Erranza, metamorfosi, futuro: il sapore della libertà, da Oriente a Occidente

Il saggio di Yassin al-Haj Saleh maturato nelle prigioni siriane parla a tutti noi

La libertà è movimento, che è tale solo se riesce a farci uscire dal nostro io, a farci scoprire l’incompletezza del nostro pensiero. A questa conclusione Yassin al-Haj Saleh – siriano, classe 1961 – deve essere arrivato anche grazie ai cambiamenti radicali che hanno segnato la sua vita. Nel 1980, appena maggiorenne, il suo impegno politico nel partito ispirato all’ euro-comunismo lo ha condotto per 16 anni nelle prigioni siriane quale dissidente; un viaggio che è andato dagli scantinati della tortura alle celle normali. Sono seguiti gli anni con Samira Khalil, anche lei ex prigioniera politica, con la quale ha condiviso tutto fino all’impegno nella rivoluzione siriana dal 2011, quando sono fuggiti dalla Damasco di Assad. Ma nel 2013 Samira è stata rapita dai jihadisti di Douma ed è sparita, mentre per Yassin è cominciato il tempo della sua drammatica ricerca e poi dell’esilio, in Germania. Come tutta la sua produzione anche “Libertà”, (Terra Somnia, € 10,00) è dedicato a lei, “il mio Imam nascosto e sempre presente”. “Libertà” è un libro nel quale la prigionia e l’esilio svolgono un ruolo importante, ma, per seguire la ricerca di questo intellettuale definito da molti “la coscienza della Siria” e che ha saputo scrivere di essere grato alla detenzione per averlo liberato dalle catene del pensiero rigido, occorre partire da un luogo preciso: l’ingresso di casa, di casa nostra. Si parte da lì.

La libertà, ci avverte fin dalla prima pagina del libro, è movimento. I colonizzati possono muoversi poco, i colonizzatori possono muoversi tanto. È un esempio che possiamo fare per capire il rapporto tra libertà e movimento. Ma l’autore parte dalla libertà-movimento che ci consente di allontanarci dal qui, bisogno insopprimibile di ognuno ma ostacolato dal nostro legame con un luogo specifico, un luogo che, come la lingua araba indica nella comune radice, è sinonimo di essere o di esistenza. Questo luogo è la casa, o la Patria, ben indicato nella sua valenza dai vocaboli inglesi “home” e “Homeland”. L’altro ostacolo è la prigionia, ovvero la privazione della libertà di muoversi fuori da un’area definita. Proprio la contrapposizione tra “prigione” e “libertà” conferma che quest’ultima consiste nel movimento non sottoposto a ostacoli o restrizioni.

Eccoci allora a casa, desiderosi di uscire, liberi di farlo ma anche di tornare, come desideriamo, dopo esserci avventurati in luoghi inesplorati, essere usciti in modo diverso da ieri o dall’altro ieri, non seguendo un itinerario obbligato, ma liberi di confrontarci con l’ignoto. Ma ogni volta vogliamo tornare alla certezza, al punto di partenza di una nuova avventura, che comporta ovviamente dei pericoli. La prigionia invece elimina ogni pericolo, o per noi o costituito da noi. Dunque la libertà ci mette a contatto con gli altri, consentendoci di scegliere come entrare in contatto con loro; in confidenza oppure in guerra. Dunque la libertà può produrre cultura, cioè mescolanza e quindi evoluzione, visto che l’isolamento lascia nella semplicità e quindi nella primitività culturale, oppure guerra. Questa libertà ci consente di convertire estranei in parenti, superare i nostri recinti, andare lontano. Con le gambe e con la testa.

L’altra modalità, quella bellica, non ci porta a inserire nella nostra famiglia, nella nostra “casa”, altre persone, altre idee, ma a espandere la nostra casa fino a inglobare quella degli altri. È possibile distinguere tra un’espansione della propria casa in un’ottica che implica il possesso, l’appropriazione, la familiarità nel senso del “nazionalismo” e di conseguenza la guerra, che ha le sue forme associative nella tribù, le sette, le nazioni, creature vendicative che hanno la guerra nel loro codice genetico,  “oppure in un’ottica che comprende l’accoglienza, l’ospitalità, gli incontri pacifici con estranei che accogliamo, che impariamo a conoscere e con cui pratichiamo la condivisione. Ci può essere un’espansione reciproca, nel caso in cui apriamo la nostra casa agli altri in modo amichevole instaurando una situazione di reciproca accoglienza e ospitalità”. L’ospitalità, pilastro abramitico, è un concetto decisivo nella cultura mediorientale. Questa ospitalità porta al movimento che è anche cambiamento: cambiamento di noi stessi e del mondo che ci circonda. Mettendoci a parte che “cambiamento” in arabo vuol dire sia cambiare una cosa con un’altra cosa o trasformare una cosa in un’altra, Yassin al-Haj Saleh pone un primo punto decisivo: muoversi vuol dire o cambiare luogo o cambiare il luogo, la nostra storia è storia di erranza e di metamorfosi. La prigione invece non possiamo cambiarla né lasciarla, è lei che possiede noi. “La libertà moderna è più trasformativa che migratoria, più urbana che nomade: trasforma il tempo, il luogo, l’io, la società e il mondo”. Questa è la sua forza, sebbene, avverte, abbia un’irritante relazione con il colonialismo, inteso come migrazione militare, espansione, appropriazione: “i colonizzati sono esclusi dalle modifiche che vengono apportate all’assetto delle loro case”.

