La pace fraintesa è il titolo provocatorio di un agile volume di Luigi Caranti edito per Rubbettino. Con sguardo lucido e attento l’autore articola la sua riflessione in quattro parti: ricostruisce il dibattito sul modello della pace democratica inaugurato da Doyle all’inizio degli anni Ottanta, a cui si deve il rinnovato interesse nei riguardi della riflessione kantiana; analizza dettagliatamente la posizione di Kant nella Pace perpetua (1795), già anticipata in due opere: Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) e Sul detto comune (1793); mette a confronto i due modelli e recupera una dottrina kantiana depurata dai fraintendimenti che agirebbero nella teoria della pace democratica; a sostegno della sua ipotesi riporta il caso della Lega Araba, che in molte occasioni ha scongiurato la possibilità reale di un conflitto.
L’ambizione è duplice: venir fuori dalle secche in cui si è impigliato il dibattito politico e riattivare il potenziale della riflessione kantiana. La consapevole analisi teorica parte dalla precarietà delle relazioni internazionali oggi. Il progetto di Caranti ha la pretesa di aprire nuove strade nel panorama delle scienze sociali non attraverso una distruzione, ma un lavoro di restauro. La parte più interessante del suo libro è quella centrale in cui presenta un Kant inedito, di gran lunga più efficace rispetto al recupero che della sua dottrina ne ha fatto la teoria della pace democratica. Meno convincente risulta, a tratti, l’intento di una riabilitazione tout court della riflessione kantiana che non potrebbe tener conto di una serie infinita di variabili del mondo contemporaneo (dalla globalizzazione all’erosione dei confini statuali, dalla crisi della rappresentatività alla società liquida).
La posizione di Doyle espressa per la prima volta nel celebre saggio del 1983 dal titolo Kant, Liberal Legacies and Public Affairs si incentra sul Primo Articolo definitivo della Pace Perpetua. Secondo questa prospettiva, che coniuga il modello normativo kantiano e le idee liberali, la pace internazionale sarebbe un risultato dovuto all’esistenza delle democrazie che, per la divisione dei poteri e il rispetto dei diritti fondamentali, non si sarebbero mai combattute tra loro. A trent’anni dalla pubblicazione dell’articolo di Doyle, il quadro critico è molto articolato e Caranti distingue cinque possibili versioni della teoria della pace democratica, che lasciano spazio a fraintendimenti e possono essere uno strumento atto a giustificare una politica estera espansionistica (come quella degli Stati Uniti). Le critiche rivolte a questo modello sono di ordine storico-empirico e normativo-istituzionale. Ci sono alcuni casi specifici di conflitto che in genere non vengono presi in considerazione dai teorici della pace democratica – dalla guerra di secessione americana fino a quella più recente tra Serbia e Croazia.
Nella seconda parte del libro l’autore ricostruisce il contesto culturale e politico in cui sorge il progetto kantiano, che per essere compreso non si può non collocare nell’orizzonte più ampio della sua filosofia. Tuttavia – nonostante questo invito preliminare – Caranti salta il riferimento alle tre critiche per privilegiare gli scritti più propriamente politici. Dal giusnaturalismo e dai progetti di pace che circolavano in quell’epoca, Kant si sarebbe distinto per un maggiore sforzo realistico. L’orientamento verso istituzioni più libere e giuste è sostenuto da una visione progressista della natura umana e della storia. Individui, stati e istituzioni tenderebbero a una perfezione che culmina in una condizione cosmopolita, sostenuta da una federazione mondiale di tutte le repubbliche. In questo progresso verso il meglio gli uomini comprenderanno necessariamente l’orrore della guerra.
La pace perpetua è per Kant una possibilità reale, ma al contempo un asintoto verso cui tendere. Questa oscillazione tra una versione forte e una debole della teoria è lo spazio in cui si muove la politica degli stati. Il divieto di eserciti permanenti e il diritto all’autodeterminazione dei popoli sono le indicazioni preliminari più interessanti del trattato di Kant. Ma il cuore normativo dell’intera opera è rappresentato dai tre articoli definitivi che devono essere considerati nel loro insieme.
