Un libro di più di mille pagine suscita inevitabilmente, anzitutto in chi come me abbia a che fare professionalmente con libri e che anche ne scriva, un senso di lieve repulsione. Troppe parole che facilmente possono far sperdere il lettore in un labirinto incomprensibile, piuttosto che portarlo alla miglior comprensione di una storia, di un frammento di realtà. Né la mia personale vicenda di spettatore partecipe della storia ricostruita in esso: “Il crollo” del PSI nella crisi della prima repubblica, attenuava granché questo senso di lontananza. Non poteva infatti mancare il sospetto che, come in tanti casi di autobiografie e memoriali postumi, l’elemento giustificazionista, la perorazione di una propria verità personale finisse col deformare i fatti, allontanandoci ancor più da una storia che, per molti di noi, è stata fonte di amarezza e sofferenza. Cosa potevo aspettarmi da un insieme di interviste ai sopravvissuti del gruppo dirigente del PSI degli anni ’80 del secolo scorso (perché questo interviste costituiscono il corpo centrale del libro), dopo tanto tempo, se non spiegazioni risapute, difese scontate e rancori insepolti?
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Man mano, però, che mi sono inoltrato nella lettura del ponderoso volume sono stato preso dal singolare fascino che esso ha esercitato su di me e di cui vorrei dar conto immediatamente al lettore. In effetti l’indubbia forza che promana dal libro, il suo ‘fascino’, come dicevo, credo s’annidi nella dimensione tragica della narrazione, resa incisiva dalla bravura degli intervistatori nel costruire e articolare le domande poste ai vari personaggi e dalla qualità di costoro, quale traspare delle loro risposte. E parlo di tragicità nel senso proprio del termine, quale ci è derivato dall’eredità ‘classica’ della tragedia greca, o dalle opere di Shakespeare, come lo scontro di opposte e inesorabili necessità, dove è esclusa in partenza l’idea stessa – così più adatta all’invenzione ‘borghese’ del romanzo – di una ‘conclusione’, con dei vincitori e dei vinti.
Perché questo è il punto: la storia qui recensita è una storia scritta dai vinti, ma già nel suo esito si poteva ben cogliere quanto effimera fosse la stagione dei vincitori, imprigionati dalla loro stessa vittoria in una strada senza sbocchi. Gli anni successivi hanno poi reso evidente questo destino che, del resto, primo tra tutti, ma non unico, Luciano Cafagna aveva colto profeticamente.
Non è certo possibile in questa sede seguire il libro in tutte le sue articolazioni: e come sarebbe possibile solo menzionare i temi affrontati nelle interviste a ben diciassette dei vecchi dirigenti socialisti degli anni di Craxi, dal 1976 al 1992? Così le narrazioni di Tognoli, Di Donato, La Ganga, Signorile, Amato, Andò, Conte, De Michelis, Formica, Cicchitto, Martelli, Covatta e Acquaviva e degli altri ancora si svolgono dando vita ad una polifonia di grande complessità, sino ad evidenziare evidenti discordanze, salvo poi a fondersi con forza in accordi drammatici nei passaggi nodali. Quei passaggi che sempre più ci avvicinano all’esito tragico e ne danno le ragioni anche lontane. Né si potrà dar conto, non che discutere, delle analisi ulteriormente sviluppate nel libro, sulla scorta del vario materiale offerto dagli intervistati, da una serie di studiosi che vanno da Craveri a Di Nolfo, Sapelli, Pinto, sino agli autori stessi delle interviste: Livio Karrer, Alessandro Marucci e Luigi Scoppola Iacopini.
Mi limiterò dunque e cercare di cogliere proprio questi punti nodali, dove meglio s’evidenzia la catena di eventi e di scelte che avrebbe portato, dopo tante sorprendenti vittorie alla sconfitta finale il gruppo dirigente che aveva preso in mano il PSI, nel 1976, con la svolta del Midas. Una svolta, ricordiamolo, direttamente mirata a ribaltare le linee di tendenza che ormai minacciavano la stessa sopravvivenza del Partito Socialista, aggravatesi con gli esiti, non solo elettoralmente catastrofici, della segreteria di De Martino, subalterna sia alla DC che al PCI. Quasi che l’azione di Craxi e dei suoi non avesse avuto altro effetto che quello di ritardare un poco questa stessa scomparsa dei Socialisti, senza peraltro modificarne il destino.
