Clicca qui per leggere la prima parte dell’analisi di Claudia De Martino.
Le commemorazioni annuali, ovvero le manifestazioni per le “giornate della memoria”, assolvono allo stesso scopo di trasmettere il ricordo collettivo, ma sono maggiormente influenzate dal contesto politico e sociale nazionale, essendo scandite dai governi o dalle istituzioni deputate alla loro celebrazione. Oltre ai governi dei vari paesi europei, sono le due grandi associazioni pan-ebraiche responsabili dell’organizzazione delle celebrazioni della Giornata della Memoria: il Congresso ebraico mondiale, presieduto dal miliardario statunitense Ronald Lauder dal 2009, e il Congresso ebraico europeo, presieduto dal miliardario russo Moshe Kantor dal 2007, che ne rappresenta la “costola” organizzativa europea.
Entrambe le organizzazioni sono impegnate nella difesa delle comunità ebraiche in Europa, nella lotta all’antisemitismo e alla xenofobia, e nella preservazione della memoria della Shoah, ma con accenti diversi dettati dalle differenti sensibilità politiche dei due Presidenti. Ronald Lauder, infatti, è più vicino all’American Jewish Congress, assestato su posizioni maggiormente liberali rappresentative della grande comunità politica ebraico-americana, che – a stragrande maggioranza (per il suo 75%) e stabilmente nel tempo (ovvero almeno dal 1992) – sostiene il Partito Democratico.
Al contrario, Moshe Kantor è molto vicino al Presidente russo Vladimir Putin e ai governi più sovranisti dell’Europa centrale. Quest’ultimo ha anche un’agenda filoisraeliana orientata a favorire quanto più possibile l’emigrazione di ebrei europei in Israele, attraverso dichiarazioni puntualmente rilasciate alla stampa che denunciano “l’insostenibilità della vita collettiva ebraica in Europa” (Congresso ebraico europeo, Università di Tel Aviv, 2013) e che, sempre a questo scopo, sottolineano quanto cupe siano le prospettive per gli ebrei del continente. La progressiva politicizzazione delle due maggiori organizzazioni ebraiche incrina, però, l’intento comune che entrambe dichiarano di perseguire, minando l’autorità morale di quelle stesse istituzioni che vorrebbero ergersi a guardiane della memoria della Shoah quando di testimoni non ve ne saranno più.
Questo scontro tra diversi orientamenti ai vertici ebraici si è reso evidente nel contrasto tra l’organizzazione delle celebrazioni del primo e del quinto Forum mondiali per l’Olocausto, denunciato da una serie di articoli di Ofer Haderet ed Anshel Pfeffer, giornalisti del quotidiano Ha’aretz (“Hijacking the Holocaust for Putin, Politics and Power”, Ha’aretz podcasts, 19/1/2020). Se, infatti, il Presidente polacco Kaczyński e il Ministero della cultura di Varsavia figuravano in prima linea nella prima edizione tenutasi ad Auschwitz (27 gennaio 2005), nella quinta celebrata allo Yad Vashem (23 gennaio 2020), il Presidente polacco non è stato invitato nemmeno a parlare. Cedendo alle pressioni del Presidente russo Putin – per tramite del Presidente del Consiglio ebraico europeo Kantor -, il Governo israeliano ha deciso di “sacrificare” il Presidente polacco, troppo esplicitamente critico dell’annessione russa della Crimea (2014). Allo stesso modo, Putin ha strumentalizzato la cerimonia tenutasi allo Yad Vashem a fini strettamente politici: per affermare la centralità della Russia nella storia politica del continente europeo attraverso la liberazione di Auschwitz, ma anche e soprattutto il suo rinnovato attuale protagonismo in Medio Oriente e Nord Africa, come anche ai confini dell’Europa orientale.
