Come si islamizza il radicalismo?
il libro di Maajid Nawaz

La pubblicazione in italiano di “Radical. Il mio mio viaggio dal fondamentalismo islamico alla democrazia” di Maajid Nawaz, edito da Carbonio (euro 17,50) non è un libro da valutare in base a quel si pensa dell’autore e della sua organizzazione, che mira a diffondere una sorta di anti-radicalismo islamista nel mondo islamico. No, il punto importante di questo libro non è questo. Il suo valore, a mio avviso, sta nella sua prima parte dell’opera, quella che ci spiega come come si islamizza il radicalismo, come si indottrina un mare di gente pronta ad arrivare dalla rabbia al nichilismo terrorista, e che ci illustra come la teoria dello scontro di civiltà così come noi la conosciamo non sia stata elaborata da Samuel Huntington, ma dai leader dell’islamismo politico. Da questo punto di vista, da quello della corretta comprensione di quale sia il problema, il libro di Nawaz ha il valore di un muro portante, almeno per la sua prima parte, perché ci porta dritti filati nel cuore della pentola dove bolle questo odio che potremmo capire come neo-nichilista, dove cresce cioè l’islamizzazione del radicalismo, dove si elabora la teoria dello scontro di civiltà. Questa pentola sono le strade di una delle nostre metropoli afflitte dal fallito modello multiculturale, Londra, città dell’insuccesso per antonomasia e città del racconto. È tra Londra e i suoi dintorni che un giovane figlio della cultura hip hop, di origini pachistane, viene a contatto con i giovani bianchi, teste rasate, mazze ferrate in mano, che pattugliano le strade del suo agglomerato urbano per rompere schiene, fracassare gambe, teste, toraci. I trofei della sera sono tracce di sangue misto a brandelli di carne sulle loro bardature, mentre la polizia chiude uno e due occhi. Lui si sposa con il suo coltello, che custodisce sempre dietro la schiena, ed entra in contro-ronde anti razzisti. I pomeriggi, le sere hip hop di Maajid trascorrevano come quelli dei suoi compagni di identità e cultura. Poi la notte, con altri hip hop di origine pakistana, scattava l’anti-ronda: i gruppi razzisti meritavano una risposta, che doveva essere aggressiva. Fino al momento della svolta. Con i suoi amici più stretti Maajid si vede perso, davanti al gruppo di razzisti più duro, armato fino ai denti. Uno dei suoi, con i pochi vestiti per trascorre la notte da lui raccolti in uno zainetto, sceglie di parlamentare con il capo dei nemici, in mezzo alla strada. Si avventura, il negoziato prosegue, minuti lunghissimi. Poi torna indietro e i razzisti se ne vanno via, a passo svelto.

Cosa è successo? Niente di particolare, spiega l’amico a Maajid. “Gli ho detto che eravamo pronti a farci saltare in aria con questo zainetto pieno di esplosivo, che siamo un gruppo di attentatori suicidi, pronti al martirio. Per noi non c’è cosa più bella di morire, non ne abbiamo paura.” Ma con la gloria di far morire anche loro. I ragazzi scoprono così quale sia l’arma che funziona. Cosa faccia paura. È questo il punto che spiega meglio di tanti volumi tutta la profondità e complessità del pensiero elaborato dal professor Olivier Roy. Infatti, entrando in contatto con ambienti islamisti questi ex esponenti del mondo hip hop scoprono il peso dell’islam nel loro universo e nella loro nuova vita grazie all’orrore bosniaco. Perché i razzisti odiano e uccidono i musulmani bosniaci che sono bianchi come loro? Perché sono musulmani. Quale differenza razziale giustificherebbe gli orrori balcanici? Nessuna… È l’Islam il problema, dunque è l’islam la soluzione. Ecco che una narrazione razzista o anti-razzista si dissolve in una narrazione islamista o anti islamica. La svolta è enorme. Infatti, Maajid e i suoi compagni entrano in contatto con i gruppi islamisti che mai gli parlano di fede, di Corano, ma di politica, di odio, di destrutturazione. Gli fanno vedere cosa fanno i bianchi in Bosnia ai bianchi bosniaci. Perché? Perché il loro nemico è l’Islam.