Gli intervistati, guidati dalle sapienti domande dei giovani storici, sono unanimi nel ricordare le tappe della marcia vincente dei Socialisti sotto la guida di Craxi: l’efficace sfruttamento delle contraddizioni profonde della politica del compromesso storico, il dissociarsi del PSI dalla politica della ‘fermezza’ imposta dai Comunisti agli incerti Democristiani, l’impasse della politica berlingueriana, in un contesto internazionale ancora segnato dai due grandi blocchi politici, derivante sia dalla chiusura della DC del ‘preambolo’, sia dalla propria impossibilità, o mancanza di volontà, di assumere in pieno i valori propri della tradizione socialdemocratica o laburista europea. Dopo che il PCI di Berlinguer s’arroccò “in una posizione che non era di alternativa politica, ma di sistema, con le parole d’ordine della ‘questione morale’ e della sopravvenuta ‘inagibilità democratica’” (Craveri), per Craxi s’aprirono nuovi spazi per il suo scontro di potere con la DC. Una volta riscattata, con una rapida guerra di corsa, un sufficiente ‘potere di coalizione’ rispetto alla DC, avendo cancellato ogni forma di subalternità al PCI, alla fine degli anni ’70, Craxi s’apprestava ad erodere quella che, sin dall’inizio della Repubblica, era stata la centralità politica della DC.
S’avviò allora una nuova stagione di mobilitazione politica e di alleanze sociali atte a costituire il fondamento del nuovo protagonismo socialista: non sono cose nuove. Come non è nuova la storia ripercorsa a rapidi tratti dagli intervistati, stimolati da appropriate domande: il consolidarsi del nuovo gruppo dirigente in parallelo al crescente successo dell’azione disgregatrice operata dal partito nei riguardi di quell’organico rapporto DC-PCI, che aveva soffocato, riducendolo a sostanziale irrilevanza e avviandolo a dissoluzione il Partito Socialista, sin dagli ultimi anni del primo centro-sinistra e poi nel corso della stagnazione demartiniana.
Dove la novità sottolineata da molti, e anzitutto da chi di Craxi era stato oppositore, come Signorile e Cicchitto, è la ricomposizione del dissenso interno entro limiti tali da impedire quella caratteristica tribalizzazione in correnti e sottocorrenti che aveva devastato la precedente vita del Partito. E poi i nuovi successi, per certo verso imprevisti e insperati: anzitutto la trasformazione di Craxi da forte uomo di partito – che pur tale resterà sempre – a statista. Sono gli anni felici della sua presidenza che s’impone non solo nel Paese per una capacità di governo molto elevata, ma anche sul piano internazionale, dando all’Italia una statura raramente toccata negli anni della routine democristiana, appiattita su un atlantismo passivo e, talora, ammiccante di chi era apparso negli anni, più un pavido seguace che un convinto partecipe.
Sia la ragnatela delle domande che tutte le riposte convergono poi nell’individuare il momento iniziale della parabola declinante della politica craxiana, nella fine della sua stagione di governo, con l’accoglimento della ‘staffetta’ impostagli dalla DC, che cercava di recuperava quella centralità nel sistema politico italiano che era stata messa ormai in discussione. Mentre poi, del quinquennio successivo, dall’ ‘87 al ’92, le letture dei vari protagonisti mostrano divergenze significative, riflettendo tuttora quella divaricazione di prospettive politiche allora adombrate che – seppure io credo non sia stato determinante per gli esiti finali – segnò rotture di carattere personale e umano in parallelo all’implosione finale del PSI.
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Ma qui mi fermo per fare un passo indietro e cercare, ancor prima dell’’87, alcuni dei fattori sotterranei che erodevano sin dall’inizio la straordinaria guerra di corsa craxiana. Straordinaria per l’ambizione di ribaltare i rapporti di forza a sinistra, ridimensionando in profondità il peso elettorale comunista, allora al massimo, a vantaggio del PSI. Sembrava una farneticazione, secondo il buon senso corrente, ed era un progetto.
