Da Reset-Dialogues on Civilizations
Ci sono dei vuoti che parlano a chi sa ascoltare. Ci sono delle assenze che lasciano un senso di smarrimento, ricordo di un passato che non si vuole affrontare. Ci sono presenze rese mute che chiedono di essere ascoltate perché raccontano una storia dimenticata, e presenze che gridano vendetta perché falsificano la realtà. L’Italia non ha mai fatto i conti col suo passato coloniale. Roma non ha mai affrontato davvero il significato del fascismo e delle colonie in Somalia, Etiopia, Eritrea e Libia. A raccontarlo sono i suoi stessi monumenti: quelli che una volta c’erano e non ci sono più, come la stele di Axum restituita all’Etiopia; quelli che ci sono ancora oggi e sono tenuti nel degrado, come la stele di Dogali o il Cinema Impero; quelli che rivendicano con orgoglio, nell’indifferenza generale, la loro genesi fascista, come il Ponte Amedeo D’Aosta; quelli che non si trovano a Roma ma che sono finiti sulle cronache internazionali, come l’incredibile vicenda del mausoleo dedicato a un gerarca fascista e criminale di guerra edificato ad Affile. Sono questi alcuni dei luoghi di un «viaggio emozionale» che Igiaba Scego, scrittrice italiana e somala, compie camminando per Roma per ricostruire i percorsi coloniali e postcoloniali di una città che è ancora il cuore del mondo eppure non ha memoria del passato delle colonie, dei crimini che lì furono perpetrati, delle responsabilità dell’Italia nei confronti dei migranti e dei rifugiati politici che vengono dal Corno d’Africa e che sono trattati come se l’Italia mai avesse conosciuto l’Africa. Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (Ediesse 2014) è il libro che Igiaba Scego ha scritto insieme al fotografo Rino Bianchi, che nelle sue fotografie ha catturato lo sguardo e il volto di migranti e rifugiati politici in questi luoghi “simbolo”, eppure negati, della città: in piazza dei Cinquecento e davanti alla stele di Dogali, in viale Somalia e davanti al ponte Amedeo D’Aosta, ai Fori Imperiali e al Cinema Impero, davanti al Palazzo della Fao e al Vittoriano, dove quattro rifugiati somali si sono fatti fotografare senza che fosse pubblicato il loro nome perché hanno voluto rappresentare «il simbolo di una condizione esistenziale».
Il viaggio di Igiaba Scego – che è anche un atto d’amore verso la città: «Roma il mio ombelico e quello del mondo. E forse chissà dell’intero universo. La mia Roma così inadeguata al presente, così totalmente imperfetta», scrive all’inizio del suo cammino – parte da piazza di Porta Capena, dove una volta c’era la stele di Axum, bottino di guerra del fascismo ora tornata in Etiopia dopo peripezie durate decenni (una vicenda ben raccontata dall’autrice). In quella piazza ora ci sono due colonne e una lastra con una frase del filosofo George Santayana: «Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo». Il passato che viene ricordato in quella piazza è l’attentato alle Torri Gemelle di New York e la strage di Washington dell’11 settembre 2001. Bello sapere che Roma ha un monumento per quell’attentato che ha cambiato il mondo, argomenta l’autrice, ma in quella piazza c’è anche una grande assente: l’Africa. Quella della stele di Axum, quella delle vittime del colonialismo italiano: «Ahi, il colonialismo italiano ferita mai risanata, ferita mai ricucita, memoria obliata. Quel colonialismo italiano che si fingeva buono (il mito degli italiani brava gente era duro a morire nell’immaginario popolare), ma che aveva sterminato quanto e a volte più degli altri colonialismi». Ora la stele di Axum è tornata in Etiopia. E in questa piazza romana? «Solo vuoto, solo silenzio, assenza, oblio, smemoratezze in salsa italica», scrive l’autrice.
L’Italia non riconosce il legame con le ex colonie – Eritrea, Somalia, Etiopia, Libia. I somali scappano dalla guerra, gli eritrei dalla dittatura, attraversano un Mediterraneo di morte e sbarcano in un’Italia che non ha memoria dell’Africa. Per questo si arriva al naufragio dello scorso 3 ottobre senza che nessuno riconosca il legame dell’Italia con le centinaia di vittime. Scrive Igiaba Scego: «Il 3 ottobre 2013 il Mar Mediterraneo ha inghiottito 369 eritrei, donne, bambini, giovani, uomini. Tutti i sogni di quella gente naufragati in quel mare freddo e inospitale. Ma nessun grande giornale ha scritto «quei ragazzi, quelle ragazze, quei bambini sono i nostri». Il legame storico tra Italia e Eritrea non è stato percepito, riconosciuto. L’Italia davanti a questa immane tragedia non ha dichiarato compattamente la sua responsabilità storica verso l’Eritrea. Il tutto è stato silenziato, dimenticato, cancellato». Spiega l’autrice: «L’Italia non ha vissuto un processo di defascistizzazione come la Germania. L’Italia non ha fatto i conti con il suo passato coloniale e con le sue immense colpe. Ha preferito nascondere la testa sotto la sabbia come uno struzzo. Ma quel dispositivo xenofobo potrebbe rimettersi in funzione in ogni momento, anzi in parte è già in funzione».
