Da Reset-Dialogues on Civilizations
Una Bollywood che cambia, si crea, rimane la stessa, anche nei remake, attraverso un continuo interscambio; un nuovo modo di concepire la donna ma, soprattutto, la gori, la donna bianca, nelle trame; una metrosexual masculinity, nata dopo la liberalizzazione con un uomo bello, depilato, che frequenta le palestre; infine, la necessità di portare il “prodotto” Bollywood, che è cultura popolare, all’attenzione degli studenti USA non solo come dispositivo culturale e sociologico, ma anche nella sua struttura formale. Sono questi gli aspetti salienti trattati in Twenty – First Century Bollywood, di Ajay Gehlawat, professore associato di teatro e cinema alla Sonoma State University (California). Ed è uno studioso, Gehlawat, che, nel tratteggiare gli aspetti sociologici della nuova Bollywood, segue molto da vicino Rachel Dwyer.
Un punto di vista eterodosso, il suo, nel tracciare i confini tra la Bollywood pre e post – liberalizzazione. Per lui non esiste una netta cesura, a livello di struttura formale, tra i due periodi. Si può parlare, quindi, e per lo più, di intertestualità tra i vari remake occorsi in questo periodo e non, come dice invece Priya Joshi, di Bollywood e Bollylite (cinematografia nata dopo la liberalizzazione e che contiene solo la forma, non il contenuto di Bollywood). Allo stesso modo, a questo livello non esiste una netta cesura tra la Bollywood pre e post – liberalizzazione, come invece afferma M.K. Raghavendra, nel suo The Politics of Hindi Cinema in the New Millennium. Bollywood, dunque, imita e riconfigura se stessa, rinnova se stessa, e nello stesso tempo vuole non diventare se stessa, in una continua rinegoziazione e articolazione, in un perenne “reassemblage”.
Ma gli aspetti sociologici nel libro vengono fuori quando si parla della figura della donna, e soprattutto della gori.
La donna nei primi film veniva vista come l’eroina casta e pura, degna di essere sposata, oppure come la vamp, destinata alla rovina, ma nella cinematografia bollywoodiana del XXI secolo ci sono film come Shuddh Desi Romance (“Puro romanzo indiano”) di Maneesh Sharma, del 2013, dove un ragazzo, Raghu, oscilla tra due donne, Gayatri e Tara, con vari momenti in cui uno dei promessi sposi viene lasciato sull’altare. Raghu, che finisce per sposare Gayatri, dopo aver abbandonato due volte Tara, ha rapporti prematrimoniali con Gayatri, e questo senza drammi e senza che figure parentali vengano a intervenire. Si è tra la nuova Bollywood e i film anticonformisti, ma la nuova Bollywood c’è, in una sorta di ultima generazione di film.
Ma ecco la figura della gori, che è forse l’aspetto che può più interessare ad un pubblico occidentale. All’inizio, come per la donna emancipata, per la gori c’erano pochi ruoli, con una preminenza della vamp. Nel 1970, in Purab aur Paschim (“Est e ovest”) di Manoj Kumar, compare Preeti, l’indiana dalla pelle chiara cresciuta nel Regno Unito che solo dopo aver abbandonato i suoi costumi occidentali può sposarsi con il protagonista indiano.
Ma ancora negli anni Duemila la gori in quanto tale ancora non è accettata, e in film notevoli, come Lagaan: Once upon a Time in India (“Lagaan: c’era una volta in India”), di Ashutosh Gowariker, del 2001, candidato all’Oscar, e in Rang de Basanti (“Dipingilo color zafferano”), film politico, di Rakeysh Omprakash Mehra, del 2006. Nel primo c’è il desiderio di una ragazza bianca, Elizabeth, per Bhuvan, il giovane capo – villaggio che deve giocare con la sua squadra (e vincere) una partita di cricket per veder sospesa la tassa sul raccolto, detta appunto “Lagaan”. La giovane aiuterà Bhuvan di nascosto del fratello e riuscirà a far vincere la partita ai nativi. Il desiderio della ragazza verrà visto solo attraverso le sue fantasie e non verrà mai svelato a Bhuvan (solo il pubblico ne è al corrente perché lo vede attraverso un ballo che è solo un sogno della gori memsaib).
In Rang de Basanti una bionda ragazza inglese, Sue, cerca di fare un docu – film su Bhagat Singh, rivoluzionario indiano ai tempi del colonialismo (suo nonno era stato il supervisore dell’esecuzione e aveva lasciato un diario). Per questo motivo va in India e cerca di trovare degli attori, aiutata da una sua amica indiana. Li trova in un gruppo di studenti, e si innamora di uno di loro, DJ. A un certo punto i ragazzi uccidono il ministro della Difesa perché uno di loro, pilota, muore in un incidente aereo causato da un aereo difettoso comprato dal governo indiano in maniera illegale. Subito dopo i ragazzi rivendicano l’attentato attraverso la stazione radiofonica All India Radio, e prima di essere uccisi in un blitz della polizia DJ dichiara a un suo amico il suo amore per Sue.