La dimensione stessa e l’enorme difficoltà dell’impresa presupponeva tuttavia una straordinaria forza operativa che poté essere messa in opera da Craxi solo in parte, anzitutto attraverso la sua efficace leadership, con l’agilità di manovra di cui s’è già detto . Fu anche un notevole successo, in tal senso, la completa rigenerazione del gruppo dirigente e la mobilitazione di energie intellettuali che coincise con una stagione alta della progettualità socialista e, infine e soprattutto, con una fortissima. Sono tutti aspetti ampiamente e puntualmente sottolineati da molti degli intervistati che di questo processo furono i diretti protagonisti e partecipi. Dal tono, prima che dal contenuto di queste testimonianze si ricava immediata e netta conferma di qualcosa apparentemente molto ovvio: il carattere carismatico della guida politica di Craxi. Meno ovvia, però, è una latenza destinata a persistere negli anni creando, alla fine, una forte e pericolosa contraddizione nella vicenda socialista.
Giacché lo schema weberiano, contrapponendo a un potere carismatico un potere istituzionale, definisce due diversi tipi di legittimazione: uno derivante dall’alto, dalla figura investita per sé di potere, l’altro fondato invece sul funzionamento ordinario di regole e di strutture esistenti di per sé. Ora, coerentemente al carattere carismatico della sua leadership, in Craxi sono evidentissimi gli elementi costitutivi di questa: il suo formidabile intuito politico, la sua assoluta superiorità tattica e la sua freddezza di nervi, da grande giocatore di poker, ma anche una sfumatura, vorrei dire ‘patriarcale’ (nel senso di ‘farsi carico’, di non limitarsi solo ed esclusivamente al proprio vantaggio), nel suo esercizio del potere che contribuirà a fare di lui, uomo di parte quanto altri mai, un efficace e autorevole uomo di governo.
Una direzione politica di questo tipo richiedeva una notevole concentrazione di potere: cosa del resto quanto mai consona alla personalità autoritaria di Craxi. Del resto, sulla scia di Nenni, dal quale direttamente derivava, egli era essenzialmente, se non esclusivamente, un politico puro, la cui azione era direttamente riferita al potere: un potere, tuttavia, arricchito da un voler e saper fare, diverso in questo da una fisionomia molto diffusa che esso assume in una società stagnante come la nostra, come mero controllo dell’esistente, rendita di posizione, sostanzialmente passiva. Ma sempre potere era, da esercitarsi nel modo più efficace e autonomo possibile.
E’ qui che a me sembra di avvertire un primo segnale forte di squilibrio, proprio nella struttura interna a questo nuovo assetto. Del tutto coerenti al quadro che ora richiamavo appaiono infatti tanti aspetti della nuova politica socialista: anzitutto quella ricerca di un’autonomia finanziaria del Partito su cui quasi tutti gli intervistati hanno insistito, come condizione basilare per un effettivo riequilibrio di forze tra DC, PCI e PSI. Di eguale importanza è il processo di centralizzazione del potere decisionale e di azione da parte del Segretario-Presidente del Consiglio, con debolissime deleghe e sempre revocabili, con quel carattere sospettoso che s’accompagna pure ad una notevole capacità di valorizzazione di talenti e competenze, ma sempre revocabile ad libitum (Martelli, Amato). Ma nel politique d’abord di nenniana memoria s’annida una debolezza ingenerata dal sostanziale disinteresse per le strutture istituzionali come strumento ordinario di esercizio del potere stesso.