Il Presidente del Consiglio mondiale ebraico, Ronald Lauder, ha preferito smarcarsi da una cerimonia così connotata politicamente, affermando che la vera memoria si coltiva piuttosto in quei luoghi dove i crimini si sono consumati, attraverso le annuali “marce dei vivi” tenutesi appunto nei campi di Auschwitz-Birkenau in Polonia. Il Governo israeliano, invece, ha ceduto al ricatto simbolico, dimostrando di considerare la manipolazione e il revisionismo storico mali minori sulla via di un tacito accordo con la Federazione russa su dossier ben più pressanti, come il contenimento di Hezbollah – e quindi una deterrenza attiva verso la Repubblica islamica iraniana – ai suoi confini in Siria e Libano. “Perché la sicurezza di Israele dipende oggi in larga misura da Putin”, spiega il giornalista Brice Couturier a France Culture. “Lui solo può infatti dissuadere i suoi alleati iraniani dall’ammassare presso la frontiera quei circa 100.000 miliziani che il generale iraniano Soleimani prometteva di dispiegarvi”. Gli interessi geopolitici di oggi sono in primo piano nelle commemorazioni della Shoah. È per questo che – tralasciando episodi scomodi come la stretta di mano tra Stalin e Hitler, il patto Ribbentrop-Molotov e il trascurabile dettaglio della liberazione materiale del campo di Auschwitz condotta da un contingente militare ucraino facente parte dell’Armata rossa-, il 75° Anniversario della Liberazione di Auschwitz celebrato a Gerusalemme è sembrato marcare una discontinuità forte con il passato, guardando più al futuro che alla Seconda guerra mondiale. Le divisioni emerse nel campo ebraico testimonierebbero non tanto di un differente apprezzamento della storia, quanto la presenza di agende politiche diverse, tali da condurre in futuro a eventi e commemorazioni storiche anche sensibilmente distanti.
Relazioni pericolose
Che la memoria della Shoah sia destinata a politicizzarsi al punto da non vedere più nemmeno la comunità ebraica unita nella sua unitaria celebrazione? Il Presidente israeliano Rivlin è sembrato temere proprio questo quando nel 2016 ha pubblicamente denunciato gli esponenti del partito al potere (il Likud) colpevoli di flirtare con politici europei di estrema destra. Allora, il monito era indirizzato a quei membri del Governo che avevano invitato il leader austriaco Heinz-Christian Strache del Partito della Liberta (FPÖ), in passato tacciato di antisemitismo, a visitare Israele in segno distensivo e di normalizzazione. In quella occasione Rivlin aveva tuonato contro “quelle persone che tentano di stringere alleanze con partiti e gruppi xenofobi ed antisemiti che solo apparentemente sostengono lo Stato di Israele”, aggiungendo che toccasse proprio alla sua generazione, più vicina a quella dell’Olocausto, di “marcare una linea netta: nessun interesse al mondo potrebbe giustificare questa disgraziata alleanza con gruppi (…) impegnati a combattere tutti gli stranieri, i rifugiati e i migranti che osano entrare nel loro spazio” (Times of Israel, 12/4/2016). Anche nel celebrare la giornata internazionale dell’Olocausto del 2019 il Presidente era tornato a denunciare “le idee di superiorità, purezza nazionale, xenofobia e palese antisemitismo che scuotono l’Europa” (1/5/2009).
Se nei discorsi ufficiali si parla ancora spesso della necessità per lo Stato di Israele di mantenere “alti standard morali” anche nelle relazioni internazionali, le autorità israeliane sembrano molto disinvolte al riguardo: di fronte alle accuse di antisemitismo a governi considerati “amici” o “utili” appaiono indulgenti. Israele ha rafforzato la sua cooperazione con il “gruppo Visegrád” a partire dal 2017, ma il tentativo di ospitare un forum con tali Paesi (Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia) a Gerusalemme nel febbraio 2019 -fallito proprio a seguito di polemiche sul ruolo polacco nella Shoah – ha marcato un segno di passo, rivelando l’obiettivo del Ministero degli Esteri israeliano di allargare le proprie relazioni internazionali ben oltre l’Europa occidentale, spesso percepita come ostile nel conflitto israelo-palestinese e, in particolare, rispetto al riconoscimento di Gerusalemme come capitale indivisibile dello Stato ebraico. Una posizione di fermezza sulla necessità di pervenire ad un accordo sulla divisione della città di Gerusalemme, tesa a ribadire il rispetto del diritto internazionale, che l’Unione Europea avrebbe voluto solennemente riaffermare con una risoluzione comune dopo il riconoscimento della città come capitale del solo Stato di Israele tributato dagli Stati Uniti nel maggio del 2018. Risoluzione che, però, fu bloccata da un veto della Repubblica Ceca e dell’Ungheria in Consiglio europeo (Times of Israel, 11/5/2018).