Sia in Lagaan che in Rang de Basanti la donna bianca si innamora, virtualmente nel primo caso, corrisposta nel secondo, ma sempre “insegna” qualcosa (a giocare a cricket, a ricordare il passato coloniale), ed è deleteria nel tentativo di fare qualcosa che essa stessa ha aiutato a causare. In altre parole: l’apice non è l’”apice”; c’è un tragico finale al romanzo amoroso interraziale che sboccia ma che va in mille pezzi non necessariamente perché è interraziale, ma perché il suo culmine non è permesso dagli eventi filmici che sono largamente azionati dalla gori nella storia.
Tuttavia, sarà non solo la gori, ma l’indiana che si comporta da gori la protagonista delle ultime pellicole. E questa volta essa ha successo. In un film, Marigold (“Marigold”), del 2007 (regista, Willard Carroll), un’attrice americana va in India e qui si innamora e sposa un collega indiano, che le insegna a ballare, dato che la parte che le era stata offerta in un film di Bollywood era appunto quello di una ballerina. É un film di passaggio, questo, a metà tra Oriente e Occidente, e che sarà rivisitato e cooptato nella cinematografia indiana. Le gori hanno fascino, ma le indiane, comportandosi come loro, riusciranno a conquistare il partner portandoglielo via sotto il naso. Così Bollywood si riappropria di ciò che era considerato straniero, anche se ancora usa molte attrici indiane con la pelle chiara per impersonare atteggiamenti da gori. Sempre nella Bollywood contemporanea l’essere gori sta diventando sinonimo di “essere Indiano”, anche se come già detto la pelle chiara degli attori sembra ancora porre qualche problema.
La gori, comunque, attualmente, può essere o mezza indiana o esserlo completamente, e negli ultimi film non serve più essere donne bianche. Sono indiane e anglo – indiane le protagoniste di un road movie, Zindagi Na Milegi Dobara (“Non vivrai di nuovo”), di Zoya Aktar, del 2011. Tre ragazzi indiani, Kabir, Imraan e Arjun, vanno a fare un viaggio in Spagna (Kabir è fidanzato con Natasha, indiana e rompiscatole). Qui si incontreranno con Laila, mezza indiana e mezza americana, istruttrice subacquea. La ragazza finirà per sposare uno dei tre facendo sesso prematrimoniale e prendendo l’iniziativa senza alcun problema. Ma anche Natasha, che fa la figura della fidanzata scocciatrice e che verrà lasciata dal ragazzo, non finirà male: rimarrà amica con il trio, ballando con loro al matrimonio di Laila e Arjun con un ragazzo che si suppone sarà il suo prossimo boyfriend.
Oltre al maschio con una sensualità da giovane urbanizzato, bello, e “liscio come seta”, la parte del libro di Gehlawat più significativa per gli Occidentali è l’insegnamento della cinematografia bollywoodiana che, come tutte quelle non hollywoodiane, in Occidente è sottorappresentato. In particolare, (e qui si parla soprattutto degli USA), esso, spesso, è contemporaneamente storia sociale, politica ed economica, lingua e religione, con un effetto “sinfonico”, e deve fare i conti con la (quasi) ignoranza degli studenti nel settore. Ancora, il rischio è di considerare l’oggetto culturale “altro” come documento etnografico, vedendo il professore come “informatore nativo” se è sud – asiatico. Inoltre molti degli insegnamenti di film indiani sono confinati in contesti di studi sud – asiatici, non nelle Humanities.
Data questa incertezza dell’oggetto di studio, dovuto anche al “canone” da mostrare agli studenti, ovvero la serie di pellicole paradigmatiche, cosa fare? La risposta di Gehlawat è più “formale” possibile: togliersi dalle pastoie del cultural insider, stabilire cos’è un film bollywoodiano (non Slumdog Millionaire di Danny Boyle, del 2008, o Monsoon Wedding di Mira Nair, del 2001), avere un approccio teorico più analitico possibile. Così, sì alla proiezione di film interi in classe anche se molto lunghi, sì a clip per integrare con ulteriori aspetti la visione delle pellicole canoniche, sì allo studio di testi sia generali, sia specifici del film tra la visione e la discussione in classe, così da completarla. In questo modo, si sarà capaci di afferrare la specificità di un sistema di significazione attraverso la stretta analisi dei film stessi, e delle loro conseguenti rappresentazioni (corsivo nel testo) degli sfondi storici e sociali.
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Titolo: Twenty-First Century Bollywood
Autore: Ajay Gehlawat
Editore: Routledge
Pagine: 155
Prezzo: €
Anno di pubblicazione: 2015