Il primo ribadisce la necessità di ogni stato di essere repubblicano, indicando con questo aggettivo un’attitudine a farsi interprete della volontà generale. Si può parlare di una monarchia o di una oligarchia repubblicana, di gran lunga preferibile ad una democrazia diretta dove ognuno è chiamato a decidere per sé. La repubblica che Kant ha in mente è molto lontana da quella che gli studiosi hanno identificato con una democrazia liberale. La perfezione a cui mira la repubblica kantiana fa sì che essa sia «un ideal-tipo che non può essere soddisfatto dalla mera presenza di elezioni, né di limiti costituzionali» (p. 124). Tuttavia questo ethos repubblicano sembra poter fare a meno dei lavoratori dipendenti e delle donne, per via della loro ricattabilità dovuta allo status di cittadini passivi. Il tentativo di Caranti di giustificare questo assunto kantiano risulta poco convincente, soprattutto nel paragone azzardato tra il voto di scambio e la questione del voto delle donne, che ha alle spalle scenari culturali e sociali piuttosto differenti.
Il secondo articolo descrive la modalità di associazione dei vari membri e Kant preferisce una federazione di stati a una repubblica mondiale. Questo ha delle implicazioni decisive poiché il filosofo tedesco – a differenza da quanto sostenuto da Doyle sull’accesso riservato solo alle liberaldemocrazie – ammette l’ingresso a tutti i popoli della terra, quindi anche agli stati autoritari. Un punto controverso che però mina la stessa teoria della pace democratica: se le democrazie avessero bisogno di un trattato per scongiurare la guerra, collasserebbe l’intero impianto normativo di tale teoria. Il disprezzo potenziale verso uno stato autoritario non è ammissibile nell’orizzonte armonico di una pace perpetua, che deve essere sostenuta da principi universali di rispetto e non violenza.
Il terzo articolo kantiano sottolinea con forza il Weltbürgerrecht, il diritto degli uomini a sentirsi cittadini del mondo, e al contempo la necessità di scambi economici equi. La teoria della pace liberale, tuttavia, ha riadattato questo articolo per ribadire i termini di una interdipendenza economica. Discutibile appare l’idea che la pace sia per natura più conveniente rispetto alla guerra, poiché la storia insegna che in tempi di crisi il conflitto è un modo per risollevare le sorti economiche di un paese. L’autore si sofferma anche sui supplementi dell’opera kantiana, mettendo in luce il rapporto tra il politico e il filosofo, il quale deve essere ascoltato da chi governa poiché ha una visione d’insieme utile all’intera comunità. Il nesso tra moralità e politica introduce un elemento di responsabilità individuale rispetto all’impersonale (e naturale) progresso verso la pace perpetua. La figura del politico morale – agli antipodi di un certo liberalismo odierno – deve coniugare i principi dell’arte politica con l’etica. Le qualità da possedere sono la prudenza del serpente e la semplicità della colomba, un bestiario che sembra fare eco a quello di Machiavelli.
L’ultima parte è uno studio empirico provocatorio sulla Lega Araba nel periodo del 1945-1975. Caranti fa un bilancio tra l’analisi quantitativa delle dispute e i conflitti veri e propri per mettere in luce il ruolo decisivo di mediazione svolto da questa organizzazione. L’analogia tra la Lega Araba e la federazione di Kant – secondo quella versione più debole che affiora nella Metafisica dei costumi – sta nell’uguale missione di scongiurare la guerra attraverso la creazione di una collaborazione e nella modalità di entrata e di uscita degli stati membri. Questa associazione azzardata appare del tutto astratta, ma lancia alcune sfide – ed è questo l’intento riuscito del libro – alla presunta perfezione delle liberaldemocrazie contemporanee e alla teoria politica che ne offre garanzia e sostegno teorico.
Il tentativo di Caranti è apprezzabile per la ricostruzione lucida e per la proposta audace sul terreno della politica. Tuttavia, rimane sullo sfondo una critica/provocazione filosofica all’impianto normativo del suo progetto. La riabilitazione della dottrina kantiana passa attraverso la cruna della sua concezione progressista della storia, concezione che al giorno d’oggi risulta difficile accettare. Caranti non ha problemi ad ammettere che l’evoluzione kantiana è più vicina «alla previsione scientifica sullo sviluppo di un sistema fisico, che non a una messianica speranza per il futuro» (p. 153). Uno degli aspetti più discutibili di questa teoria – già messo in luce all’epoca da Moses Mendelssohn – è proprio la pretesa di dare per scontato il progresso della natura umana. Se questo è uno degli assunti su cui si regge l’intero progetto kantiano, come si può pensare – alla luce della storia del Novecento – che l’uomo abbia toccato la sua perfezione morale? Su quali basi è lecito affermare ancora oggi che questo sia il migliore dei mondi possibili?
Titolo: La pace fraintesa. Kant e la teoria della pace democratica
Autore: Luigi Caranti
Editore: Rubettino
Pagine: 206
Prezzo: 14 €
Anno di pubblicazione: 2013