Da Reset-Dialogues on Civilizations
Aquarium dell’argentino Marcelo Figueras, appena pubblicato in Italia da L’Asino d’oro (tradotto da Gina Maneri), è un romanzo sull’amore come unico possibile riparo dalla violenza, sulla paura seminata dai potenti per separarci dagli altri, sulla lotta contro i propri demoni e sul viaggio che ogni uomo compie per tornare a se stesso.
Ulises, uno dei protagonisti principali, parte da Buenos Aires per Israele per cercare i figli, Alicia e Tadeo, portati via dalla moglie, un’ebrea appartenente all’immensa e variegata comunità argentina. Ulises, invece, è un goy, un non-ebreo. All’inizio si sente anche a proprio agio nella condizione di “fuori casta”. Né cristiano né protestante né musulmano. Né palestinese né israeliano. È Altro. Ma la sua odissea contemporanea sarà comunque un inferno. Parla un inglese insufficiente, non riesce a comunicare con il mondo, né riesce bene a comprenderlo questo mondo così violento, dove “nessuno sale su un autobus senza chiedersi se salterà in aria” e in cui “persino le vecchiette sono armate”.
Con un voluto richiamo al più moderno degli antichi eroi, l’autore – ospite del Festivaletteratura di Mantova il 10 settembre – mette Ulises in viaggio alla ricerca di ciò che ama e, sulla strada, gli fa incontrare un altro amore, quello per Irit, un’artista israeliana “dal cuore tamburo” in lutto per la scomparsa del marito ucciso nel conflitto con i palestinesi, con la quale si sviluppa una relazione basata su gesti, singole parole e invenzioni verbali, come suggerisce Jacques Brel: “Inventerò per te / parole senza senso / che tu capirai”.
I due sono l’incarnazione del sogno del capirsi senza parlare la stessa lingua. Insieme a loro l’autore propone altri intrecci e altri personaggi, che completano lo scenario scelto per costruire la storia, come il tassista Fayeq Haridi, i Kaufman, una coppia di newyorkesi trasferitisi in Israele con l’utopia negli occhi, e Danny, un bambino abbandonato in un sobborgo di Betlemme che comunica solo attraverso disegni, e il narvalo, l’attrazione dell’Acquario, l’unicorno marino, creatura leggendaria dal dente-corno a torciglione che porta il lettore a soffermarsi sull’acqua, simbolo di pace e armonia in tutte le culture.
Il suo personaggio, Ulises, non ama Gerusalemme perché “era il labirinto che aveva inghiottito i suoi figli”. Lei che sensazione ha avuto della città?
La mia sensazione è stata piuttosto quella di Irit, l’altra protagonista, quando sale sulle terrazze di Habad Road nella Città Vecchia. Davanti alla panoramica di Gerusalemme, Irit rabbrividisce perché è consapevole di essere in un posto bellissimo che racchiude una parte essenziale della nostra storia e della nostra cultura. Allo stesso tempo, le è chiaro che prevalgono le differenze sulle intese (spesso in maniera orribilmente violenta). Ma Gerusalemme continua a essere l’incarnazione di una promessa, in cui tutte le parti si sentano coinvolte: quella di raggiungere la vera pace fondata sulla giustizia, in cui uomini e donne di tutte le condizioni possano convivere come figli di Dio e quindi pari. Dalle terrazze di Habad Road si vede la yeshiva, che è la scuola religiosa ebraica; poco oltre si vede la moschea e, sullo sfondo, il Monte degli Ulivi dove Gesù passò secondo la tradizione cristiana. Di fronte a questi simboli delle tre grandi religioni occidentali, che occupano pacificamente la stessa immagine, ci si chiede: perché non credere che, al di là del consueto tenore delle notizie, l’utopia della pace è possibile? Questa è Gerusalemme per me, uno dei posti più belli, più terribili e più promettenti che abbia mai conosciuto.
È stato in Israele e in Palestina durante la seconda intifada. Per quale giornale lavorava?