Se al governo, Craxi ha l’enorme vantaggio di potersi avvalere di uno dei più straordinari conoscitori della macchina istituzionale come Giuliano Amato al quale delega in modo quasi totale il compito di farla funzionare, questo non avviene nel governo del partito. Certo il potere decisionale nella politica nazionale e nel gioco di corsa così intrapreso è necessariamente tutto concentrato nelle mani del segretario, attorniato da un gruppo relativamente ristretto di dirigenti. Eppure il PSI, nelle sue strutture di fondo, resta uno strumento vecchio, assolutamente inadeguato alla nuova politica voluta da Craxi: un partito di assessori e di cacicchi, troppo facilmente identificabili con quel consesso di “nani e ballerine” di cui parlerà il sulfureo Formica. Questa realtà, ci dicono gli intervistati, Craxi la disprezzava e la sfuggiva, la controllava in parte giocando sulle rissosità locali, ma era lungi dall’averla azzerata. Anzi, proprio il successo conseguito in quegli anni dal PSI, nell’incrementare il suo ‘potere di coagulo’, aveva moltiplicato i cacicchi locali, quasi a divenire il partito dei vicesindaci e degli assessori. Ma quanto era compatibile questo microfeudalesimo locale con un progetto politico così ambizioso e che postulava una così forte concentrazione di potere di manovra al vertice?
Era una lacuna forse inevitabile, nella nuova costruzione politica di Craxi, favorita io credo anche dalla conclamata indifferenza di carattere istituzionale di un politico ‘totale’ come Craxi, per cui era ovvio che ‘l’intendenza’ dovesse seguire. Ma era una lacuna che, irrisolta, avrebbe potuto rivelarsi una debolezza gravissima nei momenti di difficoltà. Ed è un aspetto che trova riscontro nella sostanziale ambiguità del controllo delle risorse finanziarie per la vita del partito. Dalle interviste emerge con chiarezza la duplice linea perseguita in senso autonomistico, rispetto agli altri potentati politici, all’esterno, ma rispetto anche alle pluralità di protagonisti o aspiranti protagonisti, all’interno del partito. La lacuna di cui dicevo diventa potenzialmente esplosiva proprio sotto questo profilo: in alcun modo infatti la perseguita centralizzazione del controllo delle risorse, stando agli intervistati, soppresse gli spazi individuali e i circuiti locali, nel perseguimento di fonti di finanziamento ‘anomale’. Il paradosso che emerge in vari passaggi delle interviste è che, mentre a differenza degli altri grandi partiti, nel PSI questo settore delicato, ma anche, ad esser sfumati, assai imbarazzante passò direttamente in carico del Segretario, ciò non impedì che si sviluppasse un ‘piano inferiore’, diciamo così, di circuiti finanziari illegittimi del tutto fuori controllo e potenzialmente dotato di una forza centrifuga.
I Socialisti hanno certamente tentato un processo di laicizzazione della società italiana demistificando molti degli idola che ne opprimevano (e ne opprimono tuttora) la cultura politica e cercando di avvicinarsi al nodo reale dei problemi. E certo il sopperimento del notevole fabbisogno finanziario dei grandi partiti attraverso canali non regolati dalla legge, anzi da essa vietati, era uno dei segreti meno custoditi della prima Repubblica. Basterebbe scorrere quella preziosa testimonianza della vita corrente che erano e sono in parte i nostri film per incontrare come dato ovvio l’ordinario flusso di tangenti legato al potere politico: in genere al vero potere politico, quello democristiano. Tuttavia, anche in questo, oltre ad una gestione più diretta e più direttamente imputabile al proprio vertice politico, i Socialisti introducono un che di più esplicito, talora quasi esibendo il ricavato di flussi irregolari, esatti anche con una certa aggressività. E’ allora che si concentra sul PSI un’aura d’illegalità estremamente negativa. Nelle interviste sono molti a insistere, e certo non a torto, sul ruolo giocato in tal senso dai media, ‘Repubblica’ in testa. Ma questo, appunto, non fa che evidenziare un altro problema: perché tanta ostilità?
Certo, aver disturbato equilibri consolidati, il crescente distacco dei c.d. ‘poteri forti’, anch’essi richiamati a più riprese nel corso delle interviste, il sopravvenire di nuovi equilibri ingenerati dal contesto internazionale e dai vincoli europei sono tutti fattori che, nel corso del tempo, intervengono a ostacolare ed isolare l’azione del PSI. E certo sono l’ultimo a sottovalutare il ruolo di ‘Repubblica’, o la straordinaria azione di penetrazione del PCI nel complesso tessuto culturale del paese, sin dal primo dopoguerra: uno degli indubbi capolavori politici della dirigenza togliattiana. Ma che faceva allora Martelli e la politica culturale socialista negli anni in cui il PSI sembrava occupare manu militari la RAI e in cui Berlusconi acquisiva spazi crescenti – e talora impropri – nel mondo dell’informazione e della comunicazione grazie al sostegno determinante del PSI? E la stampa d’opinione, i grandi giornalisti erano tutti asserviti alla politica del giorno per giorno dei padroni o tutti ‘compagni di strada’ della vulgata comunista?
