Da un lato siamo nel mezzo della più grande crisi che l’editoria, giornalistica e non, abbia mai conosciuto. Contrazione occupazionale e di prodotti, tagli. Dall’altro, l’orizzonte del giornalismo si è esteso, allargato, amplificato. E così anche i mezzi. Tantoché, oggi, possiamo dirci di essere tutti giornalisti. O potenzialmente tali.
Non è affatto facile recensire e scrivere a proposito del Il Web e l’Arte della manutenzione della notizia (sottotitolo “Il giornalismo digitale in Italia”), digitato da Alessandro Gazoia (a chi bazzica il web, più noto come Jumpingshark) per i tipi dell’editore minimum fax in versione ebook. Perché è un volume denso, pieno di spunti, stimoli, informazioni, riflessioni, analisi, dati. Ogni capitolo è una buona fotografia sullo stato dell’arte di una professione che non è più esclusivo appannaggio della sua categoria deputata. E ciò, grazie alle tecnologie in primo luogo. Ai tanti strumenti che le supportano, dagli smartphones ai tablet passando per i computer. A Internet, in primo luogo. Ai social network, Facebook e Twitter. Ma più in generale alla “connessione” veloce, continua, h24. Cioè all’autostrada attraverso la quale passano veloci tutte le informazioni che ci ha trasformati nel nostro approccio con la conoscenza.
Siamo tutte, più o meno, persone che vivono di informazioni e che si scambiano di continuo news, in tutte le dimensioni. Facendo al tempo stesso informazione. Talvolta come fonti, altre come veicoli, in molti casi riflettendo e commentando informazioni altrui, talvolta trasmettendo foto o filmati, istantanee della realtà, o spingendosi perfino a manipolare la realtà medesima, producendone una ibrida, satirica, burlesca, divertente, canzonatoria, caustica. Effluvio di messaggi e comunicazione, in tempo reale. Raccontata, annunciata, trasmessa mentre le cose accadono. In qualsiasi luogo. Da qualsiasi angolo del Pianeta. Perché il fenomeno è globale.
Uno dei concetti-chiave del ribaltamento è che il giornalista è oggi «quel che un tempo si chiamava lettore». E non è una prospettiva di poco conto. Se il lettore si fa giornalista, entra e partecipa nel gioco dell’informazione, si fa attore protagonista al di fuori dei mezzi tradizionali, quest’ultimi entrano in crisi. Non solo per diffusione e vendite, ma per attenzione, focus, e anche credibilità. Il lettore-protagonista del fare informazione in proprio, non è altro che un cittadino bene informato e dunque consapevole, e che in taluni casi ne sa più del depositario del sapere della vecchia informazione, il giornalista, l’intellettuale, il commentatore, l’opinionista, perché ha, si forma, esprime idee e pensieri autonomi, in proprio. Che veicola da sé, con i propri strumenti. In un flusso continuo. E anche con un continuo e diretto feedback da parte dei suoi lettori.
C’è ormai una dimensione parallela, infinita, popolata, popolosa e persino popolare al di là del mondo tradizionale e reale dell’informazione fino a ieri conosciuta. Una second life delle news che vive di vita propria e si alimenta di una propria linfa, dove si discute e ragiona di cose che spesso non emergono nei luoghi della tradizione, per esempio non ancora sui media tradizionali. Un cambiamento radicale. Grazie alla tecnologia oggi «tutti fanno tutto». Programmi e App hanno sostituito le competenze e le hanno in fondo restituite a tutti. Rese possibili. In qualche modo diventando persino concorrenziali ai mestieri. Un esempio? Che necessità c’è di avere a disposizione un grafico specializzato o un designer o un impaginatore, quando ormai esistono programmi bell’e pronti che ci agevolano ad essere “tutti possibili” grafici, designer, impaginatori in proprio? È un solo esempio, forse il più banale, ma che si può applicare a qualsiasi dimensione professionale.
