Da Reset Dialogues on Civilizations
Era l’estate di un anno fa, quando i sindaci di alcune località balneari francesi vietarono alle donne musulmane di indossare il burkini in spiaggia. L’allora primo ministro francese, Manuel Valls, si schiera subito a favore del divieto. Del resto, la Francia stava attraversando uno dei periodi più drammatici della sua storia recente. Dopo le stragi di Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015, del Bataclan, il 13 novembre dello stesso anno, e infine quella di Nizza, avvenuta all’incirca un mese prima dall’inizio della polemica sul burkini, l’islam era diventato sicuramente uno dei temi più sensibili della campagna elettorale per le presidenziali francesi del 2017. Il partito di Marine Le Pen, il Front National, aveva, infatti, colto l’occasione per accentuare i suoi toni populisti e xenofobi, registrando così una crescita costante.
Costume da bagno che copre la totalità del corpo, ad eccezione del viso, le mani e i piedi, il burkini è stato ideato per uso personale dalla stilista australiana-libanese di fede musulmana, Aheda Zanetti, poiché le permetteva comodamente di nuotare e di stare al sole. Successivamente brevettato, il burkini è diventato un capo di abbigliamento riprodotto dalle più importanti case di moda.
Il Burkini come metafora (Castelvecchi editore, 96 pagine, 12.50 euro) è, invece, l’ultimo lavoro di Stefano Allievi che ricostruisce i significati della discussione sollevatasi, in tutta Europa, intorno al divieto del burkini e come questa, di fatto, abbia metaforicamente rappresentato il conflitto pubblico, comunicativo, ermeneutico, sulla presenza dell’islam in Europa.
Professore di sociologia all’Università di Padova, Stefano Allievi è esperto della presenza islamica in Europa e fa parte della Commissione nazionale di studio del fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista in Italia. In questo suo ultimo lavoro scompone tutte le argomentazioni e presenta i principali attori, che hanno affollato coi loro significati, la polemica sul burkini. Parlare di burkini, evidenzia Allievi, significa, infatti, dibattere su temi molto più ampi come quello dei rapporti tra religione e politica, della visibilità dell’islam nello spazio pubblico europeo, parlare dei rapporti di genere e del corpo delle donne.
Partendo dall’argomentazione femminista, Allievi sottolinea come proprio la donna musulmana sia una delle principali assenti dal dibattito sul burkini. In generale, la battaglia di emancipazione della donna dal velo deriva proprio da una concezione “di una donna musulmana incapace di emanciparsi da sola e bisognosa, quindi, dell’aiuto altrui”. Non ci si interroga mai, infatti, sul desiderio delle donne musulmane di voler indossare liberamente velo. In quest’ottica, il burkini, come il velo, non viene inteso come un diritto richiesto, ma sempre come un obbligo imposto dagli uomini sulle donne musulmane. Leggendo Allievi risulta evidente come similari argomentazioni facciano parte anche della retorica anti-islamica e islamofobica, dove il problema risiede nell’islam stesso, dottrinalmente contrario all’autonomia femminile. La donna in entrambi i casi finisce, dunque, con l’essere considerata come un soggetto passivo, una vittima sottomessa a una società patriarcale.
In un paese fortemente secolarizzato come la Francia, il tema della religione nello spazio pubblico è stato sicuramente uno dei punti nodali della polemica sul burkini, come del resto era già successo in precedenza con il velo nelle scuole. Allievi parla a tal proposito di una laicità identitaria, ossia di una laicità che diventa uno dei valori fondamentali della repubblica francese e che si trasforma paradossalmente in un “clericalismo di stato”. Anche se lo scrive tra parentesi, l’autore spiega chiaramente in un passaggio quali siano le logiche che risiedono dietro alle politiche e ai processi comunicativi che interessano l’intersezione tra stato e religione: “i francesi – nel dibattito pubblico e politico sul tema – sono i soli che ancora intendo la secolarizzazione come un processo unidirezionale e irreversibile, per giunta soggetto a un’unica interpretazione legittimata”. La consuetudine francese di proteggere la neutralità dello spazio pubblico, nei confronti dell’intromissioni di simboli e significati religiosi, ha di fatto configurato l’obbligo di conformarsi a una “secolarizzazione di stato, normata e resa obbligatoria”, mentre resta sempre più evidente come il processo di secolarizzazione sia piuttosto “un fatto contingente, storico, soggetto a mutevoli equilibri sociali, probabilmente reversibile”.
