È in libreria dal 4 febbraio la riedizione di 1984 (Chiarelettere), “testamento politico” di George Orwell, accompagnato per l’occasione da due saggi dell’autore sul mestiere di scrivere, dal Ritratto sentimentale di George Orwell a firma di Geno Pampaloni e da un ampio saggio introduttivo di David Bidussa. Ne pubblichiamo qui un estratto.
Millenovecentottantaquattro chiede a chi legge di prendere in mano le sorti e scrivere un futuro diverso da quello che gli prospetta la fiaba. Perché la fiaba gli dice che il futuro terrifico del potere è già qui. Paradossalmente (ma qui sta la grande capacità narrativa di Orwell) ciò che ci viene descritto non è il futuro che verrà e che bisogna far di tutto perché non sia. Il protagonista di Millenovecentottantaquattro è il presente. Per sfuggirgli occorre pensare (e volere) un futuro diverso.
Millenovecentottantaquattro è per questo una fiaba ottimistica? Non ne sono sicuro. Perché, appunto, il presupposto è che bisogna volere un futuro diverso dal quadro presente e occorre desiderarlo intensamente. Non solo immaginarlo, ma impegnarsi per renderlo «possibile».
Dunque, per sfuggire al presente, occorre avere un’idea, meglio, un «progetto di futuro». Ecco il punto dove questa favola torna a parlare a e con noi. Ora.
Abbiamo noi ora un «progetto di futuro»? Ne dubito. Da tempo ci siamo dismessi da un’idea di futuro possibile.
Ci sono varie scene che si possono indicare per descrivere quando è avvenuto questo divorzio tra il nostro presente e la voglia di pensare futuro. Io so qual è la mia: è accaduta più o meno vent’anni fa, luglio 2001, nei tre giorni del G8 di Genova. Anzi più precisamente lunedì 23 luglio, il giorno dopo. Il futuro per una generazione, o almeno per una parte rilevante di una generazione, non è morto a Genova, ma si è eclissato «uscendo da Genova», quando tornare a casa si è tradotto nel non esserci più, nel fare altro, nel dimettersi dal desiderio di futuro, nel lasciar fare al tempo presente.
Quasi quindici anni dopo, il tema di chi voleva pensare un diverso futuro è tornato al centro dell’agenda pubblica in nome della sostenibilità, volendo proporre un uso differente delle risorse, altri modelli alimentari e stili di vita, circolarità dei beni, educazione contro lo spreco. Strana rivincita di un’idea di futuro violentemente accantonata e sopraffatta. E tuttavia, riemersa a seconda vita, quella parola nel suo nuovo «giro di tavolo» non riesce a produrre desiderio, ovvero a trasformarsi in emozione.
L’idea che pensare futuro debba partire da una riflessione sul contenimento, su un’equa distribuzione, e per cui sviluppo nel XXI secolo non è più sfrenatezza, che sostenibilità è ripartizione, per certi aspetti rinuncia, comunque condivisione – che sembrava non ricevibile a fine millennio, una roba per i sognatori di Seattle e Porto Alegre – improvvisamente si accredita nel 2015 a Milano, quando Expo diventa la piattaforma non solo di un futuro possibile, ma di un «futuro obbligato», a tempo breve, da raggiungere nell’arco di una generazione.
Detta così sembra un’idea ancora calda. Pensare futuro torna a essere possibile. Ma la convinzione diffusa che quell’idea di futuro sia solo una punizione da parte di «piagnoni» che non ci vogliono far vivere felici è lo slogan di neocomplottisti che diffondono l’idea secondo cui quella scelta di futuro condiviso sia solo un ricatto, un modo per non farci godere il presente.
In assenza di una passione per il futuro succede così che quella scommessa di futuro assume le vesti di un’«utopia fredda». Ha facile gioco la risposta che risponde alla logica di liberarsi dalle responsabilità facendo finta di essere padroni del proprio destino. L’effetto è un nuovo appiattimento sul presente spacciato per grande riscatto, come un modo per riprendersi in mano un futuro che non c’è, che nessuno descrive. Semplicemente «domani è un altro giorno» uguale a oggi.
Se Orwell avesse la possibilità di scrivere ancora forse scriverebbe una nuova fiaba sul riscatto. O forse ci inviterebbe a prendere ancora in mano la scena di Millenovecentottantaquattro e a tentare di ritrovare un diverso profilo di ragionamento,
sapendo che riscatto si produce con ciò che si ha tra le mani e non andando a cercare nessun tesoro nascosto, ma scavando dentro di noi e guardando la realtà nella sua
nuda verità. Perché solo così, senza sconti, si può pensare, ma soprattutto volere, futuro.
O forse ci direbbe che, anche usciti sconfitti, vale la pena esercitare il proprio rovello e il proprio impegno per dare gambe a una scommessa di futuro. Per sollecitarci, probabilmente, Orwell evocherebbe il momento della sua uscita da Barcellona nell’estate 1937, dopo che i propri sono stati annichiliti dagli stalinisti, ovvero da quelli che dovevano combattere il nemico comune.
Orwell esce da Barcellona da sconfitto e da perseguitato da parte di chi sta combattendo dalla sua stessa parte, eppure non molla. Il suo ritorno a casa non è rinuncia, è riprendere in mano il presente per provare a pensare futuro.
Omaggio alla Catalogna, pur nel dolore, non è «il canto ripiegato» della fine del sogno. È, invece, la rivendicazione del diritto al futuro e al sogno. Da quel momento, come poi
spiega tornando a riflettere su quelle giornate in Spagna e poi in Perché scrivo [pp. 407-418], scrivere è combattere il totalitarismo: sia quello che è andato a combattere in Spagna, sia quello che in Spagna ha scoperto essere anche dalla propria parte, in mezzo a lui, tra i suoi amici. Per quel che gli compete è provare la dimensione servile degli intellettuali pubblici (tra i primi, coloro che per mestiere dicono di raccontare la verità, ovvero i giornalisti, comunisti che raccontano come andarono le «giornate di Barcellona» nel maggio-giugno 1937).
Titolo: Millenovecentottantaquattro
Autore: George Orwell
Editore: Chiarelettere
Pagine: 496
Prezzo: 16 €
Anno di pubblicazione: 2021
Ho avuto l’opportunità di ascoltare una lectio di Bidussa sul “1984”.Ho “divorato” la sua introduzione.Come non condividerla in toto? Due “rimproveri” soltanto:il primo ‘leggero’,il secondo meno. Il primo:avrei gradito un maggiore approfondimento su quella che fu l’esperienza di Orwell nella guerra di Spagna.Il secondo:il rammarico che questo lavoro sia stato scritto con “qualche decina di anni di ritardo”. I “rimproveri” avrebbero potuto “illuminare” molte tappe del cammino faticoso e confuso della sinistra italiana.