Da qui, dall’allargamento di queste possibilità, nasce anche oggi la crisi delle figure legate alla produzione editoriale classica, anche se si aprono decisamente possibilità (nuove?) in una progressiva parcellizzazione delle competenze, delle professionalità. Una visione da vecchia Scuola di Francoforte? Forse, può darsi. Ma siamo in una fase di trapasso. Dove il vecchio sistema informativo resiste, languendo e anche contando giorno dopo giorno i cadaveri che restano sul terreno, e il nuovo sta irrompendo senza dilagare come un’onda di piena.
Ormai ci sono “i giornalismi”, con le loro diverse forme espressive, e “i pubblici”, che non sono più appannaggio esclusivo dei vecchi media, che proprio per questo cominciano a risentire i primi contraccolpi, unitamente a quelli di una crisi che, più che di comunicazione e informazione, è oggi soprattutto di pubblicità, di raccolta e quindi economica. Di inserzioni, di introiti da réclame. E i nuovi “mezzi” stentano ad affermarsi proprio perché non è ancora a punto il nuovo modello di business. Da dove deve derivare? Dalla pubblicità o dal pagamento dei contenuti? In questa incertezza il sistema editoriale nel suo complesso vive nell’ibrido mentre il pubblico – abituato com’è stato fino ad ora – richiede (meglio, pretende) che tutto debba essere gratuito. Come se anche la produzione online non avesse dei costi, anche se ridotti all’osso rispetto alla produzione tradizionale. Forse che un’inchiesta giornalistica non costa sia per il web sia per la carta stampata?
Gazoia, nel suo ebook scrive che il giornalismo digitale rimarrà in Italia, «almeno nel vicino futuro, una componente accanto alle altre, in un sistema in profonda trasformazione, dove i confini interni e i rapporti di forza tra le varie parti mutano più o meno velocemente».
Forse è così, soprattutto perché non si è messo ancora a punto un proprio il modello di business, appunto. Appena lo si troverà, tutto è destinato a mutare. E anche velocemente. Perché, nonostante i discorsi nobili, c’è un paradosso che si svela in tutta la sua essenza: il giornalismo è ormai sempre più l’anima del commercio.
C’eravamo indignati, avevamo gridato allo scandalo quando più o meno trent’anni fa, a metà degli anni Ottanta, Eduardo Giliberti, allora grande dirigente della Sipra, la società concessionaria per gli spot della Rai, aveva lanciato la provocazione con un’intervista a Prima comunicazione. Ma era ed è così: la crisi lo mette a nudo. Se non ci sono le risorse che derivano dalla pubblicità il giornalismo – nella sua dimensione industriale e non solo – finisce per perdere colpi, si riducono le redazioni, si chiudono le testate, crollano i prodotti. «E se la carta non è più il centro di tutto, è necessario che il web diventi redditizio in modo robusto» attraverso le forme più adatte (sarà il paywall?). A prospettarlo con una certa chiarezza è stato un solo editore, Carlo De Benedetti, in una puntata di Otto e mezzo, ma ad attrezzarsi al passaggio è più d’uno.
Il web, del resto, ancor più dei giornali e della televisione, permette un più approfondito monitoraggio del suo andamento: le pagine viste, il numero di contatti, di ingressi, il tempo in cui ci si intrattiene su di una notizia, si entra in una pubblicità. E tutto ruota inevitabilmente intorno all’intrattenimento, alla capacità di captare e trattenere quanti più contatti possibile e il più a lungo nel tempo, attraverso le più svariate forme di induzione al clic, sia per la “colonna di destra” glamour, come la chiama Alessandro Gazoia, di Repubblica.it, o quella “di sinistra” del Fatto quotidiano o dell’Huffington Post, affidata al richiamo dei blogger, che intervengono senza remunerazione alcuna, offrendo spunti di riflessione, accendendo polemiche e dibattiti anche nel tentativo di “creare comunità” (Repubblica.it in questo senso è sempre più portale e sempre meno sito, entri e tendi a restarci, ti soffermi, navighi, clicchi, guardi i filmati, sfogli le gallery, esprimi opinioni, gradimenti, partecipi).