La mia idea è che Craxi, nella sua guerra di corsa, non solo si fosse disinteressato di approntare un vascello adeguato alla bisogna, continuando a utilizzare una vecchia baleniera rattoppata e limitandosi a curare il ponte di comando. Divorato dall’impazienza per un progetto che sembrava quasi trascenderlo egli però ha finito col trascurare – non è stato il primo – quegli elementi ideologici, quell’insieme inafferrabile, ma consistente di ‘valori’, la forza stessa delle idee che, pure, erano state e continuavano ad essere uno dei punti di forza del socialismo italiano. L’esibizione del malcostume e dei suoi frutti perversi isola i socialisti rispetto all’ipocrisia, ma anche alla cautela democristiana, ed alla persistente, anche se talora solo apparente, austerità di comportamenti di cui sono permeati i quadri del PCI.
Ma li isola anche rispetto alla società in cui essi operano, respingendo proprio gli elementi più sani, disinteressati in essa presente e finendo coll’attrarre, alla ricerca di facili vantaggi, i più ‘mariuoli’. Negli anni ’80 i socialisti, anche grazie al loro esplicito sforzo di modernizzazione nel campo propositivo e intellettuale – Rimini rappresentò un punto alto, che tuttavia non poteva essere altro che un inizio e restò invece un po’ un unicum, seguito addirittura dall’indebolimento di ‘Mondoperaio’, con l’allontanamento di Federico Coen – attrassero molta e benevola attenzione, anzitutto dei gruppi sociali emergenti, delle forze nuove che venivano maturando in una società esposta alle grandi trasformazioni del quadro internazionale. Ma non curarono sufficientemente il lavoro lungo e faticoso – quel lavoro umile e paziente che fu il merito di tanti quadri comunisti – volto a metter radici più solide nel corpo sociale.
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E questo spiega, almeno in parte, il perché della violenza radicale e totalizzante del crollo, quando esso intervenne. E’ interessante sotto questo profilo che la serie di interviste, pur così dense e cariche di coraggio e di quella che definirei addirittura un’intima austerità di gente che cerca di ricordare e capire, piuttosto che giustificarsi e rimpiangere, su questo punto sia sfuocata. Forse solo Acquaviva sembra avvertire la serietà di questo problema: se la ‘questione morale’ non poteva sostituire la politica, come aveva invece tentato Berlinguer, non per questo la politica poteva fare a meno di essa. Il disprezzo di Martelli per i “bulli di latta della partitocrazia” non mi sembra dello stesso stampo, ma posso sbagliare. Non penso invece di sbagliare rilevando un silenzio quando s’inizia a parlare della fase calante, delle incertezze, se non dei veri e propri errori di Craxi dopo la fine del suo governo, nell’86. Certo, non credo si debba assolutamente sottovalutare – specie per il tipo di politico che egli era – il peso di una malattia che poteva incidere proprio sulla lucidità intellettuale così necessaria al suo gioco sempre al limite: è un punto giustamente richiamato da molti. Mentre invece, e comprendo bene anche la doverosa pietas che permea questo silenzio, non emerge il fatto che quell’andazzo da socialisti rampanti che continuava a scalfire la pur dirompente immagine del partito sulla cresta dell’onda, s’era esteso sino ai vertici, sino a permeare di sé la società romana che s’era stretta intorno al Segretario, quasi una piccola corte, con l’ovvio effetto deformante di ogni vita di corte.