Il discorso, la narrazione, il punto del libro è qui. E infatti a questi aderenti alla cultura hip hop appare improvvisamente logico e fondamentale l’appello del gruppo islamista Hezb al Tahrir (partito della liberazione) per la rinascita del Califfato, di cui i musulmani arabi non avevano sentito la minima nostalgia per un secolo. Se il problema sono i musulmani è il califfato che serve contro costoro: e che sia un califfato impositivo dei codici islamici, così come noi siamo chiamati a subire i loro. Ecco l’impegno universitario di Maajid, il suo successo contro gli altri gruppi islamisti e di quella incredibile conferenza dal titolo “velati o taci”. C’è un gioco perverso, quello sull’accettazione della diversità: io ho diritto a invocare il velo islamico, se non lo vuoi taci, cioè pensa per te, per il tuo mondo, fingono che sia questo il senso dell’iniziativa i promotori, ma in realtà è ben altro il messaggio veicolato. È  così che si destruttura in un conflitto noi-loro ogni logica di fede in una logica di conflitto e sopraffazione. E il libro infatti offre proprio nel racconto dell’attività dell’autore l’esempio di come l’egemonia nel mondo della rabbia e della paura si costruisca destrutturando la narrazione altrui. Un esempio di discorso destrutturante? Eccolo: “Abbiamo imparato che nessuna supplica da parte dei civili, nessun appello alla vostra umanità, alla vostra misericordia, nessun rispetto delle regole del vostro gioco, riusciranno a commuovervi. Se infliggervi anche solo un atomo del dolore che soffriamo per mano vostra vi sveglierà dal torpore e costringerà ad accettare le nostre grida, allora, temo siamo giunti alla conclusione che è una scelta molto difficile ma riteniamo che sia un prezzo accettabile.” Così parlava Maajid e chiunque ricordi quegli anni avrà colto che le ultime parole sono una citazione delle parole della signora Albright, segretario di stato americano, sui costi umani delle sanzioni irachene. È la conferma della teoria della violenza mimetica: l’odio del nemico per sostituirlo e diventare come lui, l’odio dell’impero globale per sostituirlo con un sopposto e analogo impero globale.

Il discorso di Maajid prosegue in tanti incontri con i giovani musulmani, pakistani e non solo. Cosa fanno i bianchi ai bambini bosniaci, bianchi come loro, europei come loro? Cosa fanno alle donne bosniache, bianche come loro, vestite come loro, europee come loro? Contro questa sopraffazione dei musulmani non ci sono più bosniaci, pakistani, egiziani, o immigrati di seconda generazione, ci sono solo musulmani, tutti uguali tra di loro, che impongono agli altri un califfato identitario, oppressivo, totale. La destrutturazione del discorso democratico è operata in pagine forti, aggressive, assai utili per capire come la religione sia un folle pretesto, un kit prefabbricato per chi la usa al fine di sovvertire l’ordine e imporre un ordine rivoluzionario e assolutamente totalitario.

Il libro prosegue con il racconto della “carriera” di Maajid, reclutatore in Pakistan, poi in Egitto, dove viene arrestato. Il racconto delle prigioni egiziane è così attuale da pietrificare. Ma è qui che avviene il capovolgimento di Maajid, arrestato senza aver commessi reati, senza avvocato, per anni. Aveva il passaporto britannico, poteva essere arrestato così? Non è questo il punto, i suoi gli chiedevano solo più eroismo, parole più eclatanti, rivendicazione della scelta del partito durante il processo. Chi si ritrova al suo fianco? Amnesty International: “Se oggi sono quello che sono lo devo in parte alla decisione di Amnesty International di mobilitarsi per me… Il sostegno che ho ricevuto in quella situazione mi sorprese nel profondo. A umiliarmi era la sua natura incondizionata: tu sei un essere umano e quindi meriti il nostro aiuto… Come tante ideologie, l’islamismo ha tratto parte del suo potere dalla disumanizzazione dell’altro.”

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