21 Maggio; è la data in cui si ricorda il massacro dei monaci di Tibhirine, in Algeria, nel 1996. E ricordandolo qui intendo collegarlo al sequestro di padre Paolo Dall’Oglio, non solo per la profonda assonanza delle visioni di chi viveva nel monastero di Tibhirine e di chi viveva nel monastero di Mar Musa, ma anche per le profonde somiglianze tra l’ideologia degli epigoni del partito Baath al potere in Siria e del Fronte di Liberazione Nazionale al potere in Algeria. Non si tratta soltanto del ruolo di intelligence, generali, apparati repressivi, Unione Sovietica, stelle comete di entrambi da quando i militari si sono impossessati del potere a Damasco e Algeri.
Il Baath originario fu fondato da un arabo cristiano formatosi nella sinistra marxista in Francia e portatore di una visione del panarabismo come grande proletaria del mondo che si è mossa contro l’imperialismo degli Stati ricchi. Di qui si è potuti poi passare a una visione di isolamento dal mondo corrotto e ingiusto. Questa mentalità ha giustificato la cultura dell’assedio con cui i militari hanno perseguitato ogni dissenso. La deriva algerina ha conosciuto un cammino molto simile, confermato dalle intese bilaterali tra partito Baath e FLN algerino nel 1966. Ne ha parlato con dovizia di particolari Salah Boubnider, che al tempo faceva parte del segretariato esecutivo del Fronte algerino. La deriva militare non ha fatto che accentuare la trasformazione della visione socialista in persecuzione di ogni dissenso, che non poteva che nascondere un agente al soldo del mondo esterno, della sua corruzione. Questo isolamento dal mondo corrotto ci aiuterà a capire il vero motivo per cui non abbiamo potuto capire l’eccidio dei monaci di Tibhirine e l’espulsione e poi il sequestro di padre Paolo Dall’Oglio, nonostante una delle vittime algerine, padre Luc Dochier, avesse detto a uno dei pochi che continua a cercare la verità, il suo confratello Armand Veilleux: “se dovessimo morire sappiate che non sono stati gli islamici, ma quelli con le divise regolari.” Proprio lui, il medico del gruppo di Tibhirine, sapeva che il suo curare chiunque non era gradito agli apparati segreti del regime algerino.
E padre Paolo? Se il piano elaborato e fatto approvare da Kofi Annan consentiva la libera espressione del dissenso politico in Siria, perché il regime siriano pretendeva dalla Chiesa locale nella quale lui operava l’allontanamento di questo suo veemente critico? Il vescovo competente comunque non volle discutere con il regime, forse per quieto vivere. Non sbagliamo se pensiamo allo stesso quieto vivere immaginando cosa mosse i passi del vescovo d’Algeri, Henri Teissier. Solo la tenacia di un grande inviato italiano, Valerio Pellizzari, ha fatto emergere dopo anni e grazie a un colloquio con un diplomatico occidentale, che al tempo del massacro era in Algeria e aveva accesso al vero potere ma viveva ormai in Finlandia, non solo che era stato un elicottero dei servizi algerini a colpire per sbaglio i monaci, ma anche la condotta del vescovo: “Le autorità locali avevano almeno un sostenitore esterno autorevole, che condivideva la loro versione dei fatti. Henri Teissier, l’arcivescovo di Algeri, grande conoscitore del mondo islamico, aveva fin dall’inizio adottato una linea molto cauta e prudente su Tibhirine. Non era d’accordo sull’apertura delle bare, e sulla sepoltura dei monaci al monastero. Non voleva danneggiare i rapporti costruiti in tanti anni di lavoro paziente tra Chiesa cattolica e governo algerino, mentre attorno imperversava la guerra civile scoppiata dopo il 1992.”