Resta da sottolineare come i nuovi alleati di Israele in Europa orientale appaiano partner affidabili nella lotta al terrorismo islamico e nel conflitto israelo-palestinese, ma non siano altrettanto impegnati a combattere l’antisemitismo in patria. Sebbene essi si contraddistinguano per atteggiamenti profondamenti xenofobi e storicamente revisionisti, quest’ultimi non sembrano rappresentare un problema nelle relazioni con Tel Aviv. Il primo ministro ungherese Orban, ad esempio, non solo esprime apprezzamento pubblico per il “buon regime del dittatore Miklós Horthy” – che negli anni al potere (1920-44) permise e incentivò la deportazione di oltre 400.000 correligionari – ma di recente ha aizzato una campagna d’odio contro il finanziere ebreo Georges Soros, reo di sostenere ONG liberali e impegnate nella difesa dei diritti civili attraverso la sua fondazione Open Society, nonché di aver istituito una bastione laico e antinazionalista, la Central European University, nel cuore della capitale ungherese. Anche gli altri Paesi Visegrád mostrano un atteggiamento compiacente tanto nei confronti del proprio passato che del presente: la Repubblica slovacca, che presenta ancora oggi alte punte di antisemitismo secondo i sondaggi dell’Eurobarometro, ha recentemente dato prova di un disinvolto revisionismo storico, erigendo nel 2014 un memoriale alle vittime della Seconda guerra mondiale che addossa l’intera responsabilità degli eccidi alla Germania, anche se essi furono compiuti in parte con l’aiuto di collaborazionisti ungheresi e slovacchi locali. Poco male che, commemorazioni storiche a parte, secondo l’ultimo sondaggio sull’Europa della Anti-Defamation League (ADL Global 100: An Index of Anti-Semitism), l’antisemitismo sia in netta crescita proprio in quei Paesi.
I timori degli ebrei europei
L’atteggiamento corrivo di Israele nei confronti dell’antisemitismo in Europa è segnalato con allarme dalle comunità ebraiche più indipendenti. La visita in Israele dell’allora Ministro dell’interno italiano Matteo Salvini nel dicembre 2018 ha scatenato un forte dibattito all’interno delle comunità ebraiche italiane e, apparentemente, anche in Israele, antagonizzando il Primo ministro Netanyahu, che l’ha ricevuto con tutti gli onori tributati ad una visita di stato, e il Presidente Rivlin, che con una giustificazione si è gentilmente sfilato dall’incontro (Moked, 13/12/2018).
Anche nella vicina Austria, Ariel Muzicant, Presidente onorario della comunità ebraica, ha più volte espresso il timore che le azioni del Governo israeliano pregiudichino la sopravvivenza degli ebrei europei. “L’atteggiamento di Netanyahu priverà le comunità ebraiche di Germania, Austria e Francia della loro posizione morale. Lo Stato di Israele indebolisce la nostra lotta contro le attività neonaziste in Europa e, dunque, noi non avremo più ragione d’essere” ha lamentato Muzicant al Forum globale per combattere l’antisemitismo, ospitato proprio dal Ministero degli Esteri israeliano (Times of Israel, 23/3/2018).
