Contento del semplice rimborso delle spese vive, il Tintoretto realizzò il telero del santo che cura gli appestati per la piccola chiesa della Scuola grande di San Rocco. In numero di sei, fra cui quella di San Marco, le scuole grandi erano potenti e ricche congregazioni popolari: contraltari al potere oligarchico di Venezia. Non a caso conservavano nel nome corrente di scuole dei “battuti” il ricordo dei flagellanti che secoli prima avevano trovato a Mestre tregua al loro girovagare.
San Rocco, si sa, è il patrono degli appestati, onorato e rappresentato in tutto il mondo cattolico: spesso in coppia, strana coppia davvero, con San Sebastiano. Il Tintoretto lo immagina in azione al centro di uno spazio scenico. Il santo, minuto, in abito da pellegrino, sotto gli occhi di comparse e figuranti, punta le due dita benedicenti verso la piaga sulla gamba in tensione di un appestato. Tutto sul palco è respiro congelato, nell’attimo del miracolo. Solo un malato, accucciato di quinta, non coglie l’attimo, perso nei suoi pensieri. Intanto il cane, compagno di iconografia del santo, dorme il sonno di chi ha già tutto visto. Verrà il tempo del suo miracolo iterato, giorno dopo giorno portare il cibo al santo, malato in una grotta. È una testimonianza di gratitudine. San Rocco non soccorre solo gli umani. In un altro telero, meno felice, più tardo (1567), Tintoretto e bottega lo ritroveranno a dispensare benedizioni agli animali malati, selvaggi e no, edibili e no.
San Rocco da Montpellier vanta cappelle, chiese, statue, dipinti, santini in giro per l’Italia tutta e per tutta l’Europa cattolica. Ma Venezia ha voluto di più, ha fatto di più: del santo si è appropriata, lo ha naturalizzato. Rubati o acquistati, i resti mortali (meno un braccio e due dita, trattenuti a Voghera) sono conservati nel sarcofago di impianto dogale dietro l’altare della chiesa. Al punto che il papa, convinto a canonizzare finalmente Rocco, fatto subito santo dalla pietà popolare, è a Venezia che chiede informazioni bio-agiografiche.
La residenza in Città e nel Dominio delle spoglie di tale santo taumaturgo, morto in carcere lasciando un invito autografo a esorcizzare a suo nome la peste, non poteva che essere un efficace presidio sanitario. Come lo erano gli altri strumenti più laici, congegnati e raffinati nel corso di diverse esperienze: il Lazzaretto vecchio, per gli appestati, su un’isoletta accosto al Lido, è del 1453; il Lazzaretto nuovo, su un’altra isoletta, davanti a Sant’Erasmo questa, è stato istituito nel 1456 e realizzato tra il 1468 e il 1471, ospedale di quarantena, per equipaggi in arrivo da zone sospette, per dimessi dal Lazzaretto vecchio o solo per chi ha avuto rapporti con malati; le barche bianche, aggiuntive, ancora per quarantene, compaiono nei momenti cruciali, più congestionati; il Magistrato del Sale, a capo di tre Provveditori alla Salute, già provvisori, ma stabiliti dalla peste del 1556; bocche di leone in pietra spalancate per denunce di casi sospetti; spie da tutto il Dominio, per segnalare in tempo l’insorgenza di casi; comunicazioni dal balivo, il Residente della Serenissima a Costantinopoli, implacabile calderone di pestilenze; procedure per sguraggio di drappi ed effetti personali, rinfrescatura di case infette; corsi di anatomia per medici, chirurghi, barbieri non esclusi. Reclutamento di pizzicamorti a domicilio, fra i carcerati che hanno gia scontato la pena, ma non ancora pagato l’ammenda; condanne lampo per i suddetti, se rei di furto o stupro in casa di ammalati; pene (molto severe) per i ricettatori (imperterriti); pasti caldi per lazzaretti, ospedali, barche bianche, case serrate; speciale sollecitudine per i bisogni materiali e affettivi degli operai dei cantieri navali.
Alla prova dei fatti il sistema integrato laico religioso funzionò benino. Nel 1556 la pestilenza non fu troppo severa. Si poteva fare di più? fare di meglio?