Ho coperto il conflitto per una rivista spagnola che non esiste più, Human Planet. Il suo direttore era un’amica che sapeva che stavo progettando un romanzo in cui uno dei personaggi era palestinese. Tempo prima le avevo raccontato della mia intenzione di andare Israele e Palestina, non volendo creare quel personaggio solo attraverso i libri e Google: volevo vivere lì, registrare la musica delle strade, i colori, i profumi. Quando è scoppiata l’intifada, mi ha fatto una proposta: se avessi accettato di viaggiare e scrivere un articolo, il tempo rimanente avrei potuto usarlo per costruire il mio personaggio. Ma l’esperienza è stata così intensa – oltre che rischioso, ovviamente – che mi ha spinto a scrivere qualcosa di diverso dal romanzo avevo immaginato inizialmente. Quello che ho scritto, inevitabilmente, era Aquarium.
Ci sono state cose che non è riuscito a raccontare nella cronaca giornalistica? Con quale emozione è tornato a casa?
Quel che non potevo raccontare allora erano i punti di contatto con la realtà argentina che ho trovato nel conflitto. Parliamo dell’anno 2000, poco prima della crisi economica che ha devastato il mio paese. Al di là delle ovvie differenze, avevo percepito degli elementi in comune. Una popolazione sommersa, che non ha chiesto di nascere, né di essere lì: semplicemente esiste. Una élite al potere, a cui questa popolazione da fastidio, tra l’altro perché non gli serve neppure a consumare i prodotti venduti dall’élite stessa. E una classe media che si lascia spaventare dall’élite e che accetta – come le viene detto dall’alto – che l’unico modo per arginare quelle masse sia la violenza orchestrata dallo Stato. Quando ho finalmente scritto Aquarium, sapevo che non stavo parlando specificamente del conflitto israelo-palestinese: il romanzo parla della condizione umana e la facilità con cui i potenti ci mettono paura e ci separano dall’Altro – il palestinese, il povero latino-americano, il gay, il tossicodipendente, l’immigrato, il militante politico, chi appartiene a un’altra razza o a un’altra religione – più vicino a essere nostro potenziale alleato, nostro fratello dell’anima, che un nostro nemico.
Sono passati 15 anni dalla seconda intifada. Pensa che potrebbe esserci una terza intifada?
Le condizioni sono solo peggiorate. Quando sono tornato in Palestina, anni dopo, ho incontrato la tremenda realtà dei muri che Israele ha sollevato in assoluta slealtà; perché non solo recintano il territorio palestinese, ma lo frazionano con un criterio tanto perverso quanto intenzionale. Molte persone sono state isolate dal loro posto di lavoro, o dalla loro famiglia. Non dimentichiamo che negli ultimi anni ci sono stati anche feroci bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza. Oggi apro il giornale e scopro che quattro persone della stessa famiglia sono morte a causa di un’esplosione di materiale bellico lasciato là da Israele, durante il suo ultimo attacco. Tuttavia, è possibile che la dirigenza e il popolo palestinese abbiano capito che la violenza non è risolutiva come risposta, dovendo affrontare una potenza militare così colossale come quella di Israele. Se non ci sono state sommosse quando i coloni ebrei – installati nei territori che non gli appartenevano – hanno dato fuoco a una casa e ucciso un neonato, probabilmente non ce ne saranno altre. Nessuno può dire che non ci siano stati motivi per le intifada, ne compaiono di nuovi ogni settimana. Quello che è innegabile è che, dopo ogni rivolta violenta, il popolo palestinese è finito in condizioni peggiori di prima. La resistenza deve essere politica e diplomatica.
Con il ritorno dell’Iran nello scenario Medio Oriente dopo l’accordo sul nucleare, qual è il ruolo di Israele a livello strategico nel nuovo equilibrio della regione?
