti ostacoli disseminati lungo il percorso. Per questo inciampiamo spesso, e a volte ci facciamo pure male, per poi rialzarci, magari con l’aiuto di una mano amica». Ne emerge una serie di ritratti, di dialoghi briosi e di esperienze di vita che evidenziano le acrobazie e gli sforzi che le mamme di oggi fanno (spesso con un faticoso successo: sono capaci di arrangiarsi in qualunque situazione) davanti alla miriade di ostacoli che incontrano nella vita quotidiana. Un fatto è certo, ed è il nucleo forte che dovrebbe spingere le mamme a osare di più, a reclamare, a protestare per i loro diritti e per quelli dei bambini e delle famiglie: «crescere figli è un fatto politico», dice l’autrice.
La maternità è un fatto politico. Le esigenze delle mamme e dei figli riguardano l’intera società e chiamano in causa politiche statali carenti, lacunose, inesistenti, per non parlare di una cultura spesso ferma a modelli passati. Ma non è un trattato teorico, quello che l’autrice mette giù: è una collezione di dialoghi e racconti concreti di quali siano le difficoltà oggettive delle mamme, di tutte le mamme, di quelle con lavoro garantito, di quelle precarie, di quelle separate e di quelle che mamme ancora non sono. C’è un argomento che rende bene l’idea di quanto la maternità non sia considerata un fatto privato: dopo il parto, racconta Ambrosi, le mamme tornano a casa e per loro spesso comincia un periodo di isolamento e di ritiro dalla vita pubblica, anche se «per ogni donna che partorisce c’è dietro una suocera, direbbe Brecht» e loro case si riempiono spesso (ma non vale per tutte le donne: chi non è fortunata si arrangia, appunto) di madri e suocere che fanno lavatrici e preparano cene. Niente di più sbagliato: è proprio in quel momento che alle donne servirebbe il sostegno del marito (altro che congedo di paternità per ventiquattrore) e magari di un’ostetrica. Sostiene l’autrice: «Mi chiedo se venga prima l’uovo o la gallina, e cioè se sia la nostra cultura arretrata a partorire leggi mostruose come il congedo simbolico – di un simbolismo che offende – oppure siano le (finte) riforme ad alimentare e confermare una cultura ferma a cinquant’anni, anzi cent’anni fa. Probabilmente, mi rispondo, entrambe, nel solito italianissimo circolo vizioso, che tocca anche a noi spezzare, lottando in casa». Se ci fosse un tale aiuto, argomenta Ambrosi, forse a molte donne sarebbe risparmiata anche la depressione post partum. Esiste e bisogna parlarne, scrive la giornalista, ma «niente mi toglie dalla testa che dietro l’etichetta di depressione post partum ci sia molto altro: come la solitudine in cui sono lasciate le donne, a casa senza il proprio compagno, perché i congedi parentali non esistono e quando ci sono non vengono usati; l’assenza di un’ostetrica che sarebbe essenziale i primi giorni per insegnare i gesti di cura del bambino, innanzitutto l’allattamento, come previsto da altri Stati europei. Sono tutte cause che danneggiano sì l’umore della donna, ma dall’esterno».
Fra le tante testimonianze delle donne che fanno sentire la loro voce in questo libro emerge una costante: tutte devono combattere a prescindere dal lavoro che fanno, o che non fanno. Ogni situazione richiede una lotta. Chi si destreggia fra contratti a termine racconta: «ho cercato, con l’aiuto di stick e del calendario, di saltare esattamente i mesi nei quali restare incinta avrebbe significato partorire al momento del rinnovo». Chi ha un lavoro stabile ammette: «visto il mio ruolo non possono declassarmi, ma lo sai, ci sono mille modi in cui le donne vengono degradate dopo la maternità». C’è chi racconta: «Dopo che ho avuto il terzo figlio, mi chiamarono e mi dissero: “Senti, abbiamo capito che vuoi fare la mamma, ti diamo un’ottima buonuscita, pensaci bene”. Restai scioccata: se avevo tre figli significava che volevo fare solo la mamma? L’avrebbero mai detto a una donna in Francia?».
La resistenza delle mamme italiane, verrebbe da dire, finora si è combattuta soprattutto con l’arte di arrangiarsi. Forse è il caso di andare oltre e di portare all’attenzione pubblica e politica le istanze delle madri, delle famiglie e dei bambini – e questo libro, con brio e non senza qualche accento commovente, potrebbe essere un buon punto di partenza per istituzioni e politici che vogliano fare davvero qualcosa per la maternità, e non sbandierarla solo come promessa elettorale priva di contenuti reali. Il fatto che le donne sappiano cavarsela da sole – bene o male, piangendo o ridendoci su, da sole o facendo rete fra loro – non può essere l’alibi perché tutto rimanga sempre impantanato nell’eterno immobilismo di certa italianità.
Titolo: Guerriere. La resistenza delle nuove mamme italiane
Autore: Elisabetta Ambrosi
Editore: Chiarelettere
Pagine: XXIII-254
Prezzo: 14 €
Anno di pubblicazione: 2014