A poco più di un anno dall’avvento di Donald Trump alla presidenza degli Stati uniti, le relazioni tra Washington e Tehran sono tornate al clima di tensione, sfiducia e demonizzazione del passato. Sembra lontanissima l’atmosfera di aperture creata con la firma dell’accordo sul nucleare tra l’Iran e cinque potenze mondiali, il 14 luglio del 2015: noto come Jcpoa, o Joint comprehensive plan of action, l’accordo ha riportato l’Iran a pieno titolo sulla scena internazionale. Da quando si è insediato alla Casa Bianca nel gennaio 2017, Donald Trump al contrario è tornato a descrivere l’Iran come una minaccia, una “dittatura corrotta”, uno stato “che protegge il terrorismo”. Trump minaccia anche di stracciare l’accordo sul nucleare, distruggendo del tutto l’eredità del suo predecessore Barack Obama.
Un “ritorno al passato”, scrive Luciana Borsatti in L’Iran al tempo di Trump, (Castelvecchi Editore, marzo 2018), un libro che ripercorre gli eventi dell’ultimo anno per raccontare come l’avvento del nuovo presidente negli Usa abbia cambiato la scena anche in Iran. Perché quell’accordo, che ha rappresentato un terremoto geopolitico sulla scena mediorientale, in Iran aveva acceso aspettative enormi: la speranza comune era che finito l’isolamento internazionale, cadute le sanzioni, le attività economiche sarebbero rifiorite e un clima internazionale più disteso avrebbe favorito anche nuove aperture interne. Aspettative fin troppo grandi, probabilmente. Le sanzioni sono in effetti finite e il commercio del petrolio è ripreso (gli idrocarburi sono la principale fonte di reddito dello stato iraniano), ma le banche iraniane restano bandite dal sistema finanziario americano: e questo è un forte deterrente anche per le banche europee, che rischiano di essere penalizzate dagli Usa se lavorano con Tehran. Così qualche ripresa c’è stata, ma gli iraniani non hanno visto il cambiamento che aspettavano. L’avvento di Trump ha dato un colpo alle residue speranze.
Corrispondente dell’agenzia Ansa da Tehran, Luciana Borsatti ha vissuto in Iran al tempo delle sanzioni, durante la presidenza di Mahmoud Ahmadi Nejad, e poi negli anni di “moderazione e speranza” del suo successore, Hassan Rohani, e guarda con allarme il ritorno al passato. Il suo racconto parte dall’Assemblea generale dell’Onu del settembre 2017 a New York, con l’intervento del neo presidente Trump e, a distanza di un giorno, quello dell’iraniano Rohani appena rieletto per il suo secondo mandato. Il confronto tra i due è la migliore illustrazione di quel “ritorno al passato”: la differenza delle parole, i toni, i gesti, tutto: a muso duro il primo, pacato il secondo. Come riassume lapidario un commento dilagato su twitter: “Trump sembrava Ahmadi Nejad e Rohani sembrava Obama”.
Da allora è stata una escalation. Il presidente Trump ha ripetutamente minacciato di non “certificare” al Congresso che l’Iran abbia rispettato l’accordo sul nucleare, adempimento che deve ripetere ogni tre mesi (la prossima scadenza sarà il mese prossimo, e sarà un momento rivelatore: potrebbe davvero innescare il processo che porterà gli Usa fuori dall’accordo). A distanza, Rohani ha risposto che l’Iran “non sarà il primo paese a violare l’accordo”, ma “risponderà in modo deciso e risoluto alla sua violazione da parte di chiunque altro”. Questa è la posizione ribadita in ogni occasione, dal presidente Rohani e dal ministro degli esteri Javad Zarif (la cui popolarità in Iran è immensa proprio per aver negoziato l’accordo che ha messo fine all’isolamento del paese). Tehran fa notare che spetta solo all’Agenzia internazionale per l’energia atomica certificare se l’accordo sia rispettato, e finora l’Aiea ha constatato che sì, l’Iran ha rispettato tutti i suoi obblighi. Non solo: l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, Federica Mogherini, ha ribadito che il Jcpoa “non è un accordo bilaterale … e non è facoltà di nessun singolo paese mettervi fine” (con l’Iran, l’accordo è stato firmato da Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania con l’Unione europea). Per Tehran, le minacce del presidente americano sono “la prova che gli Usa non sono un partner negoziale affidabile”, ha dichiarato tra l’altro Rohani.