Non sono un esperto di politica internazionale, ma io continuo a credere che non ci sia peggior nemico dello Stato di Israele che i politici di destra che hanno governato i destini del paese negli ultimi anni. Queste persone basano il loro potere sulla paura che incutono nei loro concittadini. Li convincono che non bisogna cercare equilibrio alcuno, ma la totale supremazia militare ed economica sulle nazioni del Medio Oriente che hanno intorno. Non fanno politica, piuttosto praticano il suo perfetto opposto: l’intolleranza. E poi si stupiscono quando un ortodosso pugnala persone durante una marcia pacifica, come se quell’atto di violenza non avesse nulla a che fare con la predica separatista e razzista che viene diffusa quotidianamente. Fino a che il popolo d’Israele non supererà questo incubo della politica interna, non ci saranno le condizioni per una soluzione politica giusta e duratura.
In che modo oggi gli ebrei-argentini sono legati allo Stato di Israele?
La comunità argentina è molto grande, quindi c’è di tutto. Gente – e anche istituzioni – che difendono religiosamente la politica dello Stato di Israele, qualunque essa sia, per principio; e altre persone – tra cui cittadini molto noti: giornalisti, saggisti, artisti, il grande Juan Gelman era uno di loro – che hanno una visione critica della politica di apartheid che sostengono i falchi del governo.
C’è in Argentina anche una comunità palestinese?
Sì, ma infinitamente più piccola e meno influente.
Le piacciono gli scrittori israeliani? Se sì, quali?
Amo David Grossman, che ha perso un figlio durante il servizio militare obbligatorio, ma non ha perso l’umanità e la tolleranza, e Etgar Keret.
Kamchatka è diventato un romanzo dopo il suo arrivo al cinema, anche Aquarium è nato come una sceneggiatura. Naturalmente so che c’è una regola, ma cosa la spinge a scrivere le sue storie e come la politica e l’attualità la condizionano?
Sapevo che volevo raccontare storie dal quando ero piccolo. A quel tempo, ciò che m’importava era il senso di avventura e il desiderio di far volare l’immaginazione. Col passare del tempo, mi sono reso conto che scrivere storie era anche un modo di pensare, di esercitare il pensiero in profondità. Da allora, ogni storia che scrivo è un tentativo di trovare una risposta a qualcosa che mi inquieta della condizione umana, o del mondo in cui mi tocca vivere. La scorza della storia può essere aneddotica, o una pratica di genere. (Mi piace tutto: ho scritto cose realistiche, poliziesche, fantastiche, d’avventura, di fantascienza, horror …) Ma in fondo, io scrivo sempre per capire – e per sentire – meglio.
Sta lavorando a un progetto multimediale?
Il mio ultimo romanzo lo è in larga misura. El Rey de los Espinos è un romanzo illustrato. Ha disegni di un grande artista catalano, Riki Blanco, e per lanciarlo in Argentina ho diretto un trailer con musica originale e non pochi effetti speciali …
La tradizione letteraria argentina ha offerto modelli in tutto il mondo. Lei, da argentino, quali modelli ha avuto?
I miei modelli sono stati molto vari: Shakespeare, Melville, Dickens, Conrad, Stephen King, Dumas, Victor Hugo, Dante Alighieri, Salgari, Hugo Pratt … tra gli argentini, riferimenti inevitabili come Roberto Arlt, Borges, Cortázar e Osvaldo Soriano. Ma è possibile che la maggior influenza su di me l’abbia avuta Rodolfo Walsh, scrittore e giornalista assassinato dalla dittatura. Mi identifico con il suo modo di concepire il mestiere: Si può essere uno scrittore raffinato e rigoroso senza che questo significhi dare le spalle alla realtà, come molti artisti argentini che non si sono compromessi con il loro tempo.
Acquarium è uscito nel 2011, quando viveva a Barcellona. Ora dove vive?
Sono tornato a Buenos Aires tre anni fa, e sono molto felice.
Marcelo Figueras sarà ospite a Pordenone legge giovedì 17 settembre alle ore 17
Vai a www.resetdoc.org
Titolo: Aquarium
Autore: Marcelo Figueras
Editore: L'asino d'oro
Pagine: 328
Prezzo: 14 €
Anno di pubblicazione: 2015