Occorre essere più chiari. Quella erronea e casuale azione governativa aveva dilaniato le vittime. Ha raccontato quel testimone a Pellizzari: “I corpi dei monaci erano crivellati di colpi e per questo, al momento dei funerali, nelle bare furono messe solo le teste. Le autorità invece parlarono subito di “spoglie ritrovate”. E avrebbero continuato con quella formula rituale e ingannevole se un monaco, padre Armand Veilleux, all’epoca Procuratore dell’ordine dei cistercensi, non avesse insistito per dare l’ultimo saluto ai suoi confratelli e ottenere la riapertura delle bare. Prima di lui però il medico legale dei francesi aveva visto quei corpi, sapeva bene che le spoglie erano impresentabili, e aveva riferito ai suoi superiori. Quei cadaveri martoriati avrebbero rivelato a tutti chi aveva sparato ai sette bersagli inermi. Perché quei proiettili potevano appartenere solo agli arsenali di un esercito regolare, non erano certo in dotazione ai guerriglieri islamici, che spesso nelle loro incursioni sanguinarie ricorrevano all’arma bianca, che organizzavano finti posti di blocco utilizzando le divise della gendarmeria, che parcheggiavano auto esplosive nelle vie più affollate.”
Non cercare, non guardare, tenere buoni rapporti sembra lo stesso ragionamento che devono essersi fatti in Siria quando, nonostante il piano di pace sottoscritto con Kofi Annan, si decise comunque di espellere il gesuita romano. Poi, nel 2013, il sequestro. Chiunque si sia occupato di Paolo, anche leggendo un solo articolo di giornale, sa che lui fu sequestrato dopo essersi recato di sua iniziativa al quartier generale dello Stato Islamico a Raqqa quando lo Stato Islamico ancora non aveva il controllo della città. Ma non possiamo dirci sicuri che sia stato lo Stato Islamico a sequestrarlo. Molte voci, da subito, hanno sostenuto che lui uscì quel 29 luglio da quel palazzo spettrale e giungendo in Piazza dell’Orologio fu avvicinato da una vettura, che lo avrebbe inghiottito. Che idea farsi… Non lo so, ma Maadab al Hassoun, uno dei comandanti dell’Esercito Libero Siriano che sconfisse, purtroppo per poco, l’Isis a Raqqa proprio nel 2013 e che ora vive in Francia, ha scritto un libro pubblicato dal Raqqa Post dove racconta del generale dell’intelligence siriana Abid Nemar Salamah, legatissimo proprio ai due uomini che guidarono lo Stato Islamico a Raqqa dal 2013 in avanti, Abu Luqman e Abdul Rahman Faysal Abu Faysal. Il libro di al Hassoun afferma che in quel 2013 questo generale dell’intelligence siriana operasse direttamente nel quartier generale dell’Isis, quello dove Dall’Oglio sarebbe entrato il 29 luglio 2013. Fantasia? Potrebbe trattarsi di fantasia, certo, sebbene noi si sappia che il Salamah operava proprio in quella parte di Siria, essendo stato fino al 2016 a capo dell’importantissima intelligence delle Forze Aeree, il cuore del regime, di Aleppo. E il suo lavoro fu trovato soddisfacente, visto che poi fu promosso vice-direttore generale della stessa e riportato nella capitale, a Damasco. Tutto questo ovviamente è un’ipotesi che molti si rifiutano di prendere in considerazione ma non si soffermano su quel che sappiamo per certo, e cioè che le suore del convento della cittadina siriana di Maalula, famosa perché vi si parla ancora aramaico, quando furono sequestrate da jihadisti furono alloggiate nella villa di un uomo d’affari legato al regime, il cristiano di rito melchita George al Haswani , poi finito in diverse liste nere perché avrebbe svolto il ruolo di intermediario per questioni petrolifere tra l’Isis e il suo principale cliente, il regime di Damasco. Dopo il loro rilascio non hanno potuto proferire parola. Da anni.