Al contrario, osservare il dibattito sollevatosi intorno al burkini negli ambienti islamici e islamisti, è stata un’occasione per immergersi in un laboratorio culturale e sociale, dove si rinnova la tradizione islamica. Il burkini, di fatto, non è mai esistito come concetto: “Non appartiene quindi a nessuna tradizione islamica, ma fa semplicemente parte di un percorso di ‘halalizzazione’, che da qualche anno a questa parte sta caratterizzando le comunità islamiche”. Un processo che produce nuovi mercati identitari, paragonabili, secondo Allievi, alle stesse dinamiche che coinvolgono i prodotti vegetariani, vegani, etc.
Gli alimenti, le pratiche, kosher, o halal, costruiscono, infatti, nuovi spazi normativi che restituiscono l’idea di come i testi sacri e le condotte religiose siano sempre state all’interno di un processo ermeneutico dialettico, riadattabile alle trasformazioni dei contesti socio-culturali, e in questo i testi sono “importantissimi in quanto strumento di legittimazione, che weberianamente, orienta l’azione degli individui.”
Giungendo alla fine della lettura, l’autore pone la domanda che risiede alla base dell’intero dibattito sul burkini e più in generale, dei rapporti che regolano la presenza dell’islam in Europa: in una società plurale e inclusiva, tutto deve essere uguale per tutti? Nelle società democratiche le diversità culturali è giusto che vengano trattate diversamente, con diversi pesi e misure, a seconda che queste violino, o meno, l’integrità corporale degli individui e vengano consapevolmente e liberamente, accettate. Motivi per cui “mentre il velo che non copre il volto è considerato accettabile, l’escissione o la mutilazione genitale femminile no.” Quello che, invece, risulta sempre meno accettabile nelle democrazie occidentali, sottolinea l’autore, è una normativa sui costumi che in nessun modo possono minacciare la sicurezza (l’aderenza del burkini non permetterebbe infatti di nascondere alcuni ordigno, o arma mortale), né tanto meno il buoncostume. “In questo senso la foto di Nizza con i poliziotti che obbligavano una donna su una spiaggia a levarsi una casacca (purtroppo con persone lì vicino che applaudivano i poliziotti, o commentavano con durezza dicendo: ‘Va’ a casa’ a una persona per la quale quella era presumibilmente casa sua quanto per loro, mentre la figlia della donna piangeva), è inguardabile.”
Dopo qualche settimana dal “burkini ban”, precisamente il 26 agosto, è, infatti, lo stesso consiglio di Stato francese a pronunciarsi contro il divieto, con la chiara motivazione per cui: “l’ordinanza ha portato a una minaccia grave e manifestatamente illegale alle libertà fondamentali che sono la libertà di andare e venire, la libertà di coscienza e la libertà personale”.
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Titolo: Il burkini come metafora. Conflitti simbolici sull'islam in Europa
Autore: Stefano Allievi
Editore: Castelvecchi
Pagine: 88
Prezzo: 13,50 €
Anno di pubblicazione: 2017
Esprimersi contro l’islam ortodosso non è xenofobia, è antifascismo.
È vero che vietare il velo non sia forse la scelta migliore ma bisogna spiegare che non è soltanto una questione di scelta personale ma di scegliere fra una tradizione di sottomissione a una autorità divina che non accetta il dissenso e la libertà di pensiero.