Un timore che poche comunità ebraiche europee, finora, hanno avuto coraggio di esternare. Tanto più che la volontà di normalizzazione del Governo israeliano nelle relazioni con i partiti di estrema destra e neonazisti europei potrebbe non essere soltanto dettato dal pragmatismo, ma anche dal tacito obiettivo di favorire nuove ondate emigratorie ebraiche dal Vecchio continente, capitalizzando sull’esacerbazione di queste tensioni profonde. L’invito ad emigrare in Israele è costantemente rivolto agli ebrei europei, in quanto essi rafforzerebbero la base demografica israeliana e costituirebbero un gruppo migratorio altamente qualificato. Un pensiero ben enucleato nel discorso pronunciato dal Premier Netanyahu alla Grande Sinagoga di Parigi all’indomani degli attentati alla redazione di Charlie Hebdo, l’11 gennaio del 2015, quando, rivolgendosi agli ebrei francesi, riconobbe che essi avessero diritto a vivere in pace in ogni dove, ma avevano anche un “diritto che non esisteva per le generazioni precedenti: il diritto di unirsi ai loro fratelli e sorelle ebree nella loro patria ancestrale, la terra di Israele; di vivere nel loro Paese libero, nell’unico Stato ebraico, di ergersi con orgoglio davanti alle mura di Sion, l’eterna capitale di Gerusalemme.” Una strategia dell’emigrazione europea per altro condivisa da molti esponenti della destra israeliana, tra cui l’ex Ministro della Giustizia Ayelet Shaked (del partito di destra HaBayt haYehudi – la Casa ebraica) che alla Marcia dei sopravvissuti del 2018 dichiarò che, visto che l’Europa sarebbe rimasta sempre intimamente antisemita, ora gli ebrei “potevano dire con orgoglio che, anche se l’intero mondo li aveva abbandonati, essi non avrebbero più avuto bisogno della loro simpatia perché in Israele il sangue ebraico non sarebbe più stato versato.” Un chiaro invito rivolto agli ebrei di tutto il mondo a considerare “Paese sicuro” solo ed esclusivamente Israele, ma anche un’aspettativa finora solo parzialmente soddisfatta, se si guardano i flussi migratori degli ebrei europei verso lo Stato ebraico (55.000 negli anni 2009-2019 secondo i dati dell’Agenzia Ebraica, soprattutto in provenienza dalla Francia).
La fatica della memoria
Nel momento in cui gli ultimi sopravvissuti della Shoah lasciano questa terra, il loro messaggio è consegnato come una lettera sigillata in una bottiglia attraverso migliaia di materiali digitali, documenti e reperti, ma quella “bottiglia” è comunque affidata alle correnti della storia, che rendono solo parzialmente prevedibile da chi essa possa essere raccolta e quanto fedele ne rimarrà la restituzione. Lo storico francese Pierre Nora scrisse che “l’Olocausto costituisce uno dei rari luoghi della memoria sovranazionale, un simbolo capace di valicare le frontiere ed essere appropriato come elemento fondatore di un immaginario e di una rappresentazione del passato globali.” (Le Figaro, 16/2/2018).
Le politiche di museizzazione e le commemorazioni nazionali messe in campo in ordine sparso da tutti i Paesi europei, da Israele e dagli Stati Uniti sembrano invece indicare una progressiva nazionalizzazione della sua memoria, un ritorno indietro, nella visione di Pierre Nora, o un “conflitto di memorie”, nelle parole di Milena Santerini, coordinatrice nazionale italiana per la lotta contro l’antisemitismo, che osserva come in Europa i governi nazionali “utilizzino il ricordo degli eventi dell’Olocausto piegandolo a fini nazionalistici” (Santerini, CDEC, 2020). O a fini politici tout court, come denunciato dallo storico polacco Jan Grabowski in un suo recente editoriale (“Germany is fueling a false history of the Holocaust across Europe”, 22/6/2020) apparso su Ha’aretz, in cui spiega come il Ministro degli Esteri Heiko Maas e l’eminente storico tedesco Andreas Wirschung, con la loro lettera congiuntamente siglata per il 75° anniversario dalla capitolazione della Germania nazista (“Kein Politik ohne Geschichte”, 7/5/2020,), paradossalmente abbiano contribuito a “distorcere la storia” addossando l’intera responsabilità della Shoah alla sola Germania. Con questa assunzione di responsabilità esclusiva da parte delle autorità tedesche, spiega infatti Grabowski, non solo si liquidano le sottaciute ma analoghe responsabilità di altri europei che, senza alcuna coercizione e di loro libera iniziativa, parteciparono allo sterminio, minimizzando il consenso di cui godettero le allora politiche naziste in Europa tra i cittadini comuni, ma si forza l’interpretazione del passato piegandola a fini politici odierni, più o meno dichiarati, come quello espresso nel discorso di Maas e Wirschung sulla necessità che la memoria dell’Olocausto non torni a “dividere l’Europa”. In altri termini, le autorità tedesche preferiscono addossarsi l’intera responsabilità della Shoah oggi, di cui avrebbero ormai assimilato la pesante eredità, piuttosto che ripartirla equamente con i propri recalcitranti partner europei, soprattutto dell’est (Slovacchia, Ungheria, Polonia, Lettonia, Slovacchia e Croazia in primis), dando loro un ulteriore pretesto di dissidio all’interno dell’Unione di oggi.
