Jürgen Habermas, dopo dieci anni di lavoro, quelli che vanno dai suoi ottanta ai suoi novanta, ha mandato da poco alle stampe un’opera sorprendente per le sue dimensioni (due volumi, più di 1700 pagine) e per i suoi contenuti. Una duplice sfida appare rapidamente chiara dalle pagine di «Auch eine Geschichte der Philosophie»: sfida alla interpretazione corrente della modernità come secolarizzazione e sfida alla «disintegrazione» accademica della filosofia in tante diverse tecniche. Da una parte il filosofo, erede e capofila della teoria critica, propone di interpretare l’intero progresso umano alla luce della «costellazione di fede e sapere» e dall’altra richiama la filosofia al suo compito primario: rispondere alle grandi domande sull’origine e la destinazione dell’umanità, quelle sintetizzate da Kant più di due secoli fa: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare? che cosa è l’uomo?
Habermas vuole spingere i filosofi a riprendere un cammino, mai finito, anche nell’epoca attuale, che è post-metafisica. Il che significa che non possiamo più rifugiarci nel mito o nella garanzia di un Essere che faccia tutt’uno con il bene, il bello e il giusto e detti regole. Ma non dobbiamo rinunciare a un «pensiero generale».
Finora il «processo di apprendimento», sul quale si basa la visione habermasiana, nella seconda metà del Novecento, ha dato una discreta prova della sua capacità di «integrazione». Per il filosofo dell’«etica del discorso», a partire dalle risorse morali presenti nella comunicazione umana (il linguaggio) si può realizzare un progresso che regola, con il diritto, il traffico delle attività umane. Questo progresso ha lasciato intravedere un futuro di possibile normatività universale, kantianamente al di sopra delle differenze tribali e nazionali.
Ora però rischiamo un «deragliamento» da quel cammino: sembrano rinsecchirsi le risorse a disposizione della modernità per riprodurre sé stessa, sembra esaurirsi il carburante che alimenta le istituzioni della libertà. Preoccupa la crisi di quei meccanismi che avevano funzionato, specialmente in Europa, nel secernere diritto a partire dalle risorse morali della vita pubblica e della politica.
Il problema cui Habermas dedica queste 1700 pagine è proprio quello delle «fonti» della normatività, delle energie che tengono insieme e possono far crescere la solidarietà tra gli esseri umani. Per questo ha voluto fare la storia di queste risorse cercandone le tracce a partire dagli inizi di homo sapiens, nei tre millenni della «costellazione» religione-conoscenza-vita delle comunità. Dove stanno le chiavi che spiegano come dai riti degli ominidi siamo arrivati fino alla Costituzione americana del 1787, alla carta dei diritti umani del 1948 o all’Unione Europea? E, se le troveremo, non saranno queste le stesse chiavi che ci possono rimettere in cammino?
Come preannunciato dalla riflessione «postsecolare», fin dal dialogo del 2004 con il cardinale Ratzinger, e più recentemente con Verbalizzare il sacro, Habermas mette qui al centro del suo pensiero la religione, la dimensione sacrale e rituale che precede la formazione del linguaggio e della razionalità che il linguaggio incorpora. La storia delle risorse che producono normatività, e dunque morale, e poi diritto, comincia dunque da lì. Per questo troviamo nel libro una rinnovata e vistosa attenzione all’«epoca assiale» – il concetto è di Karl Jaspers – che è il periodo tra il nono e il terzo secolo avanti Cristo, che vede una straordinaria fioritura di fede e di pensiero, con Confucio e Lao Tse in Cina, con le Upanisad e Buddha in India, con i profeti biblici in Palestina, con Omero e la filosofia greca. In tempi relativamente vicini, e senza contatti degli uni con gli altri, si producono fenomeni che offrono insegnamenti morali e principi di sapere che consentono agli individui e alle comunità di affrontare le minacce naturali e quelle sociali, insegnando a gestire le dissonanze cognitive e i rovesci di ogni genere, aiutando l’integrazione a fare il suo cammino.
Le energie solidali che tengono insieme gli ordinamenti sociali si generano e rigenerano storicamente nelle pratiche di culto delle comunità, la secolarizzazione trasferisce e traduce poi le obbligazioni di natura religiosa in strutture di coscienza astratte. Habermas ha confessato, presentando il suo libro in interviste alla stampa tedesca, e anche nel seminario tenuto recentemente a Cortona con filosofi e studiosi italiani, di essersi ispirato alla «famosa formulazione di Adorno che tutti i contenuti teologici devono “immigrare nel profano”». E così hanno fatto storicamente, ma quel che non è chiaro – ha aggiunto – è se e come questa traduzione, dal teologico al laico, «possa proseguire oggi» di fronte a problemi etici di tipo completamente nuovo come quelli posti dalla fine della crescita naturale dell’organismo umano e dalla possibilità di interventi incontrollati sulla sua struttura genetica.
L’ipotesi di continuare ad attingere ai depositi di senso, alle «riserve semantiche» della religione appare ad Habermas plausibile. C’è un bivio nella storia della filosofia che questo libro propone come centrale, quello separa la via di David Hume da quella di Immanuel Kant: entrambi concordano nel separare la fede dalla scienza, ma il primo elimina ogni lascito e traccia della fede giudaica e cristiana dalla filosofia, mentre il secondo cerca di includere nella filosofia contemporanea la sostanza concettuale che la religione cristiana aveva fatto propria attraverso la simbiosi con la filosofia greca, il neoplatonismo, Origene, Agostino. Hume decostruisce i concetti di identità personale e di obbligazione morale, mentre Kant intende ricostruire il nucleo morale dell’etica cristiana e della legge naturale «nei limiti della pura ragione». Un bivio che ha un seguito nell’empirismo, Newton, nelle scienze naturali, da una parte, e nell’idealismo trascendentale e in Hegel, dall’altra, soprattutto l’Hegel della filosofia del diritto che pone al centro della modernità la questione dell’integrazione sociale di individui, nella loro unicità, con norme astratte e generali. Un tema che rimane caro alla teoria sociale critica, che Habermas spinge a esplorare i legami tra l’individuo e la comunità, sulla formazione del «noi» nella concretezza storica delle forme particolari di vita che ogni comunità assume, con le sue norme-guida.
Il pensiero di Habermas incontra qui il pragmatismo americano, in particolare quello di Charles Sanders Peirce, per la sua speciale capacità di render conto di come funziona la ragione nella storia e di come sia possibile rigenerare in diversi contesti la responsabilità morale. E con Peirce si conclude il libro.
Quest’opera imponente offre dunque conferme del percorso del grande filosofo tedesco, ma anche diverse sorprese e resterà a lungo al centro della discussione filosofica contemporanea. E lascia aperto un interrogativo drammatico: se i processi di apprendimento morale, che si incarnano nella costituzionalizzazione delle libertà legali, si stanno inceppando, sarà ancora la costellazione fede-sapere ad alimentarli? E se anche le risorse religiose, come pare, scarseggiano, ci saranno movimenti secolari e pratiche sociali capaci di rimettere in moto la macchina?
Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su La Repubblica il 10 gennaio
Titolo: «Auch eine Geschichte der Philosophie» (Anche una storia della filosofia)
Autore: Jürgen Habermas
Editore: Suhrkamp
Pagine: 920 + 826 (due volumi)
Prezzo: 98 €
Anno di pubblicazione: 2019