Da Reset-Dialogues on Civilizations –
Gli eventi di Parigi, gli attentati di gennaio contro i giornalisti di Charlie Hebdo e contro il supermercato kosher, la rapida ascesa dello Stato islamico e del suo carico di violenza immane impongono di farsi domande, di capire quello che sta accadendo, forse di difendersi. Gli eventi di Parigi hanno fatto tornare in tutta Europa la paura dell’Islam. Bisogna davvero aver paura di una religione? Questo timore è giustificato? Come si fa a dimostrare che quell’Islam che viene agitato dai jihadisti è fatto di pezzetti di versetti usati per giustificare un odio feroce ed è diverso da quell’Islam che è “la radice della parola Pace”? In realtà “l’Islam che fa paura” descritto nell’ultimo libro da Tahar Ben Jelloun, scrittore, giornalista, intellettuale, è quello deviato e distorto usato come leva di mobilitazione di giovani privi di punti di riferimento, che vivono ai margini dell’Occidente e nelle parole dei reclutatori finiscono per trovare un’identità. L’Europa si interroga sull’Islam e sulla paura dell’Islam e lo scrittore cerca di rispondere attraverso il suo ultimo libro “È questo l’Islam che fa paura” (Bompiani 2015) nel quale disegna un dialogo ideale con sua figlia, francese di origini musulmane, corredando il dialogo con una serie di scritti pubblicati tra il 2012 e il 2015 – dopo Parigi e non solo, dunque.
«Ti rifaccio la mia domanda: dobbiamo avere paura dell’islam? Siamo in guerra?»
«Direi che dobbiamo avere paura di coloro che si servono di questa religione per governare e per dominare gli altri; sì, i jihadisti ci fanno paura, anche se tutti sanno che non sono dei rappresentanti dell’islam reale. Sono loro che ci fanno la guerra, una guerra di tipo nuovo, il nemico esiste, minaccia, semina il terrore, ma non ha volto, non ha un luogo preciso, è ovunque. È difficile da combattere».
La parola dell’autore è semplice e chiara e racconta lo sgomento dei musulmani all’indomani della strage di Parigi, la necessità di leggere il Corano interpretandolo e adattandolo alla modernità e allo spirito del tempo, le pulsioni oscurantiste che agitano tanti paesi islamici. Tahar Ben Jelloun fa riflettere sulle modalità con cui spesso vengono reclutati i giovani che si arruolano fra le file dello Stato islamico e della jihad combattuta contro l’Occidente, nelle miserie morali e materiali in cui si ritrovano a vivere molti musulmani di seconda generazione confinati nelle periferie parigine. Sono francesi, sono nati in Francia da genitori immigrati, sono i fratelli Kouachi della strage di Charlie Hebdo e non solo: «Effettivamente sono francesi ma si sentivano veramente francesi? Sono persone che sono state lasciate presto a se stesse, senza scolarizzazione, senza un percorso formativo; delinquenti che sono stati in prigione, che ne sono usciti, la testa vuota o anzi, piena di confusione. Sono state prede ideali per il reclutatore che lavorava per la jihad». Forse è questa la parte dell’opera che più merita di essere sottolineata, perché la domanda che spesso rimbalza davanti agli eventi parigini e a quello che ne è seguito riguarda proprio l’identità di chi si arruola nelle file dello Stato islamico provenendo dal cuore dell’Europa. Tahar Ben Jelloun chiama a riflettere sulle responsabilità dell’Occidente di fronte a una seconda generazione di migranti nati in Europa, con la carta d’identità europea, ma cresciuta «nel vuoto culturale» e in periferie «malsane» e abbandonate alla disoccupazione. Scrive l’autore: «Alcuni non si sentono del tutto francesi, si sono allontanati dalla Francia e hanno trovato nell’islam più che un conforto, più che una risposta alle loro angosce: un’identità. È a partire da qui che si arriva al tunnel che inizia con la piccola delinquenza, passa per il carcere, e poi si viene presi per mano da indottrinatori che prospettano un avvenire radioso nella lotta contro questo Occidente che li disprezza o li ignora. Da quel momento, uscendo dalla prigione, alcuni sono disponibili per andare a combattere contro i ‘miscredenti’». Ci sono le responsabilità dell’Occidente, che ha lasciato le macerie in Iraq, come ci sono quelle dei diversi canali di finanziamento e sostegno che arrivano all’Isis.