Il cammino della scrittrice nella città la porta davanti alla stele di Dogali e le permette di raccontare la storia che si intreccia a quel monumento ora lasciato nel degrado, ricordo di una delle più grandi sconfitte italiane in Africa orientale, per poi ricostruire l’immaginario coloniale italiano e l’atteggiamento tenuto verso le donne d’Africa violate come la loro terra, per arrivare a quella piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione Termini, che è anche «la piazza dei migranti» ed è «una piazza postcoloniale, suo malgrado, quasi per caso». Scrive l’autrice: «È questo il vero ombelico di Roma, quasi più del Colosseo, qui dove in una Babele folle le lingue si intrecciano e si contaminano con la lingua di Dante. E chi lo immaginava che proprio questa piazza babilonia fosse legata alla storia del colonialismo italiano? Infatti i cinquecento citati nel nome della piazza sono i cinquecento caduti di Dogali».
Il filo conduttore di questo viaggio è l’assenza della memoria. Denuncia Igiaba Scego: «La memoria è assente, cancellata, dimenticata. A scuola, tra la gente, nella cultura popolare, intellettuale e istituzionale del nostro paese. Nel peggiore dei casi è anche mistificata, cambiata, trasformata. Girando per Roma questo si percepisce molto bene purtroppo. I luoghi del colonialismo in città vengono lasciati nel vuoto (Axum), nell’incuria (Dogali), nell’incomprensione (quartiere africano). Si cancella quello che è troppo scomodo. È scomodo per l’Italia ammettere di essere stata razzista. È scomodo ammettere che il razzismo di oggi ha forti radici in quello di ieri». Ma proprio nel denunciare quest’assenza, insieme al vuoto di un passato che non si è voluto affrontare e che spiega gli stereotipi sessisti e razzisti che ancora subiscono le donne del Corno d’Africa, è la scrittrice stessa che si fa carico della ricostruzione della memoria, ridando valore e dignità a episodi passati e presenti, problematizzando la storia, mettendo in gioco se stessa (non solo perché scrive in prima persona, ma perché porta nella sua storia personale la storia dell’Italia e della Somalia insieme): così (ri)scopriamo la visita dell’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié nell’Italia degli anni Settanta, l’immaginario maschile nei confronti delle donne africane, «terra di conquista» dei soldati e di un imbarazzante (ed è un eufemismo) Indro Montanelli che parla della sua «sposa bambina», la storia degli ascari, i soldati coloniali, e quella recentissima del monumento fatto ad Affile in memoria del gerarca fascista e criminale di guerra Rodolfo Graziani.
E il balcone, il balcone di piazza Venezia? Ci può essere un luogo più simbolico e “pesante” di quel balcone da cui s’affacciava Mussolini? Non l’hanno dimenticato, i due autori. Tutt’altro. Il libro, racconta la scrittrice, si doveva chiudere con una fotografia di richiedenti asilo somali, eritrei, etiopi che si affacciavano da quel balcone. Una foto che non è stata scattata. Perché Roma non si è mai riappropriata di quel balcone, che rappresenta «una ferita nella città» da cui si volge lo sguardo: «Non aveva senso riempire di corpi un balcone che non era ancora mai tornato ad essere davvero dei cittadini. Mai tornato ad essere di Roma. Per questo quella foto non c’è. Prima da quel balcone si doveva affacciare l’anima di Roma».
E nell’attesa che quel balcone apra, perché si apra la memoria di Roma e dell’Italia intera, il viaggio di Igiaba Scego e di Rino Bianchi ci fa conoscere la città, il nostro passato e il nostro presente, e ci fa pensare: con voce lieve e a tratti commovente, con la realtà di chi vive giorno per giorno quello che racconta, con la forza di chi ama questa città e il paese che ha scelto di abitare. Una preziosa testimonianza, che restituisce corpo a vicende ormai poco note, raccontate “dall’altra parte” della storia (quella che sta dietro la retorica, quella che non c’entra niente con la retorica) e restituisce loro dignità e nome. Vale la pena chiudere con una frase che Igiaba Scego scrive quando parla delle migrazioni e del viaggio, una frase che personalmente vorremmo diventasse la risposta a tanti allarmi lanciati spesso per pura propaganda politica, se non per speculazione elettorale: «Il viaggio è un diritto umano, come respirare, amare, studiare, votare».
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Titolo: Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città
Autore: Igiaba Scego
Editore: Ediesse
Pagine: 176
Prezzo: 13 €
Anno di pubblicazione: 2014