Per muoverci con serietà in questi meandri dobbiamo seguire le poche fonti affidabili, nel caso algerino il solo giornalista italiano che se n’è occupato con rigore e passione per tantissimi anni. Valerio Pellizzari nelle sue accuratissime indagini ha analizzato meglio di altri anche i ricordi del citato padre Armand Vellieux, che sempre nel 2008 ha assicurato che a iniziare il sequestro furono i servizi, portando i monaci nella loro base di Blida, dove dopo l’interrogatorio li affidarono agli uomini di Zitouni. Di chi si tratta?
È l’emiro del GIA, il Gruppo Armato Islamico, che con il comunicato 44, una settimana dopo il delitto, aveva rivendicato l’eliminazione dei monaci. Si tratta dello stesso autore del comunicato precedente, quindi il 43, famoso per essere stato ritirato visto che le citazioni coraniche che conteneva erano risultate sbagliate. Normale che l’emiro Djamal Zitouni potesse confondersi: il suo cursus honorum era stato molto veloce, da mercante di pollame venne in contatto con ambienti dell’intelligence algerina e divenne emiro del GIA. Un dettaglio che fa chiarezza sul perché abbia atteso una settimana per rivendicare un delitto che probabilmente non aveva compiuto. Ma questo non basta a spiegare il sequestro. Perché i monaci erano stati sequestrati?
Questa domanda ha tre risposte, che sono quella ufficiale, per chiedere uno scambio di prigionieri alla Francia e del denaro, quella nascosta, perché il regime aveva bisogno del mostro terrorista per legittimare la sua esistenza, e quella complessa, che guardando oltre la cronaca cerca la forza del nichilismo e delle sue ramificazioni; il moderno Giano Bifronte che distrugge tante esistenze. Sbaglieremmo infatti a ritenere che il terrorismo non esista in una dimensione sua e non deviata dalle intelligence come sbaglieremmo a non vedere che le intelligence sono determinate ad usarlo, e lo fanno con grande successo. Cosa ha aiutato Assad più dello Stato Islamico a farsi presentare come il male minore? Tibhirine non ha svolto la stessa funzione? Ma questo non basta, occorre affrontare la questione nichilista.
La dimensione autentica del terrorismo religioso ce la fornisce con un racconto di forza stupefacente proprio padre Dall’Oglio nel suo libro “Collera e luce”. Paolo aveva accettato il difficile incarico di cercare il rilascio da parte di un gruppo jihadista di alcuni cristiani siriani, sequestrati probabilmente a fini estorsivi o forse soltanto per odio confessionale, o perché ritenuti complici del regime. Andando alla loro ricerca il gesuita italiano racconta di essere arrivato nei pressi di Homs e scrive con la sua naturale veemenza ma anche con indiscutibile logicità come la città ribelle, comprese le sue chiese ovviamente, fosse bombardata dagli assedianti, quindi dall’esercito di Assad. Stranamente il suo racconto-testimonianza ancora oggi non fa fede, e molti ritengono che a bombardare la città dove erano asserragliati gli insorti fossero gli assediati. Il racconto procede, fino a quando trova i jihadisti con i quali tratta il rilascio degli ostaggi cristiani. Le prospettive sono subito incoraggianti, ma quando i canali tribali che segue arrivano al dunque Paolo deve arrivare davanti al miliziano armato che li detiene, e allora racconta ovviamente anche la sua paura. Ma proprio la paura gli consente di trovare la chiave per parlare con quell’uomo: quella chiave si chiama libro dell’Apocalisse, la comune speranza che un giorno trionferà la giustizia… Quel linguaggio rende possibile il dialogo con il terrorista in armi, che si conclude con le parole del terrorista: “tu mi sei entrato nel cuore”. Paolo si fida, crede alla promessa del suo interlocutore, gli ostaggi saranno liberati. E infatti così fu. Il 2012 però è anche l’anno in cui in Siria emerge il nichilismo.