Certamente l’Islam pone delle sfide, l’autore non lo nasconde, e una è rappresentata dalle difficoltà dei musulmani di fronte alla laicità e al suo postulato assoluto: la libertà di espressione. Scrive Tahar Ben Jelloun che «l’islam fa fatica ad accettare la laicità. Certi musulmani l’accettano, altri non capiscono il senso di questa separazione. La laicità implica la libertà di espressione. A partire da questo postulato, non c’è limite a questa parola». Allo stesso tempo, lo scrittore evidenzia le responsabilità dei paesi occidentali di fronte alle generazioni di giovani di fatto lasciati in balia dei reclutatori islamisti e l’atteggiamento diverso riservato a Israele e Palestina, vissuto come una ferita e un’ingiustizia da parte dei musulmani; ripercorre i diversi esiti che gli eventi degli ultimi anni hanno avuto in Tunisia, Marocco, Egitto, Libia e Siria; sottolinea come le rivolte arabe abbiano finito per favorire gli islamisti – per l’assenza di democrazia, per una paura della crisi economica che ha finito per favorire il rifugio nella religione, per la crescita stessa della paura dell’Islam alimentata in Europa da diversi partiti politici. «In fondo, la paura dell’islam è un buon alleato dell’estremismo e del razzismo. Certi islamisti usano le stesse strategie per rifiutare ciò che viene dall’Occidente e soprattutto coloro che sostengono il dialogo tra le religioni».
L’autore indica anche, sul medio e lungo periodo, una serie di passi da fare. «L’islam resterà a lungo uno spaventapasseri; farà paura e farà fatica a integrarsi nel tessuto sociale della Francia – scrive a caldo dopo gli attentati di Parigi e forse l’analisi può essere estesa anche al di fuori dei confini francesi – Per questo le autorità dovrebbero occuparsi del reclutamento degli imam, controllare i loro discorsi, non accettare che siano finanziati da paesi stranieri come l’Arabia Saudita o l’Iran; dovrebbero anche concentrare i propri sforzi nelle prigioni, diventate un luogo ideale per l’indottrinamento e, all’uscita, per il reclutamento in vista della jihad. Infine, si dovrebbero concentrare gli sforzi nelle scuole, in cui i manuali scolastici dovrebbero essere rivisti e in cui dovrebbero essere tenuti corsi sulla razzismo o sulla storia delle religioni».
E alla domanda se la violenza sia insita nell’Islam, risponde ancora: «Evidentemente l’islam prega per la pace e la tolleranza, coltiva valori umanisti, ma nello stesso tempo vi vediamo la jihad, la lotta contro i miscredenti, l’apostasia e molte altre cose che sono interpretate in modi diversi. Tutto è relativo e tutto dipende dall’interpretazione che si dà a questo o quel versetto ma mai l’islam ha sollecitato il suicidio come strumento di massacro, mai l’islam ha detto che bisogna prendere degli ostaggi e decapitarli, mai ha diffuso l’ignoranza per indurre in errore gli spiriti deboli o malevoli».
L’opera di Tahar Ben Jelloun è meritoria. In un periodo di atrocità perpetrate dallo Stato islamico che mette in scena su internet la sua barbarie, a stento usciti dallo choc collettivo che ha attraversato l’Europa dopo le stragi di Parigi, alle prese con le quotidiane parole d’ordine di tanti partiti che si muovono al limite (e oltre) della xenofobia e dell’islamofobia, le parole dello scrittore sono semplici e chiare e soprattutto non sono indulgenti con nessuno, né con quei jihadisti che brandiscono pezzetti di Corano nella loro guerra d’odio né con l’Occidente con le sue politiche a volte impreparate, a volte opportuniste, a volte irresponsabili.
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