Ma cosa succederebbe se gli Stati uniti decidessero davvero di uscire dall’accordo sul nucleare? Dipenderà molto dalle potenze europee: “Finché le altre potenze restano fedeli all’accordo e l’Iran potrà continuare a esportare petrolio e godere dei benefici che derivano dall’intesa, Tehran non ne uscirà”, osserva Ali Akbar Dareini, giornalista iraniano che per 17 anni ha diretto l’ufficio dell’agenzia Ap a Tehran (posizione scomoda, per un iraniano, essere il corrispondente capo di un’agenzia americana). Interrogato da Borsatti, Dareini aggiunge però che “se anche l’Europa dovesse unirsi agli Stati uniti nell’imporre nuove sanzioni, tali da privare l’Iran di ogni beneficio da quell’accordo”, allora neanche Tehran si sentirà più vincolata. Il Jcpoa, è bene ricordare, ha imposto una drastica limitazione delle attività atomiche dell’Iran, cosa che ha allontanato il momento in cui Tehran sarebbe ipoteticamente in grado di mettere insieme una bomba atomica: qualora volesse farlo. Ma secondo Dareini neppure se l’accordo fosse morto e stracciato l’Iran si precipiterebbe a costruire la bomba atomica, e in effetti non era mai stata la sua intenzione – “a meno che non venga militarmente attaccato”. Anche prima dell’accordo la strategia iraniana era piuttosto quella che Dareini definisce “legittima deterrenza”: procurarsi la breakout capability, cioè la capacità di costruire una bomba atomica, ma non costruirla effettivamente. Ovvero, la capacità nucleare come “un deterrente credibile senza costruire una bomba atomica”, per potenziare la sua sicurezza nazionale senza però violare i suoi obblighi in base al Trattato di non proliferazione nucleare (che in effetti l’Iran non ha mai violato).
Certo è che, appena usciti da anni di isolamento e sanzioni, gli iraniani “si preparano a nuovi tempi bui”, commenta Borsatti, questa volta citando un sentimento diffuso in Iran. Il suo racconto infatti apre numerose finestre sul paese. Flash visivi: “l’ingegneria di strade ad alto scorrimento e delle sopraelevate” che attraversano Tehran, le “insegne rosse di piccole botteghe che resistono all’assalto dei grandi centri commerciali”, il viaggio nella metropolitana affollata di venditori ambulanti, donne e uomini. La visita al cimitero monumentale a sud di Tehran, Behesht-e Zahra, il cimitero dei martiri, dove alle tombe dei caduti della guerra Iran-Iraq si sono aggiunte ora le tombe dei “martiri” iraniani in Siria (non ci sono cifre ufficiali, ma le stime citate da Borsatti oscillano tra 200 e 2.500 morti, tra iraniani e afghani). Qui l’autrice incontra persone che rendono omaggio a questi “difensori della patria”, uomini che “hanno combattuto contro Daesh [lo Stato Islamico] per impedire ai terroristi di entrare in Iran” – un’eventualità nient’affatto remota, come hanno dimostrato gli attentati al parlamento iraniano e al mausoleo dell’imam Khomeini nel giugno scorso.
Nell’Iran al tempo di Trump incontriamo anche molte donne: dalla hojjatoleslam (nella gerarchia del clero scita è un grado più che mullah, uno meno che ayatollah), che allude a un cambiamento che coinvolge perfino il clero, alla studiosa Leyla Karami, che insegna a Roma e spiega come stia cambiando lo statuto delle donne. Fino alla giovane scrittrice Nasim Marashi, che si ribella all’immagine stereotipata dell’Iran che vige in Occidente: “Si pensa che ci siano solo arresti e censura. Di sicuro un libro che parli di carceri e tortura avrebbe molto successo da voi”, dice (il suo romanzo più noto parla di tre donne, ex compagne di università, e delle difficili scelte di vita che devono affrontare).
Incontriamo poi economisti, politologi, e numerosi imprenditori italiani che lavorano in Iran e hanno creduto alle “grandi opportunità” che si aprivano con la fine delle sanzioni. Anche qui però le aspettative tardano a realizzarsi; sono certamente aumentati i piccoli e medi investimenti, è tornato a salite l’intercambio commerciale, ma restano in sospeso i numerosi “memorandum d’intesa” per grandi opere. Uno dei motivi è che si sono tirate indietro Sace e Cassa Depositi e Prestiti, le agenzie pubbliche che dovevano intervenire come garanti a sostegno delle imprese italiane. Qui però c’è una novità, l’accordo quadro firmato l’11 gennaio scorso tra Invitalia Global Investment (agenzia nazionale per gli investimenti, di proprietà del ministero dell’economia) e le banche iraniane Bank of Industry and Mine e Middle East Bank, e che dovrebbe portare a finanziare progetti per un totale di 5 miliardi di euro. Non sono le grandi risorse promesse a suo tempo dalla Sace, ma forse qualcosa si muoverà.
Il racconto di Borsatti si conclude con le folle che hanno protestato nelle vie di molte città iraniane alla fine di dicembre scorso, soprattutto città della provincia, cogliendo di sorpresa sia i commentatori che le autorità della Repubblica islamica. La protesta ha coinvolto soprattutto gli strati più modesti della società, lavoratori, la piccola classe media impoverita: ha fatto emergere una rabbia profonda contro la mancanza di prospettive e di lavoro, le diseguaglianze, i privilegi. Così torniamo a cosa preoccupa e agita gli iraniani: il crollo del valore del rial, l’inflazione, la mancanza di investimenti e lavoro. E, sullo sfondo, l’inasprirsi della tensione internazionale.
Insomma: visto da Tehran, un anno di presidenza Trump ha messo in difficoltà il presidente moderato e i sostenitori delle aperture, interne e internazionali. E ha mandato in fumo molte delle speranze degli iraniani.
Titolo: L'Iran al tempo di Trump
Autore: Luciana Borsatti
Editore: Castelvecchi
Pagine: 160
Prezzo: 16,50 €
Anno di pubblicazione: 2018