Ma il movimento non avviene solo nello spazio, avviene anche nel tempo, che ha nel presente la sua casa. Il presente guarderebbe al passato come un bambino a suo padre, visione mandata in frantumi dalla modernità, che ha posto al centro di tutto il presente, tempo di fratelli, non di padri e figli. Le ideologie estremiste, a cominciare dall’esempio che gli è più caro perché più vicino, i movimenti salafiti (o islamisti), che possiamo capire benissimo riferendoli ai loro corrispettivi culturali nel nostro contesto (i nostalgici del costantinismo, ad esempio) vogliono impossessarsi del passato per ottenere la legittimazione della loro sete di potere da padri ormai morti. “I salafiti e gli altri movimenti reazionari di oggi vogliono impossessarsi del passato per raggiungere il potere e annientare la vita”. Per al-Haj Saleh “soltanto chiudere con il passato può liberarci dalla dipendenza da esso ed è esattamente ciò che gli islamisti non vogliono, perché il loro potere e le loro teorie si basano sulla centralità del passato”. Il presente allora è storia, un presente arbitrario, accidentale e temporaneo, frutto di condizioni che presto ci sembreranno patologiche: “la libertà è la possibilità di muoversi tra passato e futuro, prendere in prestito dal passato immagini e dal futuro la possibilità di esplorare.” Qui balza agli occhi un nesso tra il nostro identitarismo nazional-religioso e il salafismo di cui parla al-Haj Saleh: se per lui la casa del tempo è il presente nel quale coesistono passato e futuro, “la prigione si traduce nel chiudersi nel presente, nella casa, nella patria, modalità praticata nell’ambito dell’eternità, come fa Assad. Vogliono stabilire il loro dominio in un eterno presente da cui è proibito fuggire. […] Questi movimenti hanno messo in atto pratiche arbitrarie a discapito del passato, prolungato in un eterno presente per impedire l’avvento del futuro”. Il suo orizzonte ovviamente non esclude la religione nel nome della libertà, ma consegna ai credenti il compito di strapparla a chi pretende che i credenti lo siano ma alle loro condizioni.

La ricerca della libertà sta per giungere a due conclusioni: il rapporto con l’io e con la storia. Parte di qui il suo discorso che trova nuovamente una forte assonanza tra ciò che dice sugli islamisti e ciò che vediamo nel nazionalismo identitario europeo: “uscire fuori dal proprio io è un atto di libertà e condizione preliminare per la proprio liberazione”. L’autore osserva che gli islamisti riducono l’io a un ambito che, “attraverso una serie di regole e discipline, controlla il corpo e i suoi movimenti, i comportamenti e le interazioni”. Sembra di sentire papa Francesco e la sua cruciale polemica con chi riduce il cristianesimo a una serie di regole morali che rischiano di diventare un castello di carte destinato a crollare. Qui al-Haj Saleh invoca una rottura: passare dal “sii te stesso” al “cambia te stesso”! La libertà non è omologarsi nella “rispettabilità”, ma seguire un’altra idea, “sii diverso da te stesso, sii tutto!” Non diventare prigionieri dell’io con cui abbiamo trascorso tanti anni è un obiettivo che si può raggiungere poche volte nella vita. Ovviamente uscire da sé richiede e comporta anche uscire dal mondo costituito, per cui rimane parte interna alla nostra vera libertà il desiderio di cambiare il mondo. La libertà finisce se finisce il desiderio di cambiare il mondo, se il mondo diventa immutabile? È quel che comporta la teoria della fine della storia, che ovviamente non è finita, ma che ci ha convinto che il mondo sia arrivato a un suo stadio finale, definitivo: il discorso di Fukuyama ricorda in modo molto convincente all’autore il discorso di quelli che vede come i padri della crisi culturale islamica, coloro che ritennero di poter chiudere la stagione dell’interpretazione dei testi sacri: anche per loro era finita la storia, e la libertà. “Il tentativo di congelare la storia nella condizione intellettuale e politica attuale porterà violente tendenze isolazioniste in molte parti del mondo”. La critica del libro agli islamisti ricorda nelle pagine che seguono lo scontro tra Francesco e i teocon, i “cattocapitalisti”. Questo allarme è formulato con un chiaro richiamo a riscoprire l’incompletezza di ogni pensiero, dove sorprende l’assonanza anche terminologica con quanto detto anche qui da Francesco nel 2016 in un famoso discorso agli scrittori de La Civiltà Cattolica.  Le storie dell’Occidente e del mondo arabo, anche se sovente non si conoscono, sembrano rincorrersi assai più di quanto si ritenga.

Titolo: Libertà

Autore: Yassin al-Haj Saleh

Editore: Terra Somnia

Pagine:

Prezzo: 10 €

Anno di pubblicazione: 2021



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