Non è, poi, questa l‘evoluzione più inquietante. Le commemorazioni, ritualizzate o meno che siano, attengono alla sfera pubblica ufficiale, ma per essere significative i loro messaggi devono essere socializzati in profondità, toccare le coscienze degli uomini e delle donne, di una maggioranza di cittadini, i veri guardiani della memoria collettiva. Né l’empatia emotiva né la minuziosa ricostruzione storica sono sufficienti se si smarrisce il senso di un simbolo o di un ricordo perché non si è più in grado di ricostruire lo sfaccettato contesto – culturale, politico e sociale – in cui determinati accadimenti hanno avuto luogo. Nel 2020, una netta maggioranza dei cittadini europei continua a mantenersi fedeli alla versione ufficiale della memoria della Shoah tramandata dai rispettivi governi, ma già da ora, una piccola ma percepibile minoranza mostra una crescente disaffezione.
Nel 2015, un sondaggio della Bertelsmann Stiftung sulle relazioni israelo-tedesche ha evidenziato un forte desiderio di quello che in Germania viene definito come “Schlussstrich”, ovvero il sopravvenire del momento di in cui si pone porre termine ad un dibattito o ad un’eredità storica pesante come la responsabilità della Shoah, sostenuto da parte del 65% degli intervistati sotto i 40 anni. I giovani tedeschi sarebbero a maggioranza stanchi di trascinare sulle proprie spalle il peso di eventi risalenti a ottant’anni prima e si chiederebbero con sempre maggiore frequenza che cosa abbiano a spartire con quel passato. Non si tratterebbe di un tentativo di negazionismo, quanto dell’aspirazione ad emanciparsi da un passato gravoso e labilmente connesso al presente. La memoria di quanto accaduto ad Auschwitz rimarrebbe per i giovani tedeschi importante a livello nazionale, ma non più un profondo simbolo identitario a livello personale (“Deutschlandfunk”, Bertelsmann Umfrage, 26/1/2015).
Un dato preoccupante monitorato per la Germania, ma presente anche in altri Paesi europei: secondo l’Anti-Defamation League, tre quarti dei Polacchi dichiarerebbero che gli ebrei parlino ancora eccessivamente dell’Olocausto, seguiti dal 44% degli Austriaci, dal 40% dei Belgi, dal 38% degli Italiani e dal 37% degli Spagnoli (sondaggio ADL, novembre 2019). In sintesi, una certa fatica emergerebbe tra gli Europei circa la memoria rituale della Shoah nei rispettivi Paesi, probabilmente approfondita dall’emergere di una nuova generazione che non si sente più definita dalla Seconda guerra mondiale, ma anche che, con sempre maggiore franchezza, risponde al senso di colpa infuso dalla Shoah con l’affermazione che “anche gli ebrei hanno compiuto crimini” in riferimento al conflitto israelo-palestinese. Il quotidiano europeo Politico riporta infatti che un terzo degli europei intervistati in proposito ritenga che gli ebrei si interessino alla commemorazione dell’Olocausto per “avanzare la propria agenda politica” (27/11/2018), rivelando una grande confusione tra ebrei ed israeliani, una confusione ingenerata in primis dalle autorità israeliane che non perderebbero occasione per sfumare la distinzione tra i due gruppi. E se in Europa occidentale l’antisemitismo non è un fenomeno dilagante, le teorie della cospirazione sulla lobby sovranazionale ebraica e le manifestazioni di hate speech anti-ebraiche, soprattutto in rete, assistono ad un ritorno massiccio negli ultimi anni.