La rivoluzione siriana in quell’anno e oltre di vita aveva dimostrato una forza popolare incredibile e una totale assenza di leadership. Il mondo invece aveva evidenziato una grande mancanza di solidarietà umana perché il manto dello scontro di civiltà ha un tessuto compatto e la paura a noi, diversamente da Dall’Oglio, non sa farci trovare la strada per capirci con gli altri, sa solo farci chiudere. Un grande intellettuale siriano, Yassine al Haj Saleh, che ha trascorso oltre un decennio nei lager di Assad, ha capito in quegli anni molte cose, la più stupefacente delle quali è che la prigionia lo ha liberato dalle ideologie rigide. Dal campo siriano, dove avrebbe meritato di essere seguito con maggiore attenzione nelle sue cronache, da subito ci ha avvertito che la miscela stava producendo il nuovo nichilismo. E ci diceva che anche noi avremmo potuto accorgercene, guardando meglio, perché, consapevolmente o inconsapevolmente, qualcuno ci voleva avvertire…
Fino al 2011 nessuno di noi conosceva la cittadina siriana di Kefranbel, ma dal 2011 tutti i giornali occidentali ne hanno parlato per via dei grandi striscioni scritti in inglese che venivano esposti da questo piccolo centro. Ma non erano un gioco per catturare l’attenzione dei media, erano cartelli stradali, che ci avvertivano delle nuove direttrici della storia. Dopo i primi mesi di rivolta popolare il canto dei rivoluzionari “Oh Dio, sei tutto ciò che abbiamo”, cominciato sul finire dell’estate 2011, già avrebbe dovuto far capire che la sfiducia negli uomini, più che la fiducia in Dio, aumentava. Ma quando il 14 ottobre 2011 i giovani di Kefranbel mostrarono al mondo un cartello con scritto in inglese “Abbasso il regime e l’ opposizione! Abbasso gli arabi e la comunità islamica! Abbasso il Consiglio di Sicurezza! Abbasso il mondo! Abbasso tutto!” per Yassine al Haj Saleh avremmo dovuto capire che l’ora del nichilismo stava proprio scoccando.
Spiegare questo non ha valore solo per la Siria ma nel contesto siriano comporta il prendere atto della complessità di una rivoluzione al suo inizio disarmata ma anche frammentata, per la frammentazione operata nella società e sulla società siriana da un regime votato alla vecchia legge del divide et impera. Questa frammentazione si unisce alla mancanza sul fronte degli insorti di una leadership qualificata, autorevole, due fattori che determinano il fallimento del tentativo dell’Esercito Libero Siriano. Ma tutto questo non deve far ombra al rapporto strano ma vero che si determina tra nichilismo e Islam.
Delusi dal mondo, arrabbiati con gli arabi, con il Consiglio di Sicurezza, sbigottiti davanti al silenzio dei loro fratelli nell’umanità in tanti trovano nella violenza jihadista un veicolo perfetto per esprimere il loro nichilismo. Un nichilismo frantumato, diviso in gruppi e gruppetti che hanno nella violenza per la violenza il loro mantra. Questa natura rende questo nichilismo terrorista culturalmente compatibile, quindi infiltrabile, dai regimi che si sono analogamente ritirati dal mondo corrotto. È qui che le storie dello Stato Islamico e in Algeria del GIA divengono infiltrabili da parte dei servizi segreti.
Proviamo a immaginare un corpo diviso in tre parti: i veri jihadisti sono come quello nel cui cuore entrò Paolo Dall’Oglio; intrisi di rudimenti apocalittici sognano di avvicinare l’Armageddon, la battaglia finale, quella che porterà la giustizia e la pace di Dio sulla terra. Nella loro visione il tempo non scorre, ma si infrange come le onde sulle scogliere. Ogni urto determinerà un urto più forte, fino alla battaglia finale. Dunque il loro discorso non mira alla vittoria della battaglia, ma ad estenderla, ad allargarla, fino a portarci, accelerandone il cammino, alla battaglia finale. Questa deriva per chi come noi non conosce l’Islam è difficile da cogliere per la somiglianza fonetica tra il termine “martiri” – shuhada – e quello “ testimoni” – shahada. Ma dovrebbe riguardarci di più che il termine “martire” nel Corano ricorra 55 volte, ma solo in 3 o 4 di queste occorrenze ecceda il senso di testimone. Il Corano poi condanna comunque ogni forma di suicidio (4, 29-30) rendendo astrusa la nostra riduzione interpretativa di “guerra santa”, lo sforzo interiore, a quel che tutti intendiamo con la parola jihad.
Ciò non toglie che la visione islamo-apocalittica (non la sola) sia cresciuta, abbia una storia sia in ambienti sunniti sia in ambienti sciiti. A questa storia oggi si unisce la storia di una massa nichilista che sa adattarsi al modello islamista, soprattutto quello sunnita, non per indole, ma per destrutturazione. Questo discorso infatti cancella ogni mediazione culturale, tradizionale, politica, toccando quindi le corde profonde della destrutturazione nichilista. No alla cultura, no alla politica, no alle tradizioni costruite dai popoli nei secoli. Il mondo di sotto, la dunya di certa teologia islamica, cioè questo mondo distante o respinto da Dio, è un mondo senza Dio, che va distrutto per riportarvi Dio. Le due violenze, sebbene separate, figlie di visioni disconnesse, si possono capire. I nichilisti che fanno loro il vessillo nero dei jihadisti sono affascinati dal nichilismo globale dello Stato Islamico. Costoro ricordano quei giovani russi che nel 1862 condivisero Petr Grigorevic Zaicnevskij e il suo “Proclama alla giovane Russia” con cui chiama il popolo “a una conquista del potere attraverso la violenza (e a) spargere fiotti di sangue”. Si legge in quel proclama: “uccideteli nelle piazze se questi porci osano mostrarsi in pubblico, uccideteli nelle loro dimore, nelle strade delle città, uccideteli anche nei villaggi! Ricordatevi che chiunque non è con noi è contro di noi e che tutti i nemici devono essere sterminati!” E infine abbiamo l’altro nichilismo, quello del regime, dei regimi, altrettanto vero e sincero, ma che attrae altri estremismi, in particolare i rossobruni, per il suo carattere di sfida portata dal mondo al mondo corrotto, senza cedimenti a vessilli religiosi.
Yassine al Haj Saleh ha scritto al riguardo pagine di grande attualità e importanza. Leggendole si arriva a pensare che il disegno dei nuovi capi jihadisti sappia davvero guardare lontano, alla vittoria finale, ma tenendo conto del presente, della necessità di tenere legati i nichilisti, che hanno sete di violenza, di distruzione. Quella sete sarà funzionale al disegno, che ha bisogno però di avanzare in una realtà dove a fornire strumenti sono loro, le agenzie di intelligence. Abbiamo detto che anche la cultura dominante appare chiaramente quella nichilista, dunque esiste nella diversità un sentire comune. È qui storie piccole, come quella dell’emiro Zitouni, risultano utili. Prendiamolo a modello di un povero infiltrato, da venditore di pollami si ritrova ad essere un leader. Ovviamente questo diviene possibile perché l’obiettivo apocalittico non ha nulla a che fare con la guerra ai regimi, in Algeria come in Siria o in Iraq, ma in gioco ci sono interessi concreti che hanno bisogno di scarpe sporche. Facciamo un esempio, che risale al 2003. In quel tempo Damasco doveva impantanare i Marines in Iraq, se si fossero consolidati avrebbero proseguito la loro marcia, giungendo a Damasco. A chi altro potevano rivolgersi per fermare i marines? E quando i segugi di Saddam e i jihadisti arruolati da Assad si sono conosciuti nelle prigioni americane di Iraq nacque lo Stato Islamico. Potevano coesistere, i nemici veri per l’ala religiosa, come in tante altre storie, sono quelli “interni”. La storia sembra identica a se stessa in Algeria, con lo scontro tra GIA e il Fronte di Salvezza Islamico, e in Siria con il conflitto tra Stato Islamico ed Esercito di Liberazione Nazionale. Come la Fratellanza Musulmana più vastamente intesa queste forze non rifiutano definitivamente la mediazione terrena, sia politica sia culturale che tradizionale. Dunque i Fratelli Musulmani, il FIS, l’Esercito Libero Siriano, questi sono i veri nemici, quelli interni, perché alla fine limiterebbero lo scontro, non lo espanderebbero. Ma l’arma segreta dei terroristi sta nel perdurare della violenza dei regimi che indebolisce il vero nemico, l’Islam popolare e la sua apertura al mondo, che frantuma consegnando all’Islam radicale la forza del senso di colpa con cui destruttura le comunità tradizionali e perdurando la indisponibilità delle opinioni pubbliche occidentali a dimostrarsi solidali rende inarrestabile il fenomeno nichilista.
Questa deriva riguarda e ha riguardato il mondo sunnita, ma in Siria non possiamo trattarla senza vedere anche l’altro jihadismo, meno contagioso perché profondamente eresia sciita. Meno noto, questo jihadismo ha portato in Siria le forze più estreme del khomeinismo, intriso della sua visione apocalittica. Il martirio sciita apocalittico è stato spiegato da pochi: credo che valga la pena di leggere una delle migliori fonti a noi accessibili, il professore libanese Antoine Courban.
“Il martirio, nell’ambito del jihad, sarebbe qui un modo reale che consentirebbe al credente di realizzare la giunzione tra i punti alfa e omega, per passare direttamente dalla vita quaggiù a quella nell’aldilà, senza l’attraversamento dallo stadio della morte, senza interruzione della continuità tra il tempo e l’eternità, tra il contingente e il trascendente, tra il relativo e l’assoluto, il visibile e l’invisibile, tra il mondo sensibile (molk) e il mondo intelligibile (jabarût). Qui stiamo entrando pienamente in un tempo intermedio, un “tempo tra i tempi”, come dice Leili Echghi.
La letteratura spirituale chiama questo luogo Malakût, un termine arabo il cui significato letterale è “regno”; tuttavia, è inteso come il mondo degli ideali che ricorda le concezioni di Platone. […] Malakût è il luogo dell’evento non inscritto in una sensibile realtà spazio-temporale. È il luogo dell’Imam, è un mondo inter-mondiale (qui si fa riferimento alla nota teoria sciita dell’Imam nascosto che tornerà con Gesù alla fine dei tempi, nda). […] Il luogo di Malakût sarebbe un momento psichico decisamente distinto dal tempo cronologico e dall’istantanea dell’eternità. È il mondo dei sogni ad occhi aperti, in cui “omologie motivanti” si scontrano e si fondono, si sprigionano l’una dall’altra, si dissolvono per riapparire, possono avere più di un’identità. L’ayatollah Khomeini, autore della Rivoluzione islamica iraniana, era solito dire “Non c’è differenza tra Malakût e qui”. Con questa affermazione, è senza dubbio necessario capire che la rivoluzione è già avvenuta nel mondo interiore, che Malakût è già lì e che nessuno deve più andarci. In altre parole, la rivoluzione islamica ha inondato il mondo con il divino; compie un processo di diffusione totale dell’immanenza. Ha aperto la storia all’immanenza diretta del divino per mezzo della violenza rivoluzionaria che nulla può assorbire più che porre fine al tempo stesso. Questo è il motivo per cui la violenza rivoluzionaria è anche una fonte di aspettativa, speranza e desiderio per l’epifania dell’entità messianica che ripristinerebbe l’ordine del mondo e lo ripristinerebbe alla sua pienezza originale dopo aver epurato dalla violenza di tutto ciò che lo contamina e ne altera la purezza.”
Siamo al termine di un viaggio che ci ha portato tra le eresie dell’Islam apocalittico e i nuovi nichilisti, un viaggio che tocca le frustrazioni e che non giustifica parlare di terrorismi senza cause, ma giustifica un’idea di usi e abusi dell’Islam, una religione che un fervente musulmano, il professor Muhammad Sammak, consigliere del grande imam di al Azhar e segretario generale dello Spiritual Islam Summit, ha definito “la religione che crede in tutte le religioni.” Crede profeti tutti i profeti biblici, definisce Gesù il Messia, il nuovo Adamo, verbo di verità, definisce Maria la prima di tutte le donne, credendo nella sua maternità verginale. Come si riferivano a questo Islam Paolo Dall’Oglio e Christian de Chergé il priore di Tibhirine?
Nella storia del frate trappista nato in Algeria da famiglia francese e tornato in Algeria per dedicarsi a quella terra e quel popolo come nella storia di Paolo Dall’Oglio, nato a Roma e partito giovanissimo non per andare a studiare l’arabo ma andare a farsi arabo, ho trovato enormi similitudini. Il gesuita romano ha detto tante cose sorprendenti arrivando a definirsi in un libro, nel titolo di un libro, “Fedele a Gesù, innamorato dell’Islam.” Voleva dire che quell’amore era alla luce della sua fedeltà. Libro difficile, pieno di ostacoli filosofici, teologici, sulla escatologia. Un libro che ho trovato riassunto in un articolo sul monaco algerino Christian De Chergé, dove il musulmano Soufiane Zitouni lo cita così: “Da quando, un giorno, assolutamente all’improvviso, mi ha chiesto di insegnargli a pregare, Mohammed (un abitante del villaggio di Tibhirine) ha preso l’abitudine di venire a intrattenersi regolarmente con me. È un vicino. Noi abbiamo anche una lunga storia di condivisione. Sovente ho dovuto tagliare corto con lui, o passare dei week-end senza incontrarlo, quando gli ospiti si facevano troppo numerosi e mi assorbivano. Un giorno lui trovò la formula per richiamarmi all’ordine e sollecitare un appuntamento: “E’ da molto tempo che non abbiamo più scavato il nostro pozzo!” L’immagine è rimasta. Noi ce ne serviamo quando sentiamo il bisogno di dialogare in profondità. Una volta, come per scherzo, gli posi la domanda: “E in fondo al nostro pozzo, che cosa troveremo? Dell’acqua musulmana o dell’acqua cristiana?” Mi ha guardato un po’ divertito e un po’ penato: “ Ma come? E’ da così tanto tempo che camminiamo insieme, e tu mi poni questa domanda!… Sai, al fondo di quel pozzo, quella che si trova è l’acqua di Dio.”
Ecco, qui, in queste righe di un libro intitolato “Teologia della speranza”, De Chergé parla della teologia del dialogo di un gesuita che non credo abbia conosciuto. Non mi sorprende abbiano colpito proprio loro due, meno ancora che sia problematico definire quali nichilisti li abbiano colpiti, quelli dei regimi o gli altri. Questo punto purtroppo non lo vogliamo capire. I regimi, mi ha spiegato più volte Paolo, non proteggono i cristiani, li usano come scudi per proteggere se stessi. Magari organizzandone stragi, come in Egitto, per poi incolparne gli esecutori, cioè i terroristi. Così, dopo aver invocato per secoli il superamento del sistema della protezione delle minoranze religiose, oggi i cristiani invocano la protezione dei regimi dai fondamentalisti. Ovvio che non amassero sentirsi dire con grande semplicità da padre Paolo, una semplicità che vale più di intere enciclopedie sulla questione d’Oriente, che i monasteri cristiani in terra d’Islam sono la miglior riprova che non c’è miglior protezione del buon vicinato. Il suo sequestro è finito nel silenzio per questo e De Chergé lo spiega in anticipo, nel suo testamento spirituale.
“La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: ‘Dica, adesso, quello che ne pensa’. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze.” Sono sicuro che Paolo li vedeva illuminati dalla stessa luce, che non piace a molti musulmani intrappolati in una teologia che non sa fargli vedere, come dice il grande Sammak, l’Islam come religione che crede in tutte le religioni. Modi diversi di scavare il pozzo che porta all’acqua di Dio.
Foto: FAYEZ NURELDINE / AFP