Mi hanno colpito nelle interviste due punti ricorrenti e molto significativi. Il primo è quasi ovvio: il riferimento che tutto il progetto craxiano induceva a fare, alla Francia, con la conquista della centralità politica della sinistra da parte di Mitterand. Il secondo è il rimprovero che alcuni intervistati – e non dei minori – fanno a Craxi di non aver tentato di forzare il rapporto di forza con la DC, inducendo Cossiga a sciogliere il Parlamento per potersi direttamente appellare al Paese. E’ questo lo snodo: perché ha certo fondamento l’idea che i tempi fossero maturi per poter raccogliere un sufficiente consenso intorno a un radicale mutamento del quadro istituzionale. Ma chi lo poteva fare? Questo è il punto: perché, a mio giudizio, a ciò non era adatta la coppia formata da un presidente estemporaneo e ‘picconatore’ e da un politico di lungo corso.
In Francia, non dobbiamo dimenticarlo, chi era riuscito a imporre un mutamento del tavolo di gioco – e sotto la spinta di una seria minaccia di colpo di stato militare – era stato un uomo al di fuori del sistema e di enorme prestigio. Perché De Gaulle si era anche fisicamente allontanato dalla stagnante politica della quarta repubblica, pur conservando – e la cosa è stata talora sottovalutata – l’enorme fascia di rapporti espliciti e sotterranei, ma fortissimi, costruitisi negli anni duri della resistenza di cui era stato il comandante supremo ed il simbolo riconosciuto da tutta la Nazione. Solo dopo De Gaulle e dopo la nuova costituzione e grazie a questa, Mitterand ha potuto fare il suo gioco. No Cossiga non era De Gaulle e fu addirittura un gioco farlo passare per quello che non era: un fellone o un pazzo. Né lo poteva essere Craxi, impregnato com’era di quel modo di far politica che si doveva invece superare.
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Il tono delle interviste s’incupisce nel trattare degli anni succedutisi al crollo del socialismo reale ed all’inizio della rottura del sistema politico italiano, con l’emergere di nuovi soggetti fuori sistema come la Lega o antisistema come la proposta di Mario Segni. Gli intervistati sono unanimi nell’individuare il punto di frattura della politica craxiana nell’invito di andare al mare, piuttosto che votare per il referendum. Era infatti evidente che il PSI, in tal modo, s’isolava clamorosamente proprio da quei fermenti innovativi all’interno della società italiana cui sino ad allora esso aveva sembrato rivolgersi in modo prioritario. E’ in questo quadro che s’innestano alcuni motivi di fondo che s’impongono al lettore anche perché è su di essi che s’incontra la giusta e calibrata curiosità degli intervistatori con le esperienze ormai lontane, ma cariche di drammaticità, dei protagonisti d’allora: la crisi di Craxi, la rottura del gruppo dirigente socialista, e, infine, ‘la grande slavina’ giudiziaria.
Serpeggia, nel corso di queste pagine, la malattia di Craxi come una delle possibili chiavi interpretative del suo appannamento politico. E, in effetti, ricordo bene come a questa idea ricorressi, ‘spettatore partecipe’, nel percepire lo smarrimento che gradualmente si diffondeva nella vasta sala del Congresso di Bari, durante la relazione del Segretario. Era una truppa abbastanza becera di uomini e ometti di potere, il partito degli assessori’, insomma, che avvertiva immediatamente la perdita di quell’impalpabile e pur così reale messaggio di fiducia e certezza proveniente dal capo.
Era pressoché inevitabile che nel corso delle interviste, s’evidenziasse tuttora una varietà d’opinioni in ordine alla presenza di possibili politiche alternative all’interno del gruppo dirigente socialista. Sino alla sprezzante cecità di Covatta che queste alternative alla linea di Craxi, portate avanti da Martelli, Formica e De Michelis non le vede proprio. Parto da questa provocazione perché essa, a mio giudizio, nella sua forzatura, tocca un nucleo di verità, giacché né Formica né De Michelis, e neppure Martelli, l’erede vagamente designato, ma in un futuro lontano, erano in grado di guidare il PSI su una strada nuova e neppure di realizzare quello che era il passaggio necessario, ma mancato sia a questo partito, sia al PCI: la ricomposizione della rottura di Livorno. Neppure Martelli, che pure a Bari aveva cercato di forzare la mano con un discorso importante. E tanto meno Amato, lo straordinario uomo di governo, ma non uomo di partito. E poi quali scelte, ora che era scattata la resa dei conti giudiziaria?