E un po’ anche spii. Perché il web «è anche un po’ guardone» come ci diceva più di dieci anni fa un importante giornalista, già direttore, inviato, editorialista, accostandosi ad una delle prime esperienza di “web organico”, spronandoci anche nella ricerca del “lato glamour” della notizia e dell’informazione, collazionando gallery un po’ osé, piccanti, per richiamare contatti, per far restare le persone sul sito il più a lungo possibile. Accanto al serio è necessario soprattutto il faceto, altrimenti il primo da solo non regge. E viceversa.
Checché se ne dica, moralismi, suscettibilità e vecchie resistenze a parte, quel che funziona è proprio la commistione tra “alto e basso”, tra politica e gossip, che poi è il modello Dagospia. Retro-scena e “trasparenze” in fondo. Già, perché in ogni caso «noi siamo il Paese di Satyricon non del Pulitzer» come ha chiosato con rara efficacia Lucia Annunziata, giornalista esperta di sicura qualità. Come a dire: tira più un topless che un pezzo o un’ inchiesta seriosa. Quasi che fosse l’orpello a sorreggere la qualità, puntellarla.
«In questo contesto – scrive Gazoia – la colonna di destra è quindi l’ennesimo sussidio alle “notizie serie” ed è un finanziatore poverissimo, che deve lavorare sempre più duro e sporco per far quadrare i conti». Già, un lavoro sicuramente hard e anche arduo.
Inutile negare come il giornalismo, in fondo, abbia «sempre vissuto di sovvenzioni». Dirette, indirette, occulte, subliminali, sotto forma di contribuiti o agevolazioni, facilitazioni, pure e impure, promozionali o propagandistiche o autopromozionali. Tutto questo, annota Gazoia, la Rete l’ha squassato, un modello entrato repentinamente in crisi anche grazie alla crisi che ha dato il suo contributo non marginale, se non il colpo di grazia a un castello da tempo traballante. Chiede però Gazoia: «Un pubblico ormai largamente normalizzato verso il basso, abituato da anni a una dieta insana con l’informazione spazzatura del boxino-morboso a fare da pietanza principale, sarà disposto a pagare» per un prodotto che non la contiene più, oppure «che la contiene ma a pagamento?»
Il “caso” – soprattutto italiano – è racchiuso tutto in questo interrogativo. Quando poi, tra l’altro, altri concorrenti tra coloro i quali sono nativi digitali, continueranno a offrirla gratis sul web. L’informazione, s’intende.
Anche se poi, a ben guardare, non è che ci siano poi tutti questi numeri. A fronte di dati Audiweb 2012 che vedono Repubblica.it, Corriere.it con – rispettivamente – 1.505.714 e 1.306.055 utenti unici al giorno per 11 milioni 184 mila pagine viste la prima testata e 9 milioni 996 mila la seconda, ci sono siti di qualità come Lettera43 che fa “appena” 141.707 utenti unici, Dagospia addirittura – solo – 78.903 (è maggiore la fama dei contatti), l’HuffPo, ultimo arrivato sulla scena editoriale virtuale, 49.306, per non parlare de Il Post (37.342) e Linkiesta (17.920). Dati e cifre ragguardevoli, dal punto di vista dei pubblici, ma anche del business, specie se online?
Diversa cosa sarebbe se si parlasse della carta, ma questa ad ogni modo è ormai in crisi. Come modello generale, di pubblico e affari. A parte il caso inverso de Il Fattoquotidiano, che ha 6 milioni per 55 milioni di pagine viste a dicembre 2012 e circa sessantamila copie vendute al giorno. Su carta come su web, la solidità finanziaria dell’impresa di base, pertanto, continua ad essere tutto: da qui non, purtroppo, si scappa. Con o senza pubblicità. Con o senza glamour. Con buona o cattiva informazione.
E con molte arretratezze, sia su carta che su web. E pure nell’integrazione web-carta. Ciò che fa per esempio dire, che nonostante la crisi, il crollo delle vendite, il declino delle copie e delle edicole, è ancora molto lontano – almeno in Italia – il giorno in cui registreremo la scomparsa dei giornali in favore della supremazia del web.
Titolo: Il web e l'arte della manutenzione della notizia
Autore: Alessandro Gazoia
Editore: minimum fax
Pagine:
Prezzo: 1,99 €
Anno di pubblicazione: 2013