Idee per non perdere la memoria
Una “fatica” prevedibile secondo lo storico francese Georges Bensoussan, che ha sempre sostenuto la necessità di de-giudaizzare la Shoah affinché se ne conservi non una ritualizzazione vuota, ma una viva coscienza del suo messaggio centrale. Bensoussan ripete nel suo libro (Auschwitz en héritage? D’un bon usage de la mémoire, Paris, Éditions Mille et une nuits, 1998”) che non bisogna santificare ed essenzializzare la memoria ebraica, ma mettere in risalto l’universalità del crimine, piuttosto che mettere in scena l’eterna colpevolizzazione dell’Europa, che essenzializza la morte degli ebrei nutrendo a sua volta l’antisemitismo. Il che non significherebbe sminuire la lunga tradizione antisemita, la burocratizzazione delle società di massa e il conformismo sociale che furono tra i principali elementi del successo della politica genocidaria nazista.
Vi sarebbero molti metodi e temi innovativi per veicolare i contenuti essenziali del suo messaggio etico alle giovani generazioni, anche quando gli ultimi testimoni non saranno più qui a ripetere ostinatamente quel “mai più”. Si potrebbe affrontare il tema dal punto di vista di un “biopotere”, ovvero una definizione degli uomini in termini riduttivi e puramente biologici, un potere che non può mai essere attribuito agli Stati, o in termini di responsabilità personali, che rimangono in capo ad ogni uomo in qualsiasi generazione, contro la spersonalizzazione e polverizzazione delle grandi scelte collettive nelle società contemporanee. Come bene sintetizza Valentina Viglione nella sua recensione al libro di Bensoussan, lo storico francese ci invita soprattutto a riflettere in termini politici, analizzando le “terribili conseguenze che possono scaturire dall’assimilazione dei diritti fondamentali a quelli nazionali” (Fondazione Camis de Fonseca, 29/9/2014). Mantenere viva la memoria della Shoah richiederà uno sforzo molto più ingente dell’istituzione di qualche cerimonia commemorativa in Europa. Richiederà, come scriveva Enzo Traverso, tornare a interrogarsi su “quale sia il senso di ciò che si è vissuto”, sapendo “che la risposta non sarà mai univoca né immutabile.” Richiederà la necessità che le nuove generazioni tornino ad appassionarsi allo studio della storia, che non sarà più tramandata in forma orale da una generazione di grandi vecchi che vi parteciparono, ma necessariamente mediata da altri uomini, uomini di un altro tempo.
Senza dimenticare che nella nuova Europa delle minoranze musulmane, la Shoah potrebbe essere impugnata come “norma morale europea” da gruppi sociali e religiosi che non si sentono parte dell’auto-narrazione storica delle rispettive maggioranze e che potrebbero opporvi resistenza proprio in virtù del carattere normativo e staticamente commemorativo che ha assunto nelle società europee, senza che queste ultime abbiano meditato a sufficienza o riconosciuto analoghi crimini perpetrati in altri contesti storici, come quelli coloniali dai cui contesti molti migranti in Europa oggi provengono. Infine, vi è anche la possibilità che, nonostante gli sforzi ripetuti dalle autorità statali, la coscienza della Shoah si perda e annebbi nelle rispettive società per un insieme concomitante di fattori, come il numero esiguo di ebrei rimasti in Europa (circa 1.000.000), la crescente distanza emotiva e politica nei confronti di Israele (che è ricambiata da parte israeliana, con il 45% dei cittadini israeliani che considerano l’”Europa” un nemico, sondaggio Mitvim sulla politica estera, 2019), una diffusa ignoranza storica con la conseguente incapacità di collocare l’evento nello spazio e nel tempo, ma anche la crescente irrilevanza dei valori che hanno contrassegnato il secondo dopoguerra europeo, tra cui spicca quello di costruire un’Europa unita e coesa sulle macerie della guerra. Il ritorno dei nazionalismi e delle piccole patrie locali non aiuterà la preservazione della memoria della Shoah più di quanto non possa aiutare i Paesi e i cittadini europei, ma il messaggio etico dei sopravvissuti andrà inesorabilmente perso se i 27 Paesi membri dell’Unione e vari Stati esteri penseranno di appropriarsi della memoria della Shoah gli uni a spese degli altri, rendendola artificialmente protagonista ed utilizzandola come espediente retorico per interpretare fatti e scelte di oggi che le sono del tutto estranei.
Foto: RONEN ZVULUN / POOL / AFP