Domenica 10 giugno del 1576 il governo convoca nella Sala del Maggior Consiglio i medici veneziani e, dallo Studio di Padova, Girolamo Mercuriale, professore di medicina pratica in primo loco e Girolamo Capodivacca, professore in secondo loco accompagnati da tre assistenti. Affiancato dalle istituzioni cittadine, presiede il Doge. Nel corso del non lungo dogato, Alvise Mocenigo ha già dovuto affrontare la guerra per Cipro, persa, nonostante la sbandierata vittoria di Lepanto; l’incendio rovinoso del palazzo ducale, che lo ha costretto a traslocare dal fratello; la moltiplicazione affannata delle difese della città in vista di una nuova minaccia turca. L’ordine del giorno è lo stato di diffusione di una pestilenza che secondo alcuni circola in città già dal passato autunno. Il dibattito è acceso. Due teorie sulla diffusione delle pestilenze si contendevano il favore di medici e governanti. Una, classica, discesa da Ippocrate e rafforzata da Galeno, insegnava che le pestilenze originassero dalla putrefazione e si diffondessero per e con l’aere ammorbato. L’altra, già ripresa da medici arabi, con attrezzi concettuali dell’atomismo classico favoriva la diffusione per contagio. L’aveva articolata nel suo celebre De contagione et de contagiosis morbis (1546) Girolamo Fracastoro il medico più celebre del secolo. La teoria del Contagium vivum, riprendendo la questione della sifilide (nome coniato dallo stesso Fracastoro nel poemetto Siphilis, sive De morbo gallico, 1521?), descriveva come anche la tisi si contragga attraverso il contatto con un ammalato, e come nelle febbri pestifere il contagio sia di gran lunga più visibile e di penetrazione rapidissima; come altresì alcune malattie lascino un focolaio di infezione e altre si propaghino a distanza; come poi alcune siano più contagiose, ma con un decorso lieve e altre poco contagiose, ma con un decorso acuto; e come infine il contagio non sia veleno, perché il veleno agisce sul singolo organismo e non si propaga. Affermazione questa sconcertante e allarmante per l’intera classe medica, che non conosceva altra farmacopea che quella fondata su rimedi contro i veleni, spesso costosissimi, come la polvere di unicorno, il misterioso bezoar, “pietra” proveniente dallo stomaco di rari ruminati esotici, o la teriaca, a base di comune carne di vipera più altri cento componenti, tutti o quasi rari ed esotici, di cui Venezia si vantava di produrre la migliore qualità.
I medici veneziani erano tra loro di parer contrario. Per alcuni era vera peste, per altri non lo era, essendo l’aere puro e i casi limitati. Mercuriale e Capodivacca sposato, sulla scorta di Ippocrate, il principio per cui si aveva “vera peste quando la malattia veniva dall’aria ed era popolare, con molti casi di infezione”, sostennero che non di vera peste si trattava. A riprova della loro convinzione, si offrirono di visitare di persona gli ammalati, purché il Magistrato ritirasse i provvedimenti restrittivi troppo frettolosamente adottati e rispettasse alcune condizioni.
Che per un certo periodo nessuno, né medici, né confessori né chirurghi, né barbieri subissero per nessun motivo restrizioni o impedimenti.
Che si bandisse che a Venezia non c’era peste.
Che si levassero le barche bianche.
Che non si mandasse alcuno al lazzaretto per avere frequentato la casa di un infermo.
Che non si confinasse in casa nessuno se non dopo che vi fossero morte due persone.
Che non fosse mandato al lazzaretto nessuno se non dopo che nella famiglia fossero morte quattro persone, e anche in quel caso, mai senza il permesso esplicito di Mercuriale.
Che gli Illustrissimi deputati della sanità non manchino di prendere i provvedimenti ritenuti da Mercuriale e compagni necessari per il servizio degli infermi della città e dei morti. Ultimo che si fornisca in alloggi, gondole e altre comodità “necessarie a noi, ai nostri servitori e ministri”.
Contro il parere dei medici veneziani e dei Provveditori alla salute, il Senato votò a favore delle proposte. La soluzione dei padovani era più che gradita alla nobiltà, che poteva così allontanarsi dalla città e rifugiarsi in villa.
In cinque gondole, ogni mattina, accompagnati da due gesuiti, dai chirurghi e dai barbieri, i due professori giravano per le calli, entravano nelle case infette, toccavano il polso degli infermi e ordinavano a chirurghi e barbieri di incidere i bubboni e di salassare.
Il corpo di sanità cittadino, comunque, con in testa il Magistrato e i Provveditori della Salute, continuava a disporre l’isolamento di chi mostrava i segni della malattia. Intanto i decessi giornalieri si moltiplicavano. I due gesuiti si ammalarono e morirono uno dopo l’altro. Finalmente il Senato si rese conto del disastro, decretò la quarantena per i professori e poi li licenziò perché tornassero alle loro cattedre a discettare su vere e false pesti. Mentre a Milano i morti furono quindicimila, a Venezia se ne contarono cinquantamila, circa un terzo della popolazione cittadina. In più la peste impedì all’ottantaseienne Tiziano di arrivare a compiere i cent’anni al cavalletto, come si era augurato. Diede al Palladio l’opportunità di progettare la splendida chiesa del Redentore che si specchia nel canale della Giudecca.
finito questo periodo difficile, sarebbe interessante fare un incontro / convegno su misteri, pandemie, peste e malattie …la paura, la fragilità umana dal passato ad oggi
Caro Sandro Fusina
Complimenti magnifico articolo.
Leo Nahon