Sono storie amare quelle rivissute in queste pagine, dove analisi razionali si fondono con il senso di una ingiustizia ancora cocente. E sono convincenti e talora abbastanza circostanziati i riferimenti alla dolosa passività di chi non poteva esserlo, e non si devono annotare toni troppo alti, anche quando si sfiorano aspetti addirittura sinistri di quegli anni. Certo s’insiste a più riprese sulla possibilità del complotto internazionale, sul ruolo dei ‘poteri forti’ economico-finanziari, sull’esigenza di rientrare nelle regole indotta dall’adesione dell’Italia a Maastricht.
Ma il problema è che il PSI era solo: per gli errori di Craxi e per gli errori paralleli dei suoi avversari: dei dirigenti postberlingueriani che continuavano a considerare la direzione del PSI come effetto di una esecrabile mutazione genetica, dei democristiani che inseguivano invano una indebolita, se non perduta centralità nel mentre che era in ballo la loro stessa sopravvivenza. Ma erano soli, questo è il punto, rispetto a un’opinione pubblica attratta da nuove prospettive di movimento e di mutamento offerte da altri e più nuovi protagonisti.
Nel momento stesso in cui solo una svolta di natura sostanzialmente rivoluzionaria (assumendo il valore strutturale che quello che nei tardi anni ’60 e in seguito si sarebbe qualificato come ‘consociativismo’ della Prima Repubblica) appariva indispensabile per rompere gli arroccamenti reciproci DC e PCI di fine anni ’80, la forza che poteva impegnarsi in tale avventura era guidata da chi, in fin dei conti, dentro quel sistema politico fa superare era s’era formato ed era cresciuto. E comunque essa stava rapidamente perdendo il collegamento con l’ondata di piena che si veniva formando, alimentata appunto dall’indignazione collettiva per l’accresciuto livello di corruzione e inefficienza dell’apparato pubblico e della politica.
E’ su questo che si può speculare sul significato dell’alleanza di un nucleo movimentista o più politicizzato della magistratura con il PCI. Ma non dobbiamo dimenticare come essa fosse una storia vecchia. Il fatto nuovo, agli inizi degli anni ’90, era che l’unico corpo sociale allora (e tuttora, almeno in parte) capace di chiedere una delega a tutto il paese (sì: anche ai Berlusconiani) fosse il potere giudiziario e questa delega la ebbe allora, utilizzandola nel modo più efficace. Talché, da allora e sino ai giorni nostri esso è divenuta la vera forza determinante di una lotta politica senza quasi più contenuti reali. Dove il sogno di promesse impossibili o una rivolta contro tutto e tutti assicura un ristagno senza futuro, ma carico di minacce.
Titolo: Il crollo. Il PSI nella crisi della prima Repubblica
Autore: a cura di Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta
Editore: Marsilio
Pagine: 1050
Prezzo: 50 €
Anno di pubblicazione: 2012
In relazione all’articolo recensivo sul libro a proposito della strana “crisi” del socialismi italiano, vorrei solo commentare ( a memoria di quanto scrissi in “Ethos e kratos” e “1994”. Critica della ragione sofistica ), con un interrogativo: E se la crisi dello sforzo autonomistico espresso dal “liberalsocialismo italiano” ( erano i tempi di “Mondoperaio”, la prima serie di Luciano Pellicani, con i saggi su Mondo 3, Silone, Popper etc ) fosse stata dovuta a una forma di “controrivoluzione preventiva”, nel senso che il Partito organicistico per eccellenza temeva i cosiddetti “socialtraditori”, la scoperta degli “altarini”, il “triangolo della morte”, la chiamata a Roma di Giovanni Falcone da parte del Governo e del Ministro della Giustizia dell’epoca ? Grato per l’attenzione, Giuseppe Brescia
Negli anni ’80, parafrasando una nota frase di Goebbels, usavo dire: “Ogni volta che sento pronunciare la parola ‘socialista’, metto istintivamente mano alla tasca posteriore dei miei pantaloni per accertarmi di avere ancora il portafoglio”…