Tor Bella Monaca, la frontiera quotidiana della lotta di classe (scolastica)

Ricordate la scenetta in cui il colonnello chiede al plotone chi vuol andare volontario in una missione suicida e c’è un soldato che non è abbastanza svelto nel fare il passo indietro? Con Emiliano Sbaraglia, 47 anni, professore di italiano alla Scuola media di via dell’Archeologia a Roma è successo l’opposto: vinto il “concorsone” del 2012 ha scelto lui di andare in quella scuola di confine. ≪Credo che insegnare alle medie sia una scelta civica – racconta Sbaraglia – perché di certi argomenti delicati, della vita e dei suoi problemi devi parlare con i ragazzi sempre prima. Alle scuole superiori ti trovi ragazzi già politicizzati, chiusi nelle loro certezze». Il professor Sbaraglia non è un missionario: pensa che lavorare nella scuola, anche quella vicina alla “strada” sia un lavoro utile, non un dovere. Scava a fondo in quella vulnerabilità fatta di case popolari e desideri costosi, di disoccupazione e livore, di legami friabili e “guapperia”, per offrire alle generazioni future una prospettiva dignitosa, un esempio di sobrietà, una speranza. Il suo racconto della scuola di via dell’Archeologia a Roma è come un oblò da cui osservare la vulnerabilità che contraddistingue sempre più pezzi della nostra società.

Danilo De Biasio

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Nella scuola dove insegno quello della vulnerabilità è un tema con il quale sei costretto a fare i conti ogni giorno. Lo trovi lì, davanti a te, dal momento in cui entri in classe sino al suono dell’ultima campanella, spesso ben oltre.

Il contesto. Siamo a Tor Bella Monaca, per meglio dire in Via dell’Archeologia, nel cuore di un quartiere appartenente a uno dei Municipi più popolosi e complicati, nel sud-est della Capitale. Un paio di dati: qui troviamo concentrato uno dei numeri più alti di abitanti under 30 e under 18 non solo di Roma, ma dell’intera Penisola; qui abbiamo uno spazio verde che in metri quadri supera gran parte degli altri Municipi messi insieme.

C’è dunque molto da lavorare, e molto si potrebbe fare; e in questo senso ci sono delle realtà da cui poter partire. Basti pensare ad alcune varie associazioni che operano quotidianamente sul campo, o al teatro di Tor Bella Monaca, curato nella programmazione sino a qualche anno fa dalla celebre coppia Albertazzi-Placido, poi chiuso per un anno dopo la morte del primo, infine riaperto con delle attività mattutine che bene riescono a interagire con la scuola, non soltanto la nostra.

Proprio vicino al teatro, infatti, si trova il liceo scientifico-linguistico (ora anche classico) Edoardo Amaldi, e posso garantire, per averlo vissuto come supplente ogni tre-cinque mesi l’anno tra il 2000 e il 2007, che si tratta di uno dei migliori istituti superiori della Regione Lazio. A confermarlo sono le graduatorie della Fondazione Agnelli dell’anno 2015-2016, che inserivano questa scuola tra le prime cinque posizioni per qualità di insegnamento e livelli di preparazione raggiunti dai frequentanti.

Ecco perché, una volta superata la chiesa e attraversato lo “stradone TBM”, non si riesce a comprendere il motivo per cui la rampa che conduce in Via dell’Archeologia, prima di infilarsi nel groviglio del G.R.A., ci introduca in un altro mondo, in una sorta di microcosmo autarchico, nel quale le regole non sono uguali per tutti, anzi alcune di esse vengono scritte dalla strada, da quella strada e basta.

Troviamo così il degrado, l’abbandono, e una tangibile disillusione di molti residenti, che unite inevitabilmente aprono le porte a violenza e criminalità: una criminalità di stampo camorristico operante alla luce del sole, di giorno e naturalmente di notte, attraverso meccanismi ben funzionali al superamento di controlli e incursioni improvvise da parte delle forze dell’ordine, concentrate in questo ultimo periodo soprattutto negli sgomberi di case occupate da italiani e migranti di più o meno recente arrivo.

Aggiungete il filo sottile ma riconoscibile che lega il tutto al “modello Scampia”, di cui questa strada nel tempo sembra esser divenuta una efficace succursale voluta non si comprende da chi (o forse sì), mescolate bene il tutto e otterrete come risultato una bomba sociale pronta ad esplodere da un momento all’altro, sempre che non stia esplodendo a piccole dosi giorno dopo giorno, così da dare meno nell’occhio.

E se in tutto questo vi chiedete dove sia la politica (se così può definirsi), essa appare alla vigilia di ogni elezione (“Ripartiamo dalle periferie!”) salvo dileguarsi un minuto dopo, lasciando spazio a quelle forze estreme populiste e xenofobe sempre più presenti e minacciose, che trovano terreno fertile su cui coltivare le proprie pericolose aberrazioni.

Un’istituzione nel deserto

In fondo a Via dell’Archeologia, lasciati alle spalle i famigerati “palazzoni” costruiti dalla famiglia Caltagirone a partire dai dorati anni Sessanta, appaiono quasi all’improvviso le mura della nostra scuola, unico presidio di legalità, di una qualche forma istituzionale. All’interno delle aule (quando la dispersione scolastica non diventa urgenza) studenti e studentesse figli di questa realtà, figli della strada, inevitabilmente riportano in classe tutte le difficoltà e le tensioni vissute quotidianamente appena fuori dal cancello d’ingresso.

Per alcuni di loro, per quei ragazzi che il destino costringe a vivere un’età adulta seppur ancora nemmeno adolescenti, la reazione più istintiva e immediata è l’aggressività, attaccare per primi per non esser costretti a difendersi così come la strada insegna, spesso individuando nel docente di turno il rappresentante complice di quelle istituzioni che, sino ad ora, non sono riuscite a mostrar altro oltre il colpevole volto della propria assenza. Veniamo così al punto.

Non ci vuole infatti uno studio pedagogico specifico per comprendere come dietro questi atteggiamenti si nasconda una profonda vulnerabilità di fondo, seppure la durezza di quegli atteggiamenti a volte facciano dimenticare che abbiamo di fronte poco più che dei bambini, che ci chiedono soltanto di vivere la loro età in maniera normale, niente più.

Tra le tante storie da raccontare, viene in mente quella di una ragazza che a diciassette anni, alla fine dello scorso anno scolastico, ancora combatteva con se stessa e con il resto del mondo nel tentativo di strappare quel diploma di terza media che pensandoci, a dir la verità, difficilmente le sarà utile nella vita: troppo complesse le situazioni familiari, tra malattie e dipendenze; troppo avanti con la testa per potersi accontentare di quei lavoretti che possono trovarsi, se si trovano, con un pezzo di carta che al giorno d’oggi vale poco più del nulla. Troppe le esperienze già vissute sulla propria pelle per poter tornare indietro e ricominciare.

Accade però, pochi giorni dopo i risultati dell’esame (nel suo caso una pura formalità, “l’importante è farla uscire”), l’incontro casuale nel bar della strada, e il ringraziamento per quello che noi docenti, nel bene e nel male (perché spesso sbagliamo, forse troppo spesso) abbiamo provato a fare nei suoi anni di (semi)frequentazione.

“Tutto sommato”, è il suo commiato, “siete stati qualcuno con cui parlare ogni tanto”.

I suoi occhi sono assenti ma lo sguardo viaggia veloce come sempre; i soliti jeans strappati ad arte, la maglietta attillata senza maniche mette in mostra i tatuaggi, le scarpe firmate sono pronte a correre dove serve, i capelli ordinatissimi e rigorosamente lavorati con la piastra. Il linguaggio, le espressioni gergali, sono meno volgari di quando si stava in aula, perché le difese per una volta sono abbassate; e anche i lineamenti del volto sembrano più rilassati, le sembianze della bambina di un tempo non troppo lontano qui e là riemergono quasi con candore, ma è questione di un attimo: la vulnerabilità appena riemersa deve tornare a nascondersi nei consueti luoghi oscuri dell’anima.

Un testardo impegno quotidiano

Immersi in un simile contesto, difficile dire con certezza cosa si debba o non si debba fare, dato il ruolo che si ricopre. Ci sono però almeno due o tre punti dai quali, secondo me, non si dovrebbe prescindere.

Il primo riguarda il rispetto dei ruoli. Il che non significa una classifica, un alto e basso, il “noi” e “voi”. Bisogna creare un rapporto tra docenti e studenti (e famiglie, ma il discorso porterebbe lontano) nel quale individuare insieme il compito che spetta a ciascuno all’interno di un percorso scolastico, per svolgerlo nel migliore dei modi in forma collaborativa. Evidentemente è il mondo degli adulti a dover lavorare in tale direzione, e non sempre accade.

Va poi inserita una riflessione sull’attività didattica. Non è vero che i ragazzi poco scolarizzati non amino studiare. Anzi. Ma per coinvolgerli prima di tutto si deve preparare al meglio l’argomento da trattare, poi bisogna trovare il modo, un metodo adeguato che non sia una ricetta da riproporre all’infinito, bensì un viaggio gradualmente modellato in base a esigenze e risorse umane, con la partecipazione di tutti in virtù delle attitudini di ciascuno quale strumento imprescindibile.

Per quanto mi riguarda, in questi anni ho cercato in particolare di coniugare l’aspetto didattico con un miglioramento della mia attenzione nei confronti di certi dettagli, che dettagli non sono, soprattutto nelle prime settimane di lezione: uno sguardo tra compagni, una frase non detta, una invece ripetuta allo sfinimento, un cambiamento d’umore, di vestiti, di pettinatura. La musica che si ascolta. Il linguaggio delle parole accompagnato da quello del corpo. Le urla ripetute e i ripetuti silenzi. Cinque-sei colonne scritte per un tema libero che diviene libero sfogo, e l’allarme di una pagina bianca: completamente bianca. Neanche il proprio nome. Il rifiuto totale di quello che si è, di quello che ti circonda.

C’è poi un’ultima considerazione, e tiene conto della passione professionale. Questi studenti e studentesse, prima ancora di ascoltare la tua voce, al mattino quando entri in classe capiscono già che aria tira, se il piede con il quale hai toccato terra al risveglio è quello giusto oppure no. Si può definire istinto di sopravvivenza, sono costretti a vivere così, e in questo senso possono insegnarci più di qualcosa. Ma se provi a dare tutto te stesso se ne accorgono, lo percepiscono, e a loro modo ricambiano.

Allora ti senti vivo, ti senti utile, senti che il tuo lavoro quotidiano, malgrado tutto, non lascia la sensazione di scorrere invano. Perché il mestiere dell’insegnate – meglio scrivere la professione d’insegnante – rimane tra le più importanti che esistano, per tutti i motivi che tutti conosciamo. E ogni mattino, al risveglio, indipendentemente dal piede con cui hai toccato terra, non si deve mai dimenticare questa responsabilità. Tutto il resto viene dopo.

Con l’idea di costruire un incontro tra persone, allora diventa possibile scavare nell’intimo di quella malcelata vulnerabilità, e trasformarla in una grande